IL REFERENDUM IRLANDESE
QUESTA «FREDDA» EUROPA RISCHIA GROSSO
di ANDREA LAVAZZA (Avvenire, 12.06.2008)
Nell’era dell’informazione in tempo reale, dei media che svelano dettagli e retroscena del potere, dei blog su Internet che offrono un ampio panorama di versioni ’alternative’, in Irlanda si sta consumando un colossale cortocircuito comunicativo. Le cui responsabilità si dividono equamente tra l’Unione Europea e gli attivisti del «no» all’approvazione del Trattato di Lisbona. Il processo di integrazione continentale, ormai è noto, resta appeso al referendum odierno: 4,2 milioni di cittadini sono chiamati a esprimersi sulla nuova Carta, varata con fatica dopo la bocciatura della precedente a opera degli elettori francesi e olandesi nel 2005. Alla vigilia, i sondaggi danno un equilibrio tra i due fronti e una notevole quota di indecisi. Una bocciatura, anche per pochi voti (comunque un’inezia rispetto alla popolazione dei 27 Paesi membri), non è più irrealistica e basterebbe a fermare l’entrata in vigore del nuovo assetto istituzionale della Ue, previsto per l’inizio del 2009. Le altre nazioni hanno optato per la ratifica parlamentare; Dublino è vincolata dalla propria Costituzione a un passaggio plebiscitario. Che Bruxelles abbia sottovalutato la consultazione irlandese e non sia riuscita a trasmettere il senso del Trattato è un fatto lampante, così come la confusione e l’ignoranza che hanno regnato nella campagna che ha preceduto l’andata alle urne.
Il partito dei contrari fa leva sulla presunta perdita di influenza del governo, su una non documentata impennata della tassazione e su una fantomatica imposizione di norme comunitarie più permissive in materia di aborto ed eutanasia per arrivare alle leggende di un esercito europeo che imporrà la leva obbligatoria ai giovani del Paese. I sostenitori del «sì» avrebbero avuto buon gioco a ricordare che la cosiddetta Tigre celtica è diventata una delle nazioni più ricche e dinamiche proprio grazie ai trasferimenti ottenuti dall’Europa (40 miliardi netti di euro) e dall’ingresso nel mercato unico, con agevolazioni e deroghe normative, che hanno fatto dell’isola di smeraldo (dal colore delle sue campagne) un modello di innovazione e competitività economica. Se il reddito pro capite è tra i primi dell’Unione, ci si aspetterebbe un po’ di gratitudine. Ma il punto che molti analisti non hanno colto è che i nobili sentimenti (dei quali gli irlandesi non sono certo privi) necessitano di soggetti identificabili verso cui esprimersi e manifestarsi. E il problema della Ue sta proprio nella sua natura di ectoplasma burocratico, cui spesso sembrano mancare carne e sangue, progetti e slanci, capaci di suscitare, se non l’entusiasmo, almeno la dedizione dei suoi cittadini.
Fare propaganda alla Carta di Lisbona avrebbe, allora, voluto dire che non si va a costruire un moloch impersonale, distruttore di autonomie e tradizioni nazionali, ma si dà invece maggiore snellezza ed efficacia a istituzioni - la Commissione in particolare - che possono ben integrare le politiche di ciascun Paese membro.
Due esempi: iniziative coordinate per fare fronte alla tempesta energetica, con il petrolio che schizza a prezzi mai raggiunti e ’brucia’ il benessere di molti europei; una diplomazia continentale più determinata e credibile, capace di farsi valere su alcuni fronti internazionali, magari quelli delle emergenze umanitarie, a partire dal genocidio in Darfur fino alla Birmania doppiamente provata dalla repressione del regime e dalla mancanza di aiuti dopo le devastazioni del ciclone.
Se da Dublino verrà un pur stiracchiato via libera, si potrà pensare a qualche rimedio. In caso di un bruciante «no», l’Europa dovrà fronteggiare una crisi di non facile soluzione. In cui diventerà probabile, se non inevitabile, il ricorso a qualche forma di ’doppia velocità’. L’integrazione camminerà sulle gambe di quelle nazioni che hanno compreso la posta in gioco e sono disponibili ad ’animare’ l’Unione come vera risorsa e non come peso da sopportare (o boicottare).