Vitiello: la pretesa di creare il Regno di Dio in terra, negando il rapporto col divino, porta violenza nella storia. Anche nazismo e comunismo sono figli degeneri della secolarizzazione delle radici greco-cristiane d’Europa
Ecco perché la bontà «impazzita» genera mostri e tiranni
di FRANCESCO TOMATIS (Avvenire, 16.05.2008).
Da molti anni e con molti libri il filosofo Vincenzo Vitiello ha percorso e sperimentato una propria personale via ad approfondire il cristianesimo: non solo la teologia ma anche la nuda fede. Mai come nel suo ultimo volume, Ripensare il cristianesimo. De Europa (Ananke, pp. 288, euro 16,50), ha tuttavia affrontato direttamente e ampiamente il nesso inscindibile, benché spesso contradditorio, fra cristianesimo ed Europa, nonché fra cristianità e grecità e ancora più a fondo fra Grecia e Asia. L’interrogativo e la cornice storica da cui Vitiello avvia la sua indagine è la conclusione di un’età recente, quella apertasi nel 1789 e chiusasi con il 1989, cioè fra la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e la caduta del Muro di Berlino.
Età del «grande e nobile ideale dell’autofondazione umana della comunità e della storia», la cui più alta teorizzazione sta nella concezione hegeliana dello Stato, ideale che tuttavia «non ha retto alla prova della storia», dimostrando come «un’ideologia fondata sui valori più alti della solidarietà umana sia capace della più spietata oppressione dei diritti dell’uomo ». Il filosofo napoletano dichiara subito la necessità di andare a scavare le radici remote di tale catastrofica tragedia europea. Nazifascismo e comunismo non sono che figli, benché degeneri, della secolarizzazione delle radici cristiane e greche dell’Europa e ad esse dunque occorre volgere lo sguardo interrogativo, «per capire se non si celi proprio in esse quel ’male necessario’ che sottraendosi alla vista ci ha confuso e sviato».
Le prime tracce sono individuabili - secondo Vitiello - già in quelle teologie della storia che, secolarizzando il cristianesimo di Gesù, ne riducono la carica redentiva, efficacemente attribuita invece dal Cristo all’istante stesso, secondo una convergenza con la riflessione platonica, come ben comprese Kierkegaard. Vitiello individua in certe interpretazioni delle epistole di san Paolo la originaria pretesa di realizzare il Regno di Dio in terra, negando il rapporto verticale con il divino in una sua completa umanizzazione e storicizzazione. Se si storicizza l’éschaton, facendone un futuro programmato, la violenza entra nella storia come necessaria al bene, senza possibilità, da ultimo, di arginare veramente il male.
Secondo Vitiello non c’è religione senza che il rapporto reciproco fra gli uomini, la dimensione comunitaria orizzontale, lo stare assieme, sia ad un tempo apertura all’obbligo verticale, al divino mai umanizzabile, benché proprio umanamente rivelatosi, ma appunto attraverso il paradosso, l’antinomia, la lacerazione di cui non può privarsi un cristianesimo veramente salvifico, non secolarizzato, umanizzato, annichilizzante e annichilito. Un cristianesimo evangelico e quindi ecclesiale assieme, che colga il senso giovanneo dell’escatologia: «Viene l’ora ed è adesso» (Gv. 5, 25), è per Vitiello la possibile esperienza nell’istante della stessa parousía del Dio vivente: uno stare-accanto a tutti gli altri uomini, senza violenze storicizzatrici, di fronte all’accomunante grande mistero. Quello stesso mistero rivelato sulla croce dal Dio senza braccia nell’abbandono, che è assieme un uomo abbracciante a sé ogni straniero.