Inviare un messaggio

In risposta a:
TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ...

RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005). Una "memoria" - di Federico La Sala.

(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
giovedì 25 aprile 2024
Secondo quanto suggerisce Vitruvio (De architectura, 2,1,3) la struttura del tempio greco trasse la sua origine da primitivi edifici in argilla e travi di legno (Wikipedia)
IL SEGRETO DI ULISSE: "[...] v’è un grande segreto /nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri./ Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,/rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso./Intorno ad esso feci il mio talamo [...]"
(Odissea, Libro XXIII, vv. 188-192).
EUROPA. PER IL (...)

In risposta a:

> RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". ---- Un incontro con Theo Angelopulos (diMario Serenellini).

domenica 8 novembre 2009

l’incontro

Uomini contro

Theo Angelopulos

-  Per tutta la sua vita da regista ha teso trappole al tempo che passa. Il tempo ibernato nel marmo della sua Grecia e quello del Novecento che ha vissuto da protagonista. E oggi che l’Europa affonda nella sua mancanza di identità, ripete: "Siamo sempre alla storia di Omero, all’Odissea, si decide di partire e si finisce per tornare. Anche se non si sa, alla fine, se si è tornati davvero"

-  Credevamo che saremmo rinati a nuova vita, ma tutto quello che ci aspettavamo di fare e di ottenere è precipitato Non siamo riusciti a cambiare il mondo

di Mario Serenellini(la Repubblica, 08.11.2009)

MONTREAL . «Tutto esiste già prima di un film: linee, forme, ritmi, la musica che ci portiamo dentro. Realizzare un’opera d’arte significa ritrovare questo tutto preesistente. Non al cinquanta per cento, altrimenti è un fallimento, ma al cento per cento». Nel suo quasi mezzo secolo di cinema, Theo Angelopoulos ha ogni volta cercato d’inghiottire per intero quel tutto e, film dopo film, di riconsegnarcelo intatto: non solo negli intrecci spaziali, ma nella sua anima più intima e inafferrabile, il tempo. Angelopoulos, per tutta la vita, ha teso trappole al tempo. Contraendolo in simultaneità visionarie («Il passato è solo il presente in altra forma», dice, citando Brecht) o, talvolta, cogliendolo di sorpresa, strappando alla sua immutabile, regolata macina d’ore supplementi inattesi, tipo L’eternità e un giorno. Tutto, nel cinema di Angelopoulos, è tempo e oltre il tempo, come quel giorno in più, aggiunto a un cronologico infinito.

In La recita, il film di quattro ore che nel 1975 l’ha introdotto trionfalmente nel nuovo cinema europeo, quattordici anni di storia nazionale (1939-1952) diventano un viavai tra teatro, politica e vita privata, scheggia di memoria collettiva da Elettra a Hitler, dalla Resistenza all’occupazione angloamericana. Memoria che si amplifica nei film successivi, da Viaggio a Citera a Un paesaggio nella nebbia, a Lo sguardo di Ulisse, disponendo i tasselli di ieri sempre più lontani e di domani incombenti in un eterno presente: «In Grecia il passato è solido marmo, è presente sempre, sin dalla nascita, sia nella gente comune che nei poeti, come Kavafis, Seferis, che non han fatto che dialogare con l’antichità. Nel mio nuovo film, La polvere del tempo, è come se il tempo non esistesse e tutto fosse al presente. Come scrive Eliot, il tempo non è passato né futuro ma presente: il presente è il futuro al passato».

Proiettato a Montreal al Festival des Films du Monde, dopo la partecipazione alla Berlinale, secondo episodio dell’ennesima trilogia sui "sogni infranti", aperta nel 2004 da La sorgente del fiume, il film è una saga visiva sulla perdita di ogni illusione di un mondo migliore, riassunta dalla sequenza glaciale, all’alba del Duemila, della neve che cade silenziosa su una Berlino deserta e un’era consunta.

La polvere del tempo, coprodotto dall’Italia, è un nuovo, lungo viaggio dentro la storia, dilatato al Novecento più sanguinoso e cieco, nazismo, Stalin, Vietnam, fino alla caduta del Muro di Berlino. «Sono un maratoneta del cinema», scherza il regista greco, accolto dal pubblico canadese con una standing ovation alla prima del film. «A Maratona ho la mia casa di campagna, scampata di poco all’incendio che ha devastato la nostra estate. I miei film sono percorsi tenaci, senza traguardi possibili, dentro il mio secolo, devastato da altri incendi, altre tragedie. Il Novecento è la mia storia. Sono nato ad Atene il 27 aprile 1935 e mi sono trovato faccia a faccia con la prima dittatura in Grecia, quella del generale Matexas. Trentadue anni dopo, golpe e regime Papadopoulos. Poi, la destra di Karamanlis. Ora riecco Papandreu, che però non ha nulla a che fare con la politica di suo padre. Ogni volta, impossibile rimanere solo spettatori: sono avvenimenti di cui abbiamo subìto ogni minima conseguenza, i greci, la mia famiglia, io. La mia vita s’è iscritta in questa vergogna, come quella di mia madre, delle nostre famiglie: ecco la storia, la nostra e quella degli altri».

La sua, in particolare? «Ad Atene ho seguito i corsi di diritto, ma senza l’ambizione di divenire avvocato. È stato solo un modo di congelare l’attesa, prima di partire. Mi sono sorbito anche il servizio di leva: due anni. È stata la prima volta che mi sono sentito lontano dalla Grecia, Paese di luce, dove, secondo i più allettanti slogan turistici, il sole splende sempre. Da soldato, sono stato sballottato in posti senza sole, senza amici, ricoperti di neve e solitudine».

La fuga? «A venticinque anni. Sono partito con il biglietto in tasca: e nient’altro. Sono arrivato a Parigi, nel 1960, in piena Nouvelle Vague, utopia di cinema, di cultura, di politica. Ognuno aveva l’impressione che tutto sarebbe cambiato, che saremmo rinati a nuova vita».

E invece? «Quel che oggi gli spettatori apprezzano nel mio cinema, cioè l’afflato poetico, un lirismo estenuato, è solo un profondo senso di disillusione: tutto quel che ci aspettavamo di fare e di ottenere è precipitato, non siamo riusciti a cambiare il mondo.

Anche La polvere del tempo, come i film precedenti, è una dichiarazione di disfatta: se il pubblico non lo percepisce, è perché, come diceva François Truffaut, il cinema è sempre meno di quel che abbiamo voluto dire. In quella Parigi di paradiso, ho trascorso quattro anni, seguendo corsi di letteratura e antropologia alla Sorbonne e studiando cinema all’Idhec, dove ho conosciuto Jean Rouch. Sono tornato in Grecia nel 1964, critico cinematografico d’un quotidiano di sinistra, Allaghi, chiuso tre anni dopo dai colonnelli».

Spezzata la stagione di critico, inizia quella di cineasta, già assaggiata con un paio di corti e prove d’attore. «Sono passato dietro la cinepresa per fare politica sotto forma di cinema, con ampio ricorso, dati i tempi, alla metafora. Sin dal primo titolo, nel 1970, Ricostruzione di un delitto, girato con una manciata di soldi, in bianco e nero, in acrobatica clandestinità, ho inserito numerose allusioni alla Grecia contemporanea. Prima proiezione, al Forum della Berlinale, dove l’ho portato senza permesso, le pizze nascoste in una valigia di metallo. In Grecia, dove ho poi partecipato al Festival di Salonicco, sono rientrato senza più preoccuparmi di occultare le pizze. La condizione di clandestinità che ha segnato le riprese di vari miei film, l’ho trovata sempre eccitante: avevo l’impressione di prender parte, in altro modo, alla Resistenza. Sensazione captata da alcune scuole di cinema, come prova il giudizio espresso da Andrzey Wayda quando ha visto La recita a Parigi: "È fondamentale che il film sia stato girato in clandestinità, costruendosi all’interno di sé"».

Clandestino è oggi l’allarme d’una realtà più cruda, che non riguarda più il cinema ma la nostra quotidianità, in Italia come in Grecia. «Il mio Paese non è l’ultimo approdo, ma solo una tappa dell’immigrazione che si rovescia sull’Europa. Da noi arrivano dalla Turchia, in fuga soprattutto dall’Afghanistan, esodo iniziato quando gli Usa vi hanno portato la guerra. Sono soprattutto i giovani che partono, per non morire nel proprio Paese. Purtroppo, è stato ora distrutto un villaggio di rifugiati a Patrasso, punto di partenza, magari su camion di trasporto merci dove i clandestini spesso soccombono, per l’Italia e altri paesi del miraggio-Europa. È l’Unione Europea che dovrebbe intervenire, affrontando il problema di questi viaggi della morte, stabilendo regole precise contro le attuali allergie razziste agli sbarchi».

Il suo cinema è stato subito sensibile a queste emergenze. «Come ignorarle? Stiamo attraversando un periodo di grandi immigrazioni, come nel Medioevo. Fin dal 1991, con Il passo sospeso della cicogna, ambientato in un villaggio straripante di rifugiati, alla frontiera di due paesi immaginari, ero ricorso al paradosso per mostrare l’assurdo delle divisioni artificiali, razziali, religiose, politiche, tra gli uomini, facendo unire in matrimonio gli sposi, uno al di qua, l’altro al di là del confine. L’idea m’era venuta durante un viaggio a New York, quando ho visto nel Bronx due neri che in perfetta sincronia danzavano ai due lati opposti d’una strada. Ciò mostra tra l’altro l’imprevedibilità dell’ispirazione. Occorre avere sempre occhi aperti e mente sveglia: solo se si è ricettivi si riceve».

Non è anche Angelopoulos, con i suoi viaggi continui, gli espatri, gli andirivieni grande schermo tra miti antichi e realtà contemporanea, un uomo diviso, di frontiera? «Non ho mai lasciato davvero la Grecia, se non per studi o per lavoro. Viaggio molto, è vero, ma in una maniera che definirei brutale: due giorni in un posto, e via. Attraversare un paese: l’espressione abituale per definire un viaggio va presa, nel mio caso, alla lettera. La mia identità è dunque integra. Ma da rivedere alla luce di quel che mi hanno fatto capire in Sardegna, quando ho presentato Alessandro il Grande all’Università di Cagliari: "Non c’è Grecia, non c’è Italia, non c’è Spagna né Francia, c’è il Mediterraneo. Quel che conta è l’affinità di temperamenti". Dunque, dovrei definirmi, prima ancora che greco, meridionale. Sarà per questo che mi sono divenuti subito familiari, quasi fratelli, gli attori italiani con cui ho lavorato, Omero Antonutti, Marcello Mastroianni, Gian Maria Volonté, e il mio sceneggiatore del cuore, Tonino Guerra. E sarà soprattutto per questo che un caffè così, non riesco proprio a berlo!», ride Angelopoulos, fissando il suo espresso canadese, derelitto sul fondo d’una tazza gigante.

Il suo cinema non è anche una risposta a questo caffè, ibrido clone? Attento alle ferite del distacco, della distanza, spaziale e temporale, non è un cinema d’esilio, magari interiore? «Heidegger dice che la nostra identità è la lingua di nostra madre. Ma anche l’aroma dell’infanzia, i suoni, i visi, i profumi, contribuiscono a creare un’identità, che non è, si voglia o no, quella dichiarata. Siamo sempre alla storia di Omero, all’Odissea: si decide di partire e si finisce per tornare. Anche se non si sa, alla fine, se si è tornati davvero».


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: