Acropoli
Ecco il museo e riparte la sfida al British
Inaugurato ad Atene il gigantesco spazio che ospita i marmi del Partenone I greci tornano a chiedere la restituzione dei tesori trafugati ed esposti a Londra
la Repubblica, 22.o6.2009
Hanno fatto le cose in grande, all’antica: con una cerimonia solenne, evocativa. Un po’ come quando Delfi e Olimpia chiamavano qui, in Grecia, l’intero mondo di allora e tutti arrivavano. Adesso la Grecia aveva una sorpresa grande da mostrare: eccoli tutt’insieme i Marmi del Partenone, nel Nuovo Museo dell’Acropoli, ricomposti per la prima volta dopo più di due secoli dallo smembramento.
L’hanno voluta far conoscere, invitando presidenti, ministri della cultura, e Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, e il direttore generale dell’Unesco. E l’hanno spiegato a tutti che questo è il Sancta Sanctorum dell’arte ateniese e che quelle sculture messe lì, così - con gli originali incastrati tra le copie dei pezzi ancora esposti al British Museum - per loro sono ancora sacre: erano meta della processione più affollata, del rito più sentito nell’Atene democratica di Pericle. Si saliva fino al Partenone, per ringraziare, nel giorno del suo compleanno, Athena Vergine (Parthenos) di aver scelto l’Attica, di averle donato l’ulivo e assicurarsi che continuasse a benedire la sua città.
Fu proprio Pericle a voler così bello il Partenone. Due architetti - Ictino e Callicrate - in 15 anni, dal 447 al 432 a.C., glielo realizzarono, fastoso come non mai: 69 metri e 54 centimetri per 30,87, con 17 colonne di 10 metri sui lati lunghi e otto sui lati corti. Ci pensò Fidia a farne un capolavoro di arti sacre: due frontoni scolpiti; un fregio che correva tutt’intorno scandito da bassorilievi mai visti prima così belli, e 92 metope che giocavano con il sole. All’interno una statua della dea - 12 metri di oro e avorio - stupì il mondo.
Il marmo delle sculture, con i millenni, ha perso i colori squillanti con cui era dipinto: si è fatto dei toni dell’ambra, quasi terroso. E così ora - ricomposto al terzo piano del museo - ritma con evidenza il gesso candido della settantina di copie inserite tra gli originali per reintegrare le composizioni: son messe lì a denunciare - con un solo colpo d’occhio - tutte le parti squartate via. È un bianco che urla: le copie in gesso son lì, ma pronte a esser smontate via per lasciar posto agli originali.
L’appello del presidente greco Karolos Papoulias - «È tempo che i Marmi tornino a casa!» - ha segnalato che il conto alla rovescia per il rientro in patria dei reperti più contesi del mondo comincia oggi.
I Greci ce l’hanno fatta a squassare la storia infinita, con loro che supplicano, cuore in mano, e il British imperiale che nicchia, cincischia, promette, delude. Stavolta giocano duro: ci hanno investito 130 milioni di euro, puntati tutti sul progettone di Bernard Tschumi, una delle star dell’architettura mondiale che - con il collega Michael Photiadis e Dimitrios Pandermalis, archeologo classico - ha studiato il modo per sistemare oltre 4000 pezzi: fregi enormi, e ceramiche di pochi grammi, roba da cerimonia e trofei assai profani.
Adesso il nuovo museo è lì - a 300 metri dalla spianata dei templi, proprio sotto l’Acropoli inquadrata nei suoi finestroni - pronto per 10 mila visitatori al giorno. Modernissimo, pieno di luce, con pavimenti trasparenti (per mostrare uno strato archeologico che era un peccato nascondere) è pronto a dar battaglia.
Qualche scaramuccia l’ha già affrontata: c’è chi l’ha attaccato perché troppo grande, troppo caro, troppo estraneo al quartierino in cui questo mastodonte di 23 mila metri quadri è atterrato: tre parallelepipedi rettangolari sovrapposti, con l’ultimo sfalsato per esser parallelo al Partenone.
Ma l’arte greca non si era mai vista così bene come qua dentro. Le polemiche ateniesi son nulla rispetto alla missione che l’intero paese gli affida: sconfiggere le resistenze del British Museum - polverizzare l’obiezione che Atene non aveva un museo all’altezza dei Marmi - e convincere i suoi manager (lasciati soli dal governo inglese. «Fatti loro!» han detto proprio ieri) a restituire ciò che Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, ambasciatore inglese presso la Sublime Porta, fece segar via dal Partenone, accordandosi con i Turchi che allora occupavano la Grecia.
Era il 1801 quando si cominciò a sezionarlo, pezzo a pezzo: 56 lastre dal fregio (due terzi del totale), 15 metope, enormi schegge dai frontoni, una cariatide dell’Eretteo lì a fianco, furono staccate e imbarcate per la Gran Bretagna. Il conte pensava al business. Poi nel 1816, pieno di debiti, accettò di vendere - per l’equivalente di due milioni di euro - i reperti al governo inglese che li donò al British.
La Grecia cominciò a soffrirne allora. Lord Byron soffrì con lei. «Sono testimonianze della nostra prima democrazia», protestò al mondo nel 1982 Melina Mercouri, riaprendo il contenzioso.
Sarà che gli due ultimi millenni - tra Romani, Goti, Bizantini, Turchi, Nazisti e Colonnelli - non sono andati granché, quell’Atene di Pericle, Fidia & C. che il Partenone vollero lì, così, è rimasta viva, vicina. E santa è stata sempre, per più di 20 secoli, la Rocca della Vergine. Il suo Partenone divenne la Chiesa di Nostra Signora di Atene, poi moschea. I cannoni dei veneziani, all’arrembaggio qui nel 1687, decretarono l’inizio della fine.
Il fregio del corteo sacro per Athena fissa, come in un’istantanea, chi vi partecipava: gli efebi sono tornati a cavalcare, sfilano anche i portatori d’acqua. Più in là i ragazzi con i tori per il sacrificio. Ma i primi sono copie, i secondi son quelli originali, i terzi - anch’essi bianchissimi - riproduzioni. Ed è qui, al terzo piano - di fronte alla materializzazione anche cromatica di una separazione grottesca, con mezzo Partenone qui e mezzo lì, a 2000 chilometri - che il nuovo museo vince la guerra psicologica per cui è nato.
Il direttore del British Museum - pur invitato - non era presente all’inaugurazione.