Agosto 1968
La «primavera di Praga», una lezione per l’Europa di oggi
Il cosidetto «socialismo dal volto umano» conteneva ideali che sarebbero molto utili
di Federigo Argentieri (Corriere della Sera, 20.08.2016) E’ probabile che il termine Primavera di Praga sia pressoché sconosciuto a chi ha meno di cinquant’anni, a meno che non si tratti di persone professionalmente impegnate nello studio della storia o della politica internazionale; ed è altrettanto probabile che nella Repubblica ceca e nella Slovacchia di oggi il 21 agosto - data della fine (nel 1968) di quella esperienza, causata dall’invasione armata da parte di cinque paesi guidati dall’URSS - sarà ricordato svogliatamente e soltanto come la fine di un’illusione ingenua, per non dire stupida.
Similmente, è prevedibile che in Occidente si dia poco spazio a quello che oltretutto non è neanche un anniversario tondo, per concentrarsi sui problemi odierni, «ben altrimenti importanti»: il terrorismo, l’immigrazione, il rapporto tra multiculturalismo e lealtà alle istituzioni, il disastro umanitario in Siria, la perdurante instabilità in Libia e così via. Sarebbe invece necessario prestare maggiore attenzione ai legami che esistono tra gli eventi di ieri e quelli di oggi, e tra quelli che riguardano l’Europa orientale e il Medio oriente, che in fin dei conti rappresentano le due principali aree di instabilità, per tentare di comprendere meglio la posta in gioco e i rischi esistenti nel medio e nel lungo termine.
Il mondo occidentale è sempre più diviso tra chi vuole chiudere le frontiere, regredendo così di molti decenni, e chi invece vuole distinguere tra terrorismo, da prevenire e combattere, e accoglienza nei limiti del possibile e del ragionevole ai rifugiati: tale divisione potrebbe divenire irrimediabile se, cosa non impossibile, Trump vincesse le prossime elezioni americane e Marine Le Pen quelle francesi del 2017.
Ciò è ben noto a tutti, ma meno noto è che la Russia di Putin prema con forza - perlopiù occulta, ma ugualmente discernibile - per uno scenario di questo genere, che si è già fregiato di una formidabile vittoria nel recente referendum in Gran Bretagna, portando Boris Johnson al Foreign Office; e il suo brutale intervento in Siria anticipa quello che potrebbe succedere in futuro. A Mosca si sa bene che negli anni elettorali i presidenti americani sono «anatre zoppe»: sia l’invasione della Cecoslovacchia che quella dell’Ungheria nel 1956 avvennero in prossimità di tali elezioni, e la pressione militare di questi giorni sull’Ucraina fa presagire un déjà vu che anche nelle modalità aggressive e menzognere ricorda i peggiori aspetti della cosiddetta «dottrina Brezhnev», pilastro dell’imperialismo sovietico.
L’Ucraina negli ultimi tre anni ha messo in moto il quinto tentativo di un paese vicino alla frontiera russa o sovietica di staccarsi da un impero intruso e sgradito, e di avvicinarsi all’Occidente: nel 1953 ci aveva provato la Germania Est, poi l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Polonia nel 1980-81. Soprattutto in questi ultimi tre casi il processo suscitò speranze enormi, e la sua brutale repressione, che colpì intere generazioni, ha prodotto il cinismo e l’egoismo di oggi: questi paesi sono liberi, ma di princìpi che non siano l’affarismo o gli interessi di bottega non vogliono saperne perché «in passato hanno causato solo guai».
Invece il cosiddetto «socialismo dal volto umano» della Primavera di Praga conteneva ideali che sarebbero molto utili all’Europa di oggi: se il continente fosse realmente unito e solidale, potrebbe avere forza sufficiente sia per opporsi alle ricorrenti tentazioni unilateraliste americane e all’endemico imperialismo moscovita, che per combattere il terrorismo favorendo contemporaneamente soluzioni di pace e di integrazione rispettose di ogni identità.
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