Se Londra mette in discussione l’idea di libertà
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 26.06.2016)
E terremoto è stato. Così, se la Brexit è il combinato disposto di una serie di nuove fratture sociali e politiche (oltre che anagrafiche) e di leadership miopi e dal fiato corto, per ritornare a nutrire un po’ di speranza occorre probabilmente rivolgersi alla filosofia. Nel senso letterale del termine, quello del pensiero, che in Gran Bretagna, nelle sue manifestazioni più alte, ha sempre riconosciuto la centralità della libertà.
Ora, voltare le spalle a un’Europa considerata terra di regolamentazioni e burocrazia ossessive, come hanno voluto fare i votanti del «Leave», può legittimamente venire ritenuta come una rivendicazione di libertà. Ma proprio la migliore filosofia britannica contiene una nozione di libertà alternativa, fondata su un’idea dell’interrelazione e dell’interdipendenza - oltre che della responsabilità - di qualità assai differente dalla volontà solipsistica di bastare a se stessi.
Una visione, che si identifica nel liberalismo inglese capace di confrontarsi con quello continentale, nella cui elaborazione la libertà è salvaguardia dell’individuo da qualunque forma di coercizione - compreso il potere delle maggioranze - ed espansione delle libertà positive e dei diritti (la cui contrazione sta infatti pesando molto, in negativo, sulla fiducia nel futuro dei cittadini-elettori occidentali).
Un liberalismo positivo per il quale, ancora, la democrazia è sempre stata governo di opinione e un insieme di contrappesi e garanzie rispetto alle ingerenze di uno Stato prevaricatore, ma nella piena consapevolezza dell’utilità dell’intervento pubblico per correggere le storture - precisamente come servirebbe oggi di fronte alle domande sociali pressanti che vengono da ceti medi impoveriti e da classi popolari che non riescono a beneficiare della globalizzazione, accomunati dalla richiesta di sicurezza e di politiche efficaci in materia di immigrazione.
La politica inglese ha sempre vissuto di un’oscillazione tra l’egoismo nazionalista (derivante anche dalla condizione di insularità) e una grande apertura (legata al suo essere una potenza marittima e commerciale). In questi giorni, malauguratamente, il pendolo si è fermato sul primo di questi poli e, allora, di fronte agli spaventati calcoli di corto respiro possiamo provare a rivolgerci ai pensieri lunghi. Perché, giustappunto, le matrici della filosofia inglese sono il pragmatismo, da un lato, e il realismo empirico (l’adesione al dato di realtà, e il confronto serrato con la scienza), dall’altro.
Tutta la grande, e varia, tradizione del liberalismo britannico - da John Locke ad Adam Smith e Jeremy Bentham, da John Stuart Mill ai positivisti, da Bertrand Russell a Karl Popper (appunto non inglese di nascita) - si è ritrovata nel concetto di società aperta. A sua volta indissolubile dall’idea del mercato, che ha bisogno del talento, mentre alla politica spetterebbe il compito di ridurre la forbice delle disuguaglianze e scongiurare, coi fatti, il dilagare del senso di esclusione.
È di qui che il pensiero liberale deve ripartire per riaprire le frontiere (mentali e geografiche): rilanciando la battaglia per l’allargamento dei diritti, che valgono per tutti e non sono in competizione reciproca. E, così, aumenteranno le chances - e l’appeal - di realizzare una società dell’inclusione.