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TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ...

RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005). Una "memoria" - di Federico La Sala.

(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
giovedì 25 aprile 2024
Secondo quanto suggerisce Vitruvio (De architectura, 2,1,3) la struttura del tempio greco trasse la sua origine da primitivi edifici in argilla e travi di legno (Wikipedia)
IL SEGRETO DI ULISSE: "[...] v’è un grande segreto /nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri./ Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,/rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso./Intorno ad esso feci il mio talamo [...]"
(Odissea, Libro XXIII, vv. 188-192).
EUROPA. PER IL (...)

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> RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". --- L’UNIONE MANCATA. Chi ha tradito i fondatori dell’Europa. L’Europa ha bisogno di un cuore

mercoledì 8 luglio 2015

L’Europa ha bisogno di un cuore

di Barbara Stefanelli (Corriere della Sera, 08.07.2015)

Nei giorni delle banche chiuse e delle dirette tv dalla disperazione, dei vertici d’emergenza e delle dispute accademiche sul grado di sovranità, un ventinovenne britannico di nome Thom Feeney ha avviato una campagna di crowdfunding - una raccolta di denaro via Internet - «a sostegno del popolo greco». In poche ore, sono arrivate sulla piattaforma digitale di Indiegogo migliaia di donazioni da 170 Paesi per un totale di due milioni di euro. I più generosi sono stati i tedeschi, poi gli inglesi e gli austriaci. Una grande piazza virtuale ha così accompagnato le piazze di Atene, percorse da tanti stranieri - quasi tutti europei - determinati a mostrare solidarietà durante quello che non viene vissuto come un dramma chiuso nei confini nazionali.

Ora dimentichiamo gli schieramenti per il Sì o per il No. Sospendiamo anche l’analisi delle colpe gravi e degli errori tattici. E chiediamoci: come è possibile che questo movimento verso i greci stia avvenendo proprio mentre la Grecia rischia di essere il primo Paese che viene accompagnato - o si fa accompagnare - alla porta dell’Unione, interrompendo un processo di inclusioni che continua dalla seconda metà del Novecento?

Le varie forme di partecipazione - i viaggi del turismo politico, le donazioni d’istinto, le conversazioni ossessive sul caso greco & noi - sono la prova che un senso di appartenenza (non solo obbligato) è cresciuto tra quelli che ormai fatichiamo a chiamare «i popoli», categoria abbandonata in mezzo ai rovi del populismo, appunto, in nome di vincoli superiori. Appartenenza a un continente, a una democrazia, a una cultura.

Quando nel 1981 la stessa Grecia entrò nella casa comunitaria, l’Europa rappresentava un sogno di stabilità, di diritti, di non paura dopo gli anni della guerra civile e della dittatura: non era solo questione di economie, era un modello al quale guardare per un futuro di prosperità che avrebbe unito Sud e Nord, Est e Ovest in una sintesi innovativa.

A un certo punto, la costruzione di un senso europeo e il racconto di quella costruzione si sono interrotti. E allora - mentre studiamo soluzioni urgenti al default greco, mentre riflettiamo sulla necessaria convergenza strutturale delle economie in zona euro - dovremmo anche chiederci perché non esista oggi un’ intellighenzia capace di una visione che non sia solo vincolo e costrizione, capace di contaminare positivamente l’immaginazione degli europei e legittimare dal basso il consenso.

Oltre i politici, accanto agli economisti, è difficile rintracciare un fronte robusto e attivo di pensatori che sappiano rovesciare il contagio del risentimento. E rianimare un sentimento europeista. Quando evochiamo le ragioni del nostro stare e restare insieme, ricorriamo fatalmente al ricordo di padri della patria straordinari quanto lontani, tiriamo fuori vecchie fotografie di leader che si tenevano per mano davanti a un’idea coraggiosa e che sono quasi tutti scomparsi. In tempi di crescita abbiamo commesso l’errore strategico di non coltivare quella cultura e quei progetti che ci avrebbero avvicinato, non abbiamo dato struttura a uno slancio che sembrava scontato e per sempre: l’intuizione di un continente forte della sua varietà e sensibile alle singole storie se ne è stata a galleggiare silenziosa tra gli Stati.

Adesso che i tempi sono cambiati e ci troviamo prigionieri di particolarismi trascinati dalla crisi, ridare fiato a quell’ambizione unitaria è molto complicato, a tratti pare impossibile. Ma il problema si è posto e sta in mezzo a tutti. Non è solo Grexit, non sarà neppure solo Brexit. E non basteranno gli appelli alla generazione Erasmus che ha condiviso studi, appartamenti e amicizie oltre confine. Al contrario, dovremmo meditare sulla coincidenza tra alcune forme radicali di euroscetticismo e i più giovani, che magari hanno sì in testa altre terre ma raramente la loro.

La verità è che la fiducia dei cittadini europei va riconquistata, anzi: va «acquistata» con misure che incidano là dove maggiore è l’inquietudine. In attesa di riaprire i Trattati, quando la temperatura continentale sarà scesa, a fare la differenza potrebbero essere interventi coraggiosi sulle migrazioni o sul lavoro. Uno schema Ue di sussidi di disoccupazione, per esempio, che mostri dove sta la solidarietà - non solo ideale. Troppo a lungo gli investimenti, i finanziamenti, i piani europei sono rimasti opachi: non sono stati raccontati e spiegati, liberando il campo alle invettive e alle proteste. In un’epoca di grandi narrazioni su tutto, la comunicazione da Bruxelles dovrà contribuire a quel rovesciamento del contagio negativo: servono parole sorprendenti, oltre le formule fredde e le burocrazie di comodo che hanno fatto battere in grigio il cuore comune.

Feeney, l’uomo del crowdfunding , ha calcolato che se ogni cittadino dell’Unione depositasse 3,19 euro nel salvadanaio digitale si arriverebbe a 1 miliardo e 600 milioni, quanto Atene deve al Fmi. In fondo è poco più di quel 3,14 - il misterioso Pi greco - che serve a misurare il cerchio: la figura geometrica simbolo di unione e inclusione


L’UNIONE MANCATA

di MASSIMO L. SALVADORI (la Repubblica, 08.07.2015)

ALTIERO Spinelli viene onorato come un grande padre dell’Unione Europea. Sennonché è rimasto un padre senza figli. Il suo progetto di Stati Uniti d’Europa, delineato nel 1941 a Ventotene, appare come un’utopia, che non ha avuto luogo e non si sa se e quando possa trovarlo. A leggerlo oggi suscita commozione e ironia. Vi si dice che la nazione è obsoleta, che avendo gli Stati nazionali seminato disastri all’ordine del giorno occorre porre la Federazione europea, che l’anima di questa dovrà essere l’emancipazione delle classi lavoratrici. Il Manifesto di Ventotene si chiudeva in modo battagliero: «La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!». Sembra di trovarsi di fronte al sogno di un visionario. Abbiamo infatti una Unione nominale ma non reale, fortemente incompiuta, difettosa, traballante.

La drammatica crisi greca, che è la crisi di un Paese entro quella dell’intera Unione, non rappresenta se non l’ultimo capitolo di uno storico insuccesso. La clamorosa vittoria dei “no” al referendum di Atene ne è, al di là di ogni altra cosa, lo specchio nero. La federazione si colloca in un orizzonte senza tempo. Si profilano sintomi di disgregazione a partire dalla possibilità concreta che la Gran Bretagna - tradizionale palla al piede di ogni avanzamento verso l’unificazione politica - abbandoni l’Unione; avendo a corona una proliferazione di movimenti ostili al progetto europeistico.

Chi semina vento raccoglie tempesta. E a farlo è stata l’Unione stessa. È sotto i nostri occhi come le tendenze variamente antieuropeistiche siano state e siano alimentate dai limiti organici della sua costruzione. La Comunità economica europea da un lato era stata un successo, ma dall’altro aveva segnato il passo in relazione all’unificazione politica. Era stata posta sotto il segno di un debole e incompiuto confederalismo, sviluppatasi all’ombra della divisione del continente sanzionata dalla guerra fredda aveva lasciato il potere sostanziale in politica interna ed estera nelle mani degli Stati nazionali, si era legittimata sostenendo di aver dato finalmente pace ai popoli che la componevano: ma era retorica, poiché le chiavi della pace e della guerra erano tenute da Usa e Urss. Sotto lo stimolo della dissoluzione dell’impero sovietico, della riunificazione tedesca e con la prospettiva di un allargamento ormai alla portata, l’Unione Europea con il trattato di Maastricht del 1992 si pose il compito di marciare verso «un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini», di avviare dunque il processo per il passaggio alla federazione politica.

Ebbene, oggi possiamo misurare che le promesse e le speranze non sono state mantenute. Ecco le promesse non mantenute: l’Unione è stata incapace di darsi una costituzione; ha un Parlamento che lascia le decisioni che contano ai capi di Stato e di governo; le leve della politica estera restano prerogativa di Stati nazionali che talvolta si accordano e talvolta non si accordano affatto; è divisa tra Paesi che si sono dotati di una moneta unica e Paesi che ne sono rimasti fuori; ha una Banca centrale che però non ha alle spalle un governo politico comune; ha come valore la solidarietà ma ciascuno la concepisce come vuole; di fronte alla tragedia delle nuove ondate di immigrazione sta perdendo la testa suscitando tensioni che non sa come comporre. Il dramma della Grecia - esaltato dai penosi contrasti di capi di governo, tecnocrati ed economisti che propongono gli uni certe ricette e gli altri ricette opposte - mette a nudo i difetti profondi di un’Unione che divide.

In questo contesto giganteggiano i forti squilibri di potere politico ed economico tra i singoli membri dell’Unione. Essa è andata estendendosi fino a 28: un’estensione quantitativa difficile da governare in assenza di un governo federale in grado di stabilire quell’autorità centrale che costituisce il motore di qualsiasi effettiva Unione di Stati. È quindi inevitabile che all’interno di un tale precario assemblamento si stabiliscano ineguali rapporti di forza che giocano a favore anzitutto dello Stato istituzionalmente più solido, economicamente meglio at-trezzato, dotato di una leadership ampiamente condivisa da parte del suo popolo.

È qui che si apre la questione della Germania unificata, che ha stabilito la propria egemonia, come mostrato da ultimo dalla vicenda greca. La Germania galleggia nel mare dell’Unione come una grande isola, generando una pericolosa contraddizione: un’Unione nata per compattare le sue componenti va scollandosi anche perché i tedeschi si trovano ad esercitare un superpotere che provoca resistenze e avversioni. Romano Prodi ha invocato, come unico e urgente rimedio al fallimento, lo stabilirsi di un’autentica «autorità federale». È il grido di Spinelli che ritorna. Vero: l’Europa ha assolutamente bisogno di una simile autorità, ma tutto attualmente milita contro di essa. Siamo nel pieno di una crisi di sistema, di fronte alla quale vale l’eterna lezione di tutte le grandi crisi: o si mobilitano le maggiori energie o si assiste allo sfibrarsi dell’intero tessuto arrivando allo scacco. Hic Rhodus, hic salta.


Chi ha tradito i fondatori dell’Europa

di Nadia Urbinati (la Repubblica, 08.07.2015)

IL REFERENDUM greco ha accesso i riflettori sulla scena più contradditoria e convulsa che si trova a vivere l’Europa da quando ha intrapreso la strada dell’integrazione. Il destino di questo progetto di pace per mezzo della cooperazione è più che mai sospeso tra volontà e intenzioni contrapposte. Alla lucidità dei suoi visionari e fondatori fa seguito oggi una grande opacità, e soprattutto la rinascita prepotente degli interessi nazionali, pronti a usare l’Europa come arma per offendere e umiliare oppure come alibi dietro il quale nascodere la mancanza di volontà decisionale. La visione di un’Unione europea è nata tra le due guerre per sconfiggere i nazionalismi e i nazionalisti.

Le direttrici originarie di questa utopia pragmatica furono in sostanza due: quella che faceva perno sulla volontà politica costituente e quella che faceva perno sulla formazione dell’abitudine alla cooperazione mediante regole e accordi economici.

La prima era impersonata da Altiero Spinelli e faceva diretto ed esplicito appello alla volontà degli Stati di darsi un ordine politico federale, un progetto da prepararsi con il lavoro politico e delle idee (come fece il movimento federalista europeo).

La seconda era rappresentata da Jean Monnet. Quest’ultima divenne il paradigma ispiratore dell’Unione europea, il cui primo nucleo fu nel 1950 la creazione di un’alta autorità sulla produzione franco-tedesca dell’acciaio e del carbone. Quel trattato sarebbe stato il primo di una serie numerosa di trattati sottoscritti dai governi in tutti i settori di interesse comune. La federazione europea sarebbe cresciuta quindi per accumulazione, senza un fiat fondatore, ma come politica di auto-imbrigliamento degli Stati che avrebbe col tempo costituzionalizzato le pratiche sovrannazionali.

Le radici di questa via non-politica all’integrazione europea stanno nel Settecento, nella filosofia della mano invisibile e della funzione civilizzatrice del commercio. L’assunto kantiano era che gli individui tendono a muoversi, a interagire e a comunicare per ragioni loro proprie con la conseguenza di mettere in moto un processo indiretto di relazioni pubbliche e di diritti che col tempo avrebbero consolidato la convivenza pacifica per generale convenienza. In prospettiva, l’integrazione avrebbe potuto mettere capo a una più perfetta unione, senza che nessuno l’avesse esplicitamente voluta. Questa fu la filosofia che ha sostenuto il progetto europeo mediante decisioni di secondo ordine, indotte dalla convenienza a cooperare.

Questo paradigma è stato una strategia di successo nella fase espansiva della ricostruzione post- bellica, proprio per la sua capacità di contenere le potenzialità conflittualistiche della politica e dare spazio alla pratica degli accordi e dei trattati. Ma in questo tempo di crisi economica, tale metodo ha perso mordente. La sfida di fronte alla quale si trova oggi l’Europa richiederebbe una determinazione politica nello spirito di Spinelli. Come ha sostenuto il costituzionalista Dieter Grimm, la rete di diritti e costruzioni giuridiche ha bisogno di ancorarsi a una «espressione di autodeterminazione del popolo sovrano europeo» per riuscire a far valere appieno la sua autorità su tutti e in tutti gli Stati.

Affidarsi alle pratiche generate dall’uso di regole condivise, all’abitudine di vivere da europei come se le cose vadano avanti per forza propria: tutto questo regge e funziona fino a quando le cose procedono facilmente e non è necessario scomodare un supplemento di volontà per prendere decisioni ostiche, benché necessarie.

Il paradigma dell’eterogenesi dei fini su cui si è modellata l’Unione europea è figlio dell’utopia settecentesca del doux commerce , della forza civilizzatrice del commercio a condizone che sia la mano invisibile del mercato a muovere le decisioni, non la volontà politica. Il problema è che, mentre questa strategia ha avuto il merito di stabilizzare relazioni pacifiche essa non è in grado ora di guidare l’Unione europea verso una integrazione politica democratica, della quale invece vi sarebbe bisogno. La routine riproduce pratiche ma non sa creare scenari nuovi. Ecco perché oggi la lotta che si combatte in Europa è tra il partito della mano invisibile e il partito della volontà politica federale.

Non si giungerà mai ad una più perfetta unione se il demos europeo non sarà interpellato, se la volontà politica non acquisterà la sua autorità fondatrice, condizione senza la quale altri, dopo la Grecia, potrebbero pensare di usare lo strumento dell’appello al popolo nazionale per reagire contro decisioni che non sono prese nel nome di un popolo europeo.

Il “no” referendario alle condizioni sul debito imposte alla Grecia ha messo in luce che solo all’interno di un’Unione politica compiuta il caso greco potrebbe non essere solo e soltanto una questione di rapporto privato fra debitori e creditori. Solo in un’Unione politica la questione greca potrebbe essere a tutti gli effetti una questione europea, e la sua soluzione una straordinaria opportunità di crescita continentale. Per comprendere questo, la logica della mano invisibile non serve, e anzi è di ostacolo perché mentre rifiuta di dare la scena alla politica rafforza la pratica delle trattative intergovernamentali e quindi rafforza sempre di più gli interessi nazionali. Crea le condizioni per il declino dell’Unione europea.

In Come ho tentato di diventare saggio, raccontando come prese corpo l’idea federalista ed europeista, Altiero Spinelli così dipinse l’Europa degli anni ’30: «Tutti questi Stati d’Europa obbedivano sopra ogni altra cosa alla legge della conservazione e dell’affermazione della propria sovranità. Fossero essi democratici o totalitari, erano sempre più nazionalisti... La federazione europea non ci si presentava come una ideologia, non si proponeva di colorare in questo o in quel modo un potere esistente... Era la negazione del nazionalismo che tornava a imperversare».


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