Così lo ius soli ha aiutato la Germania a vincere
di Maria Luisa Colledani (Il Sole-24 Ore, 16.07.2014)
Chissà che cosa avrà pensato Helmut Kohl domenica sera davanti alla tv quando Philipp Lahm ha alzato al cielo di Rio la quarta coppa del mondo nella storia della Germania. Il cancelliere della Germania unita, sulle macerie del Muro di Berlino, perentoriamente aveva affermato: «Il nostro Paese non è e non potrà più essere in futuro terra di immigrazione».
Mai sentenza fu più fuori luogo, dopo il successo della squadra di Joachim Löw, in cui il calcio è sinfonia di un’orchestra - i giocatori - con lingue e provenienze diverse. Ci sono turchi (Mesut Özil), tunisini (Sami Khedira), ghanesi (Jérôme Boateng), polacchi (Miroslav Klose e Lukas Podolski, e lo è anche il cancelliere Merkel alla lontana), albanesi (Shkodran Mustafi), tutti vestiti di giallo-rosso-nero e tutti nati in Germania intorno al 1990, così giovani da aprire un’era calcistica.
È vero, non tutti cantano l’inno, ma questa nazionale è come quei palazzi di Potsdamer Platz che, fasciati di vetri ovunque, sono specchio fedele delle strade della capitale. Un mondo, quello tedesco, che ha lasciato il patriottismo e ha elaborato una storia drammatica per farsi modernità, frontiera del vivere globalizzato: a Berlino, la Grande Mela d’Europa, si parlano decine di lingue, la Germania nel 2013 è diventata la seconda destinazione al mondo per immigrati permanenti (dati Ocse: 400mila i nuovi arrivi soprattutto dai Paesi periferici della Ue, una persona su cinque viene da un qualche altrove).
E il Paese, come da Dna, non si è fatto trovare impreparato. Conscio dell’invecchiamento della propria popolazione (entro il 2050 spariranno 12-14 milioni di persone) si è dotato, dopo decenni trascinati fra accordi bilaterali, di una legge sull’immigrazione d’avanguardia.
In vigore dal 2005, la norma prevede che per qualsiasi tipo di permesso si deve dimostrare di essere in regola con il passaporto, di possedere mezzi di sussistenza, una situazione abitativa adeguata, di avere contributi pensionistici per almeno 60 mesi e di non avere subito condanne.
Poche regole, ben chiare, che si affiancano alla possibilità per i bambini nati dopo il 1° gennaio 2000 su suolo tedesco da genitori non tedeschi di acquisire la nazionalità se almeno uno dei due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da tre anni (è lo ius soli, grande sogno del presidente Napolitano).
Anche nelle pieghe delle norme volute dal Bundestag nasce la Germania multietnica e vincente di Löw. Certo, la Federcalcio tedesca ci ha messo del suo: esaurita la leva calcistica di Brehme, Klinsmann e Matthäus, si è ristrutturata dall’interno: prima ha cavalcato il Mondiale in casa per ammodernare gli stadi, poi ha costruito venti centri federali e investito 600 milioni di euro in dieci anni nei vivai. Il risultato, prima o dopo, doveva arrivare, d’altra parte la Germania, nel 2009, aveva vinto tre Europei: Under 21, Under 19 e Under 17. E in quelle squadre giocavano già i vari Özil, Boateng e Khedira. Dopo tanti tiri in porta, Rio è solo il gol vincente, il risultato di un progetto, giocato di sponda fra calcio e politica, cogliendo tutte le occasioni, compresa la fame di successo, di conquista sociale che possono avere occhi non proprio teutonici.
I tempi dei Gastarbeiter, i "lavoratori ospiti" che la Germania accolse a partire dagli anni 50, sono finiti, e pure quel tipo di immigrazione. Ora a Berlino, Monaco, Francoforte e Amburgo arrivano ingegneri, web designer, artisti, attratti dai posti di lavoro, da un’economia in movimento, dalla certezza delle regole e da un melting pot avviato al successo. Che in un Paese senza passato coloniale è un triplo salto carpiato riuscito di cui i calciatori sono la fotografia che la Germania ha mostrato al mondo nella notte di Rio.
Una Nazionale non si giudica da un calcio di rigore, non ne ha neppure avuto bisogno contro un’Argentina senza troppa fame. Una Nazionale si giudica dalla fantasia, che è anche scegliere come campo per l’ultimo allenamento prima della finale non il Maracanã ma il Sâo Januário, lo stadio del Vasco da Gama, primo club brasiliano a reclutare i giocatori senza distinzione di razza e di ceto sociale. Un piccolo particolare, solo un particolare; la grandezza e la storia si costruiscono anche così. E Löw lo sa meglio di chiunque altro.