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RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005). Una "memoria" - di Federico La Sala.

(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
giovedì 25 aprile 2024
Secondo quanto suggerisce Vitruvio (De architectura, 2,1,3) la struttura del tempio greco trasse la sua origine da primitivi edifici in argilla e travi di legno (Wikipedia)
IL SEGRETO DI ULISSE: "[...] v’è un grande segreto /nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri./ Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,/rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso./Intorno ad esso feci il mio talamo [...]"
(Odissea, Libro XXIII, vv. 188-192).
EUROPA. PER IL (...)

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> RIPENSARE L’ EUROPA!!! ---- Le frottole del «win-win». Quando l’Europa impone il suo credo La competitività, un mito in voga (di Gilles Ardinat)

venerdì 9 novembre 2012

-  Quando l’Europa impone il suo credo
-  La competitività, un mito in voga

-  di Gilles Ardinat
-  (traduzione dal francese di José F. Padova) *

      • Per uscire da una crisi scatenata dalla finanza vi erano molte vie: reprimere la speculazione, regolamentare i mercati, sanzionare i banchieri... Col sostegno di un crescente numero d’industriali, l’Unione Europea ha formulato un’altra priorità che già impone ai Paesi in difficoltà: accrescere la «competitività» del mercato del lavoro. Ma che cosa significa questo termine, che dirigenti di sinistra come di destra sembrano aver istituito come nuovo Graal?

      • Gilles Ardinat, geografo. Questo articolo si fonda sulla sua tesi di dottorato «Geografia della competitività», Università Paul-Valéry, Montpellier.
        -  (traduzione dal francese di José F. Padova)

Singolare unanimismo. L’ex ministro degli Affari esteri Alain Juppé rivelava, il 28 agosto scorso, « il vero problema dell’economia francese»: la sua mancanza di competitività (edizione mattutina di France Inter). Un mese prima, all’annuncio di ottomila licenziamenti da parte del gruppo Peugeot (PSA), Jean Copé, segretario generale dell’Unione per un movimento popolare (UMP), aveva già identificato una «priorità assoluta», «la competitività della nostra industria», prima che il senatore ed ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin esprimesse l’auspicio di uno «choc di competitività», il solo capace di stimolare l’economia dell’Esagono (=la Francia).

Il perfetto accordo dei tenori dell’UMP faceva un sorprendente eco a quello delle stanze del potere, a Bercy e a Matignon. Il primo ministro Jean-Marc Ayrault non aveva forse concluso la «conferenza sociale» del 9 e 10 luglio con i partner sociali fissando un obiettivo fondamentale: «Migliorare la competitività delle nostre imprese»? Su questo punto non vi è alcuna cacofonia nel governo. Il ministro socialista dell’Economia e delle finanze Pierre Moscovici precisava: «Ci saremo per dire che il governo è assolutamente deciso ad affrontare la sfida economica della competitività, perché soltanto rafforzando le nostre capacità di crescita vinceremo la battaglia dell’occupazione (1)».

Dalla strategia di Lisbona che, nel 2000, fissava un «nuovo obiettivo» all’Unione Europea - «diventare l’economia del sapere più competitiva e più dinamica del mondo» - agli «accordi competitività-impiego», lanciati dal presidente Nicolas Sarkozy alla fine del suo mandato, dalle ingiunzioni alla «competitività fiscale» del patronato britannico ai piani di «competitività industriale» del suo omologo spagnolo, la parola corre su tutte le labbra. D’ora in poi non si tratta più unicamente di gestione d’impresa: le città, le regioni e più ancora le nazioni dovrebbero ugualmente concentrare le loro energie su questo obiettivo prioritario.

Per accertarsene, i nostri consiglieri comunali e governanti sono invitati a ispirarsi alle teorie del management sviluppate dalle scuole commerciali americane (2): controllo dei costi di produzione («competitività-costo»), benchmarking (i Paesi sono confrontati e classificati come imprese in ambiente concorrenziale), marketing territoriale (i territori devono «vendersi») (3), ricerca di finanziamenti (attrazione dei capitali)... A mano a mano che si diffonde l’impiego di un simile armamentario, la competitività s’impone come il nuovo criterio [per la misura] della prestazione dei singoli territori nella mondializzazione. Ma come lo si misura?

Nella sua accezione più ampia, il termine definisce la capacità di affrontare con successo la concorrenza. Applicata a territori, questa nozione misurerebbe quindi la riuscita del loro inserimento nella geografia economica mondiale. Eppure è sufficiente consultare opere e articoli - abbondanti - dedicati a questa questione perché si manifesti un primo paradosso: malgrado l’infatuazione che suscita, questo concetto si rivela particolarmente fragile sul piano scientifico. Esso traspone una nozione micro-economica (la competitività dei prodotti e delle imprese) nella sfera politica (la competitività dei territori). Questa analogia è rilevata dall’economista Paul Krugman, insignito nel 2008 del Premio in Scienze economiche della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel: «La competitività è un termine privo di senso quando è applicato alle economie nazionali. L’ossessione della competitività è a un tempo falsa e dannosa (4)».

Riciclo di antiche gerarchie

Numerosi specialisti hanno tentato di porre rimedio a questa carenza facendo emergere una definizione più basata sul consenso, come l’economista austriaco Karl Aiginger, per il quale questo termine descrive sempre più una «attitudine a produrre benessere» in ambiente concorrenziale. Esso indica che «il reddito e l’impiego sono generati attraverso un processo nel quale la rivalità e la performance relativa svolgono un loro ruolo (5)». Questo concetto suppone però che la concorrenza generalizzata fra territori sia compatibile con il miglioramento del livello di vita. Ma è questo veramente il caso?

E poi, rimane sempre un problema: si può veramente ipotizzare che territori e imprese siano della medesima natura? Un territorio, spazio definito e delimitato da una frontiera, offre a un popolo il suo supporto fisico e anche una buona parte dei suoi riferimenti culturali e politici. Non si riduce a meri dati, anche se fossero macro-economici. Le note valutative (compito delle agenzie di rating), i tassi (d’inflazione, interesse, disoccupazione, ecc.) o i saldi (commerciale, di bilancio, ecc.) riflettono solamente un aspetto, superficiale e materiale, della nazione. Contrariamente a un’impresa, questa non cerca di attuare profitti. La sua azione s’iscrive nel tempo lungo della storia, non in quello immediato dei mercati. Infine, una nazione non deposita il suo bilancio così che la si possa mettere in liquidazione.

Tuttavia è proprio su questa assimilazione che si costruisce la teoria della competitività, un processo che attinge alle sorgenti della mondializzazione. Applicata ai territori, questa nozione segna una nuova tappa della mercerizzazione del mondo. Essa sottintende che esiste un mercato dei territori dove le imprese possono scegliere la loro localizzazione mettendo in gioco la concorrenza. In un mondo dove tutto, o quasi, può essere quotato in Borsa (diritti a inquinare, titoli di debito pubblico, materie prime...) per gli investitori fa le veci della bussola: valuta la performance presunta di un territorio.

Resta il fatto che l’esigenza di competitività diretta alle nostre società porta legittimamente a interrogarsi. Quali sono i territori competitivi? Secondo quali criteri? Le classificazioni (si parlerà di ranking) in questi ultimi anni si sono moltiplicate.
-  La più celebre, il Rapporto sulla competitività mondiale («Global competitiveness report») risulta dai lavori degli esperti del Forum economico mondiale (FEM).

Questo documento annuale, che passa per punto di riferimento, classifica circa centotrenta Paesi sulla base di valutazioni che oscillano fra 0 e 7. Ora, non vi si trova nulla di specifico, né nei suoi metodi (utilizzo di indici compositi aggreganti numerosi criteri [6]), né nelle sue conclusioni. In fondo, L’industria della produzione di rapporti sulla competitività, segnalata da Krugman, si accontenta di riciclare e ricondizionare gerarchizzazioni economiche sviluppate altrove: rischio-Paese (lavori della società di assicurazioni Coface), classificazioni del PIL per abitante o del clima degli affari (indice Doing Business della Banca Mondiale).

Tutte le catalogazioni relative alla performance delle nazioni presentano il medesimo schema: un centro competitivo formato da tre poli (America del Nord, Europa, Asia-Pacifico), ai quali si aggiungono i Paesi arabi del Golfo. Questo boom delle petro-monarchie resta la principale originalità di questo tipo di classificazione. In Europa, la Germania, i Paesi Bassi e gli Stato scandinavi delimitano un iper-centro altrettanto competitivo degli Stati Uniti, del Giappone o di Singapore. Oggi la competitività si degrada (differenti zone periferiche più o meno performanti) fino ai margini estremi di questo sistema, con alcuni Paesi dell’Asia e la quasi totalità dell’Africa sub-sahariana. Soltanto la posizione dei due grandi emergenti (Cina e India) differisce fortemente in funzione delle classificazioni.

Questa visione gerarchica rivela un altro paradosso: queste graduatorie hanno poco valore predittivo. Per la maggior parte del tempo i Paesi giudicati competitivi presentano i più deboli tassi di crescita, forti deficit di bilancio e commerciali, come altri problemi multipli (delocalizzazioni, deindustrializzazione). Di fatto, la crescita mondiale è attualmente portata avanti in gran parte da Paesi che il FEM considera periferici. Fino alla crisi finanziaria del 2007-2008, l’Irlanda, l’Islanda e Dubai venivano presentati come estremamente competitivi. Dopo, tutti tre sono apparsi molto sensibili alle crisi (smisurata speculazione, mancanza di regolamentazione finanziaria, problemi di indebitamento).

Su un piano generale, i Paesi anglosassoni svolgevano il ruolo di modelli di sviluppo. Ora i recenti avvenimenti hanno squalificato questa analisi: i virtuosi modelli della competitività si sono rivelati idoli fragili. Questa mancanza di pertinenza deriva specialmente dai metodi impiegati per realizzare classificazioni costruite, essenzialmente, a partire da sondaggi realizzati fra i quadri delle grandi imprese (7). Si tratta di una rappresentazione, molto marcata sociologicamente, e non di una misura per poter parlare come si deve di risultati ottenuti.

Ma atteniamoci alle dichiarazioni ufficiali: dopare la competitività porterebbe ad accrescere l’occupazione, la produttività e il livello di vita. Secondo gli esperti incaricati dalla Commissione Europea, «la concorrenza è quindi l’alleata, e non la nemica, del dialogo sociale (8)». La mondializzazione offrirebbe all’Occidente la possibilità di sbarazzarsi delle attività manifatturiere e dei mestieri a scarso valore aggiunto, a favore di occupazioni altamente qualificate e meglio remunerate.

Un’operazione «win-win» [ndt.: una soluzione vantaggiosa per tutti - Diz. Collins], insomma: da un lato, i Paesi industrializzati beneficerebbero di una specializzazione nei servizi e nel high tech («competitività fuori prezzo», che dipende dalla capacità d’innovazione e dallo sfruttamento della proprietà intellettuale); dall’altro, il Terzo mondo uscirebbe dalla povertà grazie alle delocalizzazioni, guidate dalla «competitività del prezzo»: la riduzione del prezzo dei prodotti mediante la riduzione dei costi salariali, la svalutazione della moneta e un credito buon mercato.

Questo quadro - che certi «Paesi-fabbrica», raffigurati come semplici territori low cost, non giudicherebbero forse molto lusinghiero - ha un minimo di rapporti con la realtà? Nessuna economia, fosse pure altamente sofisticata, può emanciparsi dal problema dei costi. La Germania, tanto spesso citata come esempio, è un Paese di tradizione industriale molto forte. Tuttavia essa ha aumentato la sua competitività di traverso, mediante la stagnazione salariale e una IVA detta «sociale» (una riduzione delle quote contributive delle imprese compensata dall’aumento delle imposte sui consumi delle famiglie). Questi provvedimenti unilaterali coincidono con l’ascesa dell’avanzo del suo bilancio commerciale. D’altra parte, a dispetto dei miti sul loro insormontabile ritardo, i Paesi emergenti si rivelano sempre più performanti nelle filiere innovatrici (informatica in India, energie rinnovabili in Cina...).

Non è quindi illusorio dividere il mondo fra Paesi della competitività fuori prezzo (chiamata anche «strutturale») e quelli della competitività del prezzo, condannati a essere soltanto i piccoli manovali della mondializzazione? Non importa! Il Libro Bianco del 2004, che ha ispirato la politica francese dei poli di competitività, afferma che «per ritrovare un vantaggio comparativo la nostra economia ha la scelta: allinearsi sul modello sociale asiatico o mettersi a correre fra i primi nell’innovazione (9)». Sulla base di questa visione binaria, i dirigenti della zona euro-atlantica convalidano le delocalizzazioni degli ultimi decenni. Nei loro discorsi non entra se non raramente la questione se fare rimpatriare i posti di lavoro perduti nel tessile, nella siderurgia o nell’industria dei giochi. I Paesi la cui produzione è scivolata verso l’Est sarebbero condannati dalla «fatalità economica» a reimportare questi prodotti e a specializzarsi nei servizi e nella ricerca.

Le frottole del «win-win»

Ma questa strategia della competitività fuori prezzo non è l’altro nome della rinuncia politica? Al di là delle stupidaggini del «win-win» e della promessa di un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione, si tratta più spesso d’imporre misure impopolari di aumento dell’IVA, moderazione salariale, austerità di bilancio, ecc. Così, è nel nome della competitività che l’Unione Europea e il Fondo monetario internazionale (FMI) hanno preteso la riduzione dei salari in Grecia (10). Meno performante dei suoi vicini, il Paese doveva ridurre massicciamente la remunerazione del lavoro, i piani di salvataggio a garanzia provvisoria del capitale, vale a dire degli interessi percepiti dal sistema finanziario. In questo senso la competitività fornisce una garanzia a ciò che in realtà assomiglia a un dumping generalizzato.

Dopo gli anni ’80 già era stata abbandonata l’espressione «dumping monetario» (in teoria segnalato dal FMI) preferendole quella di «svalutazione competitiva», un’operazione che consiste nel mantenere il corso di una moneta artificialmente basso allo scopo di favorire le esportazioni nazionali. Eppure, poiché il termine «dumping» mantiene un carattere peggiorativo, sembrerebbe che lo si sia ormai sostituito con quello di «competitività», sufficientemente rispettabile per autorizzare un governo a prendere misure antisociali senza temere l’obbrobrio. Insomma, questo termine permette di formulare in maniera politicamente accettabile l’ingiunzione ad adattarsi alla concorrenza, una strategia che la popolazione non ha necessariamente scelto e che sottintende la mondializzazione neoliberale.

Promessa di prosperità che conduce a politiche di dumping: questo doppio discorso paradossale si fonda sul dogma della concorrenza fra sistemi produttivi. Se l’idea di una «concorrenza libera e perfetta» ha ispirato una molteplicità di leggi antitrust e antidumping (11), la sua trasposizione ai territori pone alcuni problemi. Innanzitutto non esiste alcuna autorità credibile di regolamentazione della concorrenza fra nazioni. Né l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC-WTO), né l’Ufficio internazionale del lavoro (BIT) sembrano essere in grado di inquadrare i differenti dumping. Così, la Cina può accumulare liberamente il dumping sociale (bassi salari), ambientale («oasi di polluzione» per le industrie), monetario (svalutazione deliberata dello yuan), regolamentare (lassismo delle norme) e fiscale (debolezza dello Stato previdenziale e moltiplicazione delle zone esentasse). La legge del mercato, applicata ai territori, si rivela fondamentalmente errata.

Il discorso sulla competitività tenta di mascherare questo stato di fatto, correggendo, in margine, le disparità fra i luoghi di produzione. Questi sforzi sembrano d’altronde derisori, tenuto conto dei giganteschi differenziali dei costi: il blocco dei salari in Occidente è realmente in grado di rendere la remunerazione degli operai francesi paragonabile a quella dei loro omologhi vietnamiti? Mancando di raggiungere questo obiettivo ufficiale («vincere la battaglia della competitività»), queste politiche rispondono alle attese del padronato in materia di riduzione dei costi del lavoro. Caso sorprendente, la ricerca della competitività, assai poco concludente nella sua lotta contro le delocalizzazioni, offrirebbe così un comodo alibi per gonfiare la remunerazione del capitale... In questo senso l’invocazione del «territorio» o della «nazione» costituirebbe un artifizio retorico, perché il guadagno non è collettivo (nozione d’interesse generale o nazionale), bensì di categoria (aumento dei profitti di alcuni). D’altra parte, mettere in concorrenza frontale i sistemi produttivi comporta forzatamente un effetto depressivo sui salari, le entrate fiscali e la protezione sociale, anch’essi obbligati ad adattarsi al ribasso.

Questo fenomeno non penalizza unicamente i salariati (perdita del potere d’acquisto) e gli Stati (diminuzione delle entrate fiscali); provoca anche un’atonia della domanda. Senza contare che, se tutti i Paesi decidessero simultaneamente di contrarre la loro domanda, precipiterebbero in una grave depressione. Allo stesso modo non tutti possono realizzare eccedenze commerciali nello stesso tempo: ci vogliono necessariamente Paesi in rosso perché altri siano in verde (12). L’ossessione di una «convergenza delle competitività» sul modello tedesco non è quindi altro che una favola.

Non appena si constata la fragilità teorica del discorso sulla competitività - che conduce a diagnosi errate e a un dumping dissimulato - come spiegare il suo successo fra i dirigenti politici? Forse per il fatto che esso risponde alle ingiunzioni delle imprese e dei mercati internazionali. Adesso, dopo essersi privati dei mezzi per controllare le une e gli altri, gli eletti si adattano ormai alle esigenze di imprese e mercati. In definitiva, l’oggetto della competitività maschererebbe una perdita d’autorità e di sovranità degli Stati-nazione e permetterebbe di estromettere, nell’azione politica, qualsiasi possibilità di protezione [sociale]. Mentre il territorio, con le sue frontiere e le sue istituzioni politiche, appariva tradizionalmente come un bastione di fronte alle minacce esterne (siano esse militari o commerciali), questa funzione protettrice si attenuerebbe ormai con l’indebolimento delle barriere doganali e delle prerogative dello Stato.

-  (1) Thomas Wieder, «Le flirt discret de l’Elysée avec les patrons», Le Monde, 29 août 2012.
-  (2) Michael E. Porter, L’Ayfintage concurrentiel des nations, IntérEditioris, Prf,
-  (3) Lire François Cusset, « La foire aux fiefs », Le Monde diplomatique, mai 2007.
-  (4) Paul Krugman, o Competitiveness : A dangerous obsession», Foreign Affairs, New York, vol. 73, n° 2, mars-avril 1994; «The competition myth », The New York Times, 23 janvier 2011.
-  (5) Karl Aiginger, « Competitiveness : From a dangerous obsession to a welfare creating ability with positive externalities», Journal of Industry, Competition and Trade, vol. 6, n°2, Dordrecht (Pays-Bas), juin 2006.
-  (6) La note finale est obtenue en compilant des « exigences de base» (institutions politiques, infra-structures, stabilité macroéconomique, santé, éducation) et des facteurs plus complexes, tels l’enseignement supérieur, le niveau de concurrence interne au marché, la recherche et développement...
-  (7) Sanjaya Lall, « Competitiveness indices and developing countries : An economic evaluation of the "Global competitiveness report"», World Development, vol. 29, no 9, Elsevier, Amsterdam, septembre 2001.
-  (8) Alexis Jacquemin et Lucio Pench, Pour une compétitivité européenne. Rapports du Groupe consul-tatif sur la compétitivité, De Boeck, Bruxelles, 1997.
-  (9) Christian Blanc, Pour un écosystème de la crois-sance. Rapport au premier ministre, La Documen-tation française, Paris, 2004.
-  (10) Lire Anne Dufresne, «Le consensus de Berlin», Le Monde diplomatique, février 2012.
-  (11) Les Etats-Unis ont par exemple voté le Sherman Anti-Trust Act (1890) et le Clayton Anti-Trust Act -(1914) afin d’améliorer le fonctionnement du marché.
-  (12) Lire Till Van Treeck, «Victoire a la Pyrrhus pour l’économie allemande», Le Monde diplomatique, septembre 2010.

* Le Monde Diplomatique - ottobre 2012


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