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Cultura

Mafia ..."Matria" e "patria". Intervista a Renate SIEBERT

giovedì 15 giugno 2006 di Federico La Sala
[...] la questione intergenerazionale in futuro rappresenterà un punto di cerniera estremamente importante, da tenere d’occhio, perché costituisce la forza dell’organizzazione, ma potrebbe diventare un punto di fragilità, di vulnerabilità. Perché, se nel processo di crescita da giovane ad adulto/a, uccidere simbolicamente il padre, in termini freudiani, è un passo quasi obbligato, nella mafia, dove non c’è molto spazio per muoversi autonomamente, questo passaggio diventa assai complicato. (...)

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lunedì 21 maggio 2007

Caro Falcone, come fummo ingenui Giuseppe Ayala

È difficile credere quanto di frequente mi capiti di pensare a Falcone. Non c’è niente da fare, mi manca. L’approssimarsi del 23 maggio mi espone, poi, ogni anno a tutta una serie di sollecitazioni che ancora di più marcano la sua assenza. Con il passare degli anni, oggi siamo a quindici, mi sono, così, accorto di un fenomeno che non mi aspettavo. A proposito di Falcone (ma anche di Paolo Borsellino) la memoria e i ricordi affiorano nella mia mente in modo diverso.

La memoria è un monolite. Imponente e definito. È l’eredità che il loro sacrificio ci ha lasciato.

I ricordi sono un’altra cosa. Sono personali. Riaffiorano puntuali, ma non sono sempre gli stessi. Prevalgono sempre di più quelli legati ai sentimenti, alle fragilità, alle delusioni. Alla incredibile tenerezza dell’uomo Falcone. Il fratello maggiore che un figlio unico si è trovato accanto per dieci, irripetibili anni.

Sarà, penso, questa la ragione per cui mi soffermo sempre più spesso a riflettere sulla solitudine che, a parte Francesca, fu la sua compagna più fedele e presente. Una solitudine pesante, non solo perché certamente non voluta, ma soprattutto perché sommamente ingiusta e immeritata. E, proprio per questo, assai difficile da sopportare. Ne posso dare testimonianza perché ne ho condiviso lunghi tratti.

I lettori la coglieranno nel prezioso libro di Giommaria Monti, che l’Unità si accinge a riproporre, il quale, non a caso, l’ha scelta come filo conduttore del suo racconto. Una solitudine determinata da un progressivo isolamento. Voluto certamente anche da chi era animato soltanto da pulsioni meschine, come l’invidia, la frustrazione e la gelosia per la sua inarrestabile crescita di notorietà (oggi si direbbe visibilità) e, quindi, anche di peso che finì con il renderlo un corpo estraneo in seno ad una corporazione che, infatti, al momento opportuno reagì. Era quella dei magistrati, concentrata nel garantire a tutti i colleghi certezze a prescindere dai meriti. Si avanzava in carriera a due condizioni: invecchiare e non demeritare. Una concezione davvero strana della meritocrazia. Ecco perché era scomodo.

Ma lo era anche su un altro fronte. Quello del potere tra virgolette che, salve le dovute eccezioni, mal sopportava un’azione giudiziaria che rischiava di scardinare consolidati equilibri elettorali, clientelari e affaristici. Un’azione, insomma, cinicamente ritenuta, un rischio che era assi pericoloso correre persino da parte di chi con la mafia aveva ben poco a che fare ma che di quel sistema campava. Burattini, certo, ma nelle mani dei «pupari» garanti degli interessi mafiosi ospiti del «Palazzo».

Si saldò, così, non un complotto, ma una convergenza di comportamenti e prese di posizione che di fatto lo isolò progressivamente. Nella quale finirono, ad un certo punto, per intrupparsi anche quelli che si accreditavano come schierati dalla sua parte, ma che pretendevano di più. I più sciocchi, certo, ma non per questo i meno dannosi. E, umanamente, tra i più spregevoli.

Non v’è dubbio, insomma, che «il più capace e famoso magistrato italiano fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni)». Non si tratta dell’opinione di un amico. Si tratta di una sentenza della Corte di Cassazione del 2004, anch’essa riportata da Monti nel suo libro. Leggere per credere. Il guaio fu che, naturalmente al di là delle singole volontà (tutte?), accadde esattamente quello che Giovanni aveva teorizzato nel suo colloquio con Marcelle Padovani. Queste le sue testuali parole: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».

Sono sicuro. In quel momento Falcone stava parlando di Falcone. E, come al solito, aveva capito tutto. Il gioco era diventato davvero troppo grande. E noi troppo ingenui. Il nostro era stato uno schema che ci sembrava talmente ovvio che lo davamo per scontato. Siamo la punta avanzata delle Istituzioni su uno dei fronti più decisivi per la crescita e la tenuta democratica del Paese. Facciamo bene il nostro lavoro. Portiamo a casa risultati sin’ora mai ottenuti. Lo Stato può vincere. La mafia può essere battuta. Potranno mai lasciarci soli? Ma figurati! E invece... Ma sì, ha proprio ragione il buon Mario Pirani: Falcone come l’Aureliano Buendia di Cento anni di solitudine che dette trentadue battaglie, e le perse tutte.

Giommaria Monti ha con intelligenza selezionato i documenti e le testimonianze più significative. Ne viene fuori anche un autentico campionario degno del più celebre titolo di Victor Hugo, I miserabili. Ha ricostruito un percorso. Inesorabile e drammatico. Ma anche utile, perchè risveglia un sentimento di cui, anche oggi, si sente un gran bisogno: l’indignazione. Che non è sterile se ci sollecita ad essere esigenti e a pretendere, per esempio, che non si ripeta più neanche la «disattenzione» di cui parla nella prefazione Luciano Violante. Su quella disattenzione, sorprendente eufemismo che rischia di ammantare ben altro, avrei molto da dire... non oggi. Intanto, come ho sempre fatto, alla «disattenzione» io continuerò a contrapporre ostinatamente la mia inguaribile indignazione. E la mia infinita tristezza.

* l’Unità, Pubblicato il: 20.05.07, Modificato il: 20.05.07 alle ore 14.15


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