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PER LA PACE PERPETUA. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO....

MICHELANGELO, PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN. Materiali sul tema - di Federico La Sala

"Nel secolo scorso c’era a Grenoble un’osteria che si chiamava «Au temps perdu» (non so se ci sia ancora). Anche da Proust noi siamo avventori che sotto l’insegna oscillante varchiamo una soglia [...]"
giovedì 15 febbraio 2018
MICHELANGELO E LA SISTINA: "PER UN RITRATTO DI PROUST" (DI WALTER BENJAMIN)

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> MICHELANGELO PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN. --- LO "SPIRITO DEL RAGNO", IL "LETTO DI PROCUSTE", E UNA "RIVOLUZIONE COPERNICANA" INCOMPIUTA. "Quel Marcel! Frammenti dalla biografia" (di Mario Lavagetto).).

lunedì 19 luglio 2021

LO "SPIRITO DEL RAGNO", IL "LETTO DI PROCUSTE", E UNA "RIVOLUZIONE COPERNICANA" INCOMPIUTA... **


Proust e Freud: una rivoluzione copernicana

di Mario Lavagetto *

      • Cent’anni fa, il 14 novembre 1913, l’editore Bernard Grasset pubblicava, a spese dell’autore, Du côté de chez Swann di Marcel Proust, il primo volume di un’opera che avrebbe cambiato la storia del romanzo e della cultura. Pubblichiamo le pagine finali di Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, di Mario Lavagetto, uscito per Einaudi nel 2011 (il titolo originale del capitolo è Rivoluzione copernicana). Ringraziamo l’autore e l’editore (gm)*

Non è, io credo, un arbitrio cogliere nella parabola creativa di Marcel Proust quello che con una terminologia forse desueta, ma funzionale e cara a Thomas Stearn Eliot, potremmo definire un “correlativo oggettivo” del radicale sovvertimento a cui, negli stessi anni, Freud sottoponeva la concezione pre-analitica dell’io sostituendo ad essa una nozione tanto sconvolgente da meritare, ha detto Lacan, “che si introduca a suo riguardo l’espressione di rivoluzione copernicana...”[1]

Quella nozione o quella funzione era certo stata messa in crisi dalla filosofia con Locke, Kant e - dice ancora Lacan - soprattutto con gli psico-fisici i quali avevano cercato di ridurre a un puro miraggio e di screditare l’idea che l’io fosse una sostanza a cui venissero trasmesse le prerogative (in specie l’immortalità) che, nella visione religiosa, competevano all’anima. E tuttavia il colpo definitivo, destinato a pregiudicare in modo irreparabile quello che potremmo chiamare il primato, o la centralità, dell’io, fu inferto da Freud:

      • Abbiamo usato il termine di rivoluzione copernicana per qualificare la scoperta di Freud. Non che ciò che non è copernicano sia assolutamente univoco. Gli uomini non hanno sempre creduto che la Terra fosse una specie di piano infinito, le hanno imputato anche dei limiti, delle forme diverse, a volte quella di un cappello da signora. Ma tutto sommato avevano l’idea che vi fossero cose che stavano in basso, al centro diciamo, e che il resto del mondo si edificasse sopra. Ebbene, anche se non sappiamo ciò che un contemporaneo di Socrate poteva pensare del suo io, c’era comunque qualcosa che doveva essere al centro, e non sembra che Socrate ne dubiti. Probabilmente non era fatto come quell’io che comincia a una data che possiamo situare tra la metà del sedicesimo secolo e l’inizio del diciassettesimo. Ma era al centro, alla base. In rapporto a questa concezione, la scoperta freudiana ha esattamente lo stesso senso di decentramento apportato dalla scoperta di Copernico. La esprime bene la formula folgorante di Rimbaud - i poeti, che non sanno quel che dicono, dicono però sempre le cose prima degli altri - Io è un altro (Je est un autre).[2]

Quella formula Rimbaud l’aveva utilizzata una prima volta in una lettera del 13 maggio 1871 a Izambard: “C’est faux de dire: Je pense: on devrait dire on me pense [...] Je est un autre.”[3] [“È falso dire: Io penso: bisognerebbe dire: mi si pensa. [...] Io è un altro.”]. Trent’anni più tardi all’uomo già sfrattato, dopo Copernico e dopo Darwin, dal centro dell’universo e dal centro della storia naturale, arriverà secondo Freud[4] - e, sulle sue tracce, secondo Lacan - un terzo e definitivo sfratto: una ulteriore, e anche più crudele, ferita al narcisismo originario. La psicoanalisi scopre, registra e notifica insieme il tramonto di ogni prospettiva antropocentrica. D’ora in poi, suggerisce, l’esercizio della conoscenza presuppone l’accettazione di una posizione di margine e la rinuncia a ogni ipotesi di soggetto-perno in grado di compiere periodiche e puntuali esplorazioni per definire i propri territori, censirli e consegnarli a rassicuranti catasti. La coscienza, “un tempo onnipotente” - scrive Freud nella Traumdeutung[5] - si trova dunque ridotta “a un organo di senso” per cogliere “qualcosa che si dà altrove”: a un dispositivo omeostatico, tra il mondo esterno e l’inconscio, situato in una zona di confine che l’anatomia cerebrale, convocata come testimone e garante in Al di là del principio del piacere, colloca nella corteccia[6]. Questa posizione doppiamente periferica, rispetto al “fuori” e rispetto al “dentro”, congiunta alla impossibilità di conservare tracce mnestiche sempre disponibili, sembra determinare un regime di paradossale ed endemica emergenza: je est un autre, je n’est pas moi. L’identità è un residuo, ricostruibile solo partendo dall’altro, da una realtà che si manifesta per segnali enigmatici e intermittenti. “Le ‘Je’ - scriverà Proust il 28 novembre 1920 a Henri de Regnier - est une pure formule ”[7]

“Proust et Freud - aveva tempestivamente avvertito fin dal 1925 Jacques Rivière - inaugurano un nuovo modo di interrogare la coscienza. Rompono con le indicazioni del senso intimo; non vogliono più rimanervi paralleli; aspettano, spiano, anziché i sentimenti, i loro effetti; vogliono capirli solo attraverso i loro segni. L’uomo interiore è qui trattato per la prima volta come un corpo sulla cui composizione non possono ragguagliare se non le reazioni a cui dà luogo.”[8] -Basta rileggere alla luce di queste parole l’episodio della madeleine per averne una conferma. La “verità” deve essere cercata partendo da una posizione di confine tra il mondo esterno che funge da necessario detonatore e il mondo interno dove qualcosa, a grande profondità, sembra “trasalire”: non potrà essere ritrovata nel sapore del tè e del dolce che vi è stato immerso, ma solo quel sapore è capace di evocarla, di determinare l’indispensabile choc, l’urto che potrà disancorarla e riportarla alla luce.

Il passato, risvegliato da un incontro fortuito e sottratto alle opacità della memoria volontaria, si muove, lancia segnali captati da una sorta di osservatorio orbitale dove potranno essere decifrati solo attraverso un cerimoniale preciso, una strategia che consentirà di non disperderli e che preliminarmente richiede di “fare il vuoto” intorno a quei segnali, una rigorosa messa in parentesi per eliminare ogni interferenza. Alla fine, qualcosa che è stato cercato nel mondo interno, e che là era sprofondato, viene a galla in una tazza di tè:

      • tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.[9]

Proprio partendo dall’esame della semiotica disseminata nel testo, Gilles Deleuze - autore di quello che resta, a distanza di anni, il libro più lucido e convincente dedicato a Proust - è arrivato a dar vita a una metafora critica: il narratore della Recherche, ha detto, è un ragno: “Non ha organi, non ha sensazioni, né percezioni, non ha nulla. E’ una specie di corpo nudo, di grande corpo indifferenziato. Qualcuno che non vede nulla, non sente nulla, che non capisce nulla. Quale dunque può essere la sua attività? Credo che chi si trova in quello stato non possa che rispondere a dei segni, a dei segnali. In altri termini, il narratore è un ragno.”[10]

Un ragno in agguato ai margini della sua tela che vibra, gli trasmette messaggi discontinui, gli indica la presenza di una preda: controfigura - se accettiamo un suggerimento di Giacomo Debenedetti e siamo disposti a leggere la biografia di Proust come una sorta di “prova generale” della Recherche[11] - dell’uomo che trascorre lunghi anni in una camera foderata di sughero, lontano da quella realtà di cui cerca di registrare i segnali, anche i più impercettibili, con il solo strumento - la scrittura - di cui dispone. Chi osserva, attraverso le lettere, la vita quotidiana di Marcel Proust e riconosce in essa alcuni dei germi che nella Recherche verranno metabolizzati e sottoposti a un radicale disorientamento[12], ha spesso l’impressione di assistere al formarsi progressivo, sui margini, di una glossa smisurata, antropofaga e invasiva che abolisce ogni possibile firma. “Una lettera - ha detto Forster - nasce dalla superficie: è coinvolta negli eventi o nei progetti quotidiani: è naturalmente firmata. La letteratura tende a non avere firma”[13]: tende all’anonimato, anche se perfino Bourbaki, nome fittizio dietro cui si compie una serie di elaborazioni matematiche, “ha il suo stile e il suo speciale modo di essere anonimo. ”[14]

Un ragno, ma lontanissimo da quello che evocava Sartre in una nota del 1939 dedicata al concetto di intenzionalità nella filosofia di Husserl[15], meritevole ai suoi occhi di averci liberato da ogni illusione alimentare e dallo “spirito ragno” che, secondo gli insegnamenti fallaci e congiunti di realismo e idealismo, attirava “le cose nella sua tela, le ricopriva di una bava biancastra e lentamente le deglutiva”[16]. Immagine suggestiva e forse impropria, certo impropriamente applicata a Proust[17] per cui l’albero - quell’albero, sotto il sole, fermo, immobile, indigeribile[18] - non può in alcun modo essere diluito nella coscienza e poco importa se la verità dovrà poi essere cercata “al di là di quell’albero”[19]: perché solo da quell’albero, da quella madeleine, da quel dislivello del selciato, da quel battere di un cucchiaio contro una tazzina, da quella condotta d’acqua che perde o da quell’improvvisa posizione del corpo il passato, la “verità” che si identifica con la riemergenza del passato e con l’abolizione del tempo, può tornare alla luce. Nell’opera prodigiosa, tentacolare e infinibile di Proust - dove si dice “io” per migliaia di pagine - niente è più labile, precario, condizionato di quell’io: niente è più evasivo e il suo destino, o meglio la sua possibilità di avere un destino da parte del “fantasma che racconta le proprie avventure”[20], è in bilico fino all’ultimo.

Il fallimento - la deriva di Swann che è sospesa sul capo del narratore fino alle intermittenze della matinée - viene scongiurato soltanto alla fine e grazie al verificarsi di una serie di piccoli eventi fortuiti che si susseguono in una abbacinante “illumination à la Parsifal.”[21] “La camera magnifica della vita” - leggiamo in Jean Santeuil - “avrebbe potuto restargli chiusa per sempre e egli avrebbe potuto passarle davanti senza conoscerla.”[22]
-  È un’immagine che si ripercuoterà nella Recherche. In Sodome et Gomorrhe il nome di Mlle Vinteuil, che affiora improvvisamente sulle labbra di Albertine, è come un “Sesamo”: apre “la porta che si era richiusa dietro di lei” e attorno a cui Je avrebbe potuto accanirsi cento anni “senza sapere in che modo tornare ad aprirla.”[23] Nella Fugitive sono i ricordi ad avere delle “piccole porte nascoste” che spesso non conosciamo e che talvolta ci vengono fortuitamente aperte.[24] Fino al Temps retrouvé dove quell’immagine torna a sancire la salvezza finalmente raggiunta:

      • qualche volta è proprio quando tutto ci sembra perduto che arriva l’avvertimento in grado di salvarci: abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su nulla, e la sola attraverso cui si può entrare e che si sarebbe cercata invano per cento anni, la si urta inavvertitamente e si apre.[25]

È quasi impossibile che un lettore, di fronte a queste parole, possa non ricordarsi della grande parabola che si trova nelle ultime pagine del Processo e dell’uomo che trascorre la sua vita davanti a una porta senza mai varcarne la soglia difesa da un occhiuto guardiano per scoprire poi, alla fine, quando è ormai troppo tardi e sta per spirare, che proprio quella era la sua porta e che era a lui destinata. Qui forse la radice è la stessa e sembra conservare l’eco di antiche tradizioni, ma la coniugazione è diversa: la parabola è a lieto fine.

Il caso ha permesso di riconoscere e di aprire la porta; “il racconto non ha più che da finire - il libro non ha più che da cominciare.”[26] Comincia nel preciso momento in cui l’autore, come ha scritto Bataille, sta per essere “messo a morte dalla propria opera” e in modo così radicale che l’opera, “scritta sul suo letto di morte”, è alla lettera “il suo modo di morire.”[27]

Riferimenti bibliografici [...]

* FONTE: LE PAROLE E LE COSE, 14 NOVEMBRE 2013 (ripresa parziale).


**

Note:

LA COMUNE DI PARIGI, IL DESIDERIO DI RIVOLUZIONE, E IL “LADRO DI FUOCO”. Cento anni dopo (!971), una “risposta” alla “Lettera del Veggente” di Arthur Rimbaud (Alfabeta-2, 5 luglio 2019).

PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA "KANT CON SADE" E SI AUTO-INTERPRETA CON "L’ORIGINE DEL MONDO" DI COURBET. Due note.

#QUESTIONEANTROPOLOGICA #SONNODOGMATICO (#KANT) E #PLUSULTRA. Forse è bene ricordare le metafore classiche di #FrancescoBacone sulle #formiche le #api e i #ragni e non lasciarsi portare al macello sul letto di #Procuste. O no?!

FLS


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