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MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...

LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala

I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
mercoledì 24 aprile 2024
[...] "SAPERE AUDE!" (I. KANT, 1784). C’è solo da augurarsi che gli storici e le storiche abbiano il coraggio di servirsi della propria intelligenza e sappiano affrontare "l’attuale crisi di identità della storiografia" [...]
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
-***FOTO. Xanti Schawinsky, Sì, 1934
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE (...)

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> LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! -- ANTROPOLOGIA E STORIA: DONNE IN ARMI. Le ausiliarie di Salò (di Annalisa Di Nuzzo).

domenica 26 aprile 2020

ANTROPOLOGIA E POLITICA: STORIA DEL FASCISMO E STORIA DELLE DONNE... *


Erano innamorate di Mussolini: le ausiliarie di Salò

di Annalisa Di Nuzzo *

Il tema delle donne in armi, che è insieme antropologico e politico, e consente forse di guardare da angolazioni nuove non solo la storia delle donne, ma l’intera storia civile, dovrebbe essere esteso proficuamente - si spera che ci siano altre occasioni per farlo, oltre la felice partenza rappresentata da questo numero della rivista - alle Ausiliarie della Repubblica di Salò: un fenomeno in larga misura indotto dalla propaganda di regime, ma anche - questo soprattutto sembra renderlo interessante - frutto, come l’altro fenomeno parallelo ed opposto delle donne della Resistenza, del nuovo sentimento femminile di autosufficienza e di autostima, legato alle supplenze esercitate dalle donne durante quattro anni di guerra e perfino alle loro precedenti esperienze nel Ventennio.

La scarsa letteratura che le concerne si polarizza su due prospettive interpretative: quello della agiografia nostalgica e celebrativa e quello della decisa condanna, che è, alla fine, una condanna politica. È rimasto fuori dal coro il discorso alla Camera dei deputati tenuto da Luciano Violante, che “da sinistra” rivendicò la dignità delle tensioni ideali che avrebbero mosso le giovani fasciste di Salò a cercare forme di eroismo e sacrificio verso “una patria”. Bollato con l’accusa di revisionismo e di superficialità storica, il discorso fu relegato, nel dibattito che ne seguì, nella pura dimensione accademica.

Istituito da Mussolini nell’aprile del 1944, il Servizio Ausiliario Femminile riscosse un grande successo, che sarebbe interessante cominciare a spiegare: presentarono domanda di arruolamento oltre seimila donne appartenenti ad ogni ceto sociale e provenienti da ogni parte dell’Italia, alcune minorenni, parecchie madri e mogli. Le ausiliarie normalmente non erano armate, ma durante i corsi erano addestrate all’uso delle armi e sia nella X Flottiglia Mas che nelle brigate nere parteciparono attivamente ad azioni militari, infiltrandosi perfino come spie nelle zone del paese liberate dagli Alleati. Resta da chiarire perché Mussolini istituì un corpo del genere e perché tante donne, prevalentemente giovali e giovanissime, vi aderirono.

Già prima della guerra lo stesso Mussolini aveva creato un singolare legame donna-fascismo; la sua politica verso le donne aveva mirato alla formazione di una “nuova italiana”, la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana, che coinvolgeva sia gli aspetti intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la formazione e l’inserimento sociale.

Il dittatore aveva tentato di staccarsi dalla tradizione del primo fascismo, che accentuava solo la prolificità delle madri, a favore del rifiuto della riservatezza, il silenzio, la timidezza, il sentimentalismo e, pur restando la maternità e la famiglia il perno della vita della donna fascista, tutto lo stile di vita doveva essere impregnato di energia, coraggio, fierezza, decisioni rapide, voce alta ed espressione schietta di sé (cfr. Franca Poli, Fidanzate con la morte. Storia delle ragazze di Salò, 2013).

Le giovani donne aderirono per fedeltà ad un regime che consideravano immutabile e per un amore viscerale nei confronti di Mussolini, che il culto della personalità aveva trasformato in una specie di idolo, un padre-amante insostituibile. Si pensi allo sguardo innamorato di una ragazza di Salò, che così racconta il suo incontro con Mussolini:

      • “Quello che mi colpì del Duce fu l’espressione dei suoi occhi, che infatti non ho mai più dimenticato: sembrava che ci guardasse a una a una e che il suo stato d’animo, di fronte al nostro slancio, fosse di una gioia pensosa. Ciò che direi, oggi, è che il suo sguardo non aveva nulla del leader che insuperbisce alla vista di coloro che lo acclamano. Viceversa, era quello di un padre che è sì orgoglioso dei propri figli ma anche, in un suo modo segreto, preoccupato del loro avvenire; e preoccupato, anzi, assai più del loro destino che del proprio”.

Spesso appena adolescenti, le donne fasciste si lasciarono travolgere dalla tentazione di una nuova emancipazione ed abbracciarono la causa con una passione a volte estrema. Rimasero affascinate dal fascismo e dal dittatore, ma anche dalla novità assoluta dell’esperienza, essendo le prime in Italia ad essere inquadrate in un corpo militare che dava loro l’opportunità di uscire da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole, esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione che già altre generazioni avevano cominciato a vivere e che in altri paesi si era già concretamente avviata.

L’ educazione e la propaganda del regime avevano poi fatto il loro corso; una propaganda ed una pedagogia che già nei primi anni del Ventennio inculcava alle ragazze che il bene della Patria faceva parte della sacra missione della donna e che la Madre era insignita della gloria di educare la prole a questo ideale.

Teresa Labriola, una della più note intellettuali del tempo, aveva abbracciato il programma dell’Associazione nazionalista, nonostante la sua formazione familiare. Per certi aspetti la sua svolta politica dalla sinistra alla destra richiamava quella dello stesso Mussolini e di altri esponenti della “generazione del fronte”. Il socialismo marxista era quasi una seconda natura per la Labriola, figlia del filosofo e attivista politico napoletano.

Teresa, il cui ingegno volubile e salottiero aveva ben poco assimilato della filosofia marxista, aveva al pari di Mussolini una mentalità élitaria, imbevuta del volontarismo comune a un’intera generazione di intellettuali. Ammirava l’idealismo di Giovanni Gentile, col quale aveva studiato, e preferiva l’iconoclastia di George Sorel e Friedrich Nietzsche ai principi inesorabili del marxismo della Seconda Internazionale.

Secondo Teresa solo nuove, fresche avanguardie, abbandonando l’inetto riformismo del movimento socialista italiano, avrebbero costruito una nuova Italia, ripudiando I’agnosticismo liberale per infondere nel popolo italiano una nuova “eticità”. Questa élite per la Labriola era soprattutto al femminile: fin dal 1908 parlava della “capacità di sacrificio, peculiare della donna”, che la rendeva l’unico soggetto capace di ricomporre il “contrasto tra le esigenze dell’individuo e quelle della specie”.

La sua visione delle donne italiane come campionesse di un nuovo ordine sociale fondato sulla revisione dei concetti di razza, nazione e Stato, risultò accattivante. La stessa figlia prediletta del duce, Edda Ciano Mussolini, continuerà a sostenere negli ultimi anni della sua vita che il fascismo aveva dato modo che si realizzasse un femminismo di destra. In una situazione in cui le donne quasi mai disponevano di informazioni diverse e alternative, era stato facile al fascismo costruire una nuova identità femminile mediante un sistema formativo autoritario ed eterodiretto; le voci delle ausiliarie, affidate a scritture autobiografiche che da non molto cominciano ad essere note, risentono del lessico e della propaganda del tempo, che poneva come principio fondante del riconoscimento del femminile il valore del sacrificio, e faceva leva su un sentimento di maternità mediterranea e su un desiderio di emancipazione e di partecipazione pubblica.

La dilatazione del sentimento materno oltre i confini familiari ispirò una cura corale dei soldati sbandati, dei prigionieri fuggiti, dei bambini, che conviveva con una volontà forte di protagonismo personale, di cittadinanza da vivere accanto e analogamente a quella maschile. L’addestramento era duro: “niente rossetti, niente donne fatali, niente amori conturbanti”, quindi controllo affettivo e sessuale, spirito di sacrificio, sorretti da una retorica che ripeteva gli stilemi e i temi della retorica fascista. Basta leggere giornalini come “Sveglia” del 1944 per rendersene conto.

Questo clima spirituale era arroventato dal riflesso delle passioni, che dividevano il paese. Le lettere di alcune condannate a morte mostrano drammaticamente la complessità di una formazione, in cui l’indottrinamento fascista era riuscito a mettere radici nei vissuti delle persone, perché aveva saputo subdolamente catturare i valori profondi, le domande di autenticità e di intransigenza di donne giovani che, chiamate per la prima volta ad assumere un ruolo da protagoniste, accettarono pienamente il sacrificio per la “patria tradita”. È quanto emerge da una lettera che una condannata a morte scrive a sua madre:

      • Mamma mia adorata, Purtroppo è giunta la mia ultima ora. È stata decisa la mia fucilazione che sarà eseguita domani, 25 luglio. Sii calma e rassegnata a questa sorte che non è certo quella che avevo sognato. Non mi è neppure concesso di riabbracciarti ancora una volta. Questo è il mio unico, immenso dolore. Il mio pensiero sarà fino all’ultimo rivolto a te e a Mirko. Digli che compia sempre il suo dovere di soldato e che si ricordi sempre di me. Io il mio dovere non ho potuto compierlo ed ho fatto soltanto sciocchezze, ma muoio per la nostra Causa e questo mi consola. È terribile pensare che domani non sarò più; ancora non mi riesce di capacitarmi. Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che alla nostra Causa non sanno che sacrificare parole. Mi auguro che papà possa ritornare presso di te e che anche Mirko non ti venga a mancare. Vorrei dirti ancora tante cose, ma tu puoi ben immaginare il mio stato d’animo e come mi riesca difficile riunire i pensieri e le idee. Ricordami a tutti quanti mi sono stati vicini. Scrivi anche ad Adolfo, che mi attendeva proprio oggi da lui. La mia roba ti verrà recapitata ad Aosta. Io sarò sepolta qui, perché neppure il mio corpo vogliono restituire. Mamma, mia piccola Mucci adorata, non ti vedrò più, mai più e neppure il conforto di una tua ultima parola, né della tua immagine. Ho presso di me una piccola fotografia di Mirko: essa mi darà il coraggio di affrontare il passo estremo, la terrò con me. Addio mamma mia, cara povera Mucci; addio Mirko mio. Fa’ sempre innanzitutto il tuo dovere di soldato e di italiano. Vivete felici quando la felicità sarà riconcessa agli uomini e non crucciatevi tanto per me; io non ho sofferto in questa prigionia e domani sarà tutto finito per sempre. Della mia roba lascio a te, Mucci, arbitra di decidere. Vorrei che la mia piccola fede la portassi sempre tu per mio ricordo. Addio per sempre (in “Lettere dei caduti della Repubblica Sociale Italiana”, Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, 1990).

Pur nel rispetto per la dignità di chi è capace di scrivere lettere di questo tenore, la nostra consapevolezza che non c’era una patria tradita, e che si trattava di un motivo della propaganda fascista, specchio della falsa coscienza del regime, frena in parte l’intensità della nostra umana partecipazione. Anche perché le vittime causarono anch’esse altre vittime, e alcune, oltre a combattere dalla parte sbagliata, uccisero e torturarono.

Questi documenti vanno comunque sottratti all’oscurità cui li condanna una parte politica, non tanto per una generica volontà di restituire voce e dignità ai vinti, e comprendere, pur in assenza di condivisione, l’entità della tragedia della guerra civile, quanto per rappresentare le contraddizioni interne alla storia dell’emancipazione delle donne, liberando questa storia dai facili schematismi e dalle costruzioni ideologiche.

Certamente le adunate fasciste permisero alle donne di uscire dai luoghi privati e di essere protagoniste di spazi pubblici, di conquistare la piazza, di essere come i loro fratelli (“non eravamo libere di uscire da sole, di incontrare amici, di andare a cinema, ma la divisa e le adunate ce ne davano l’opportunità. Si percepiva di essere prese in considerazione, di essere parte di un tutto, forse per la maggioranza era la patria, non il fascismo, anche se nessuna, o quasi, aveva l’idea di che cosa fosse esattamente”), ma questo avveniva senza la minima consapevolezza di quello che il fascismo realmente era ed a costo di una militarizzazione autoritaria che non era certo la forma ideale dell’emancipazione femminile.

La retorica funeraria di un regime che aveva ormai i giorni contati provò a cavalcare fino in fondo il motivo epico della “bella morte”, inondando le canzoni delle giovani donne votate al sacrificio: “O giovane ragazza / Che parti volontaria / Per fare l’ausiliaria / Ricorda che la vita / Non sempre sarà bella ....”. E ancora: “Cara Mamma, parto volontaria / Dammi un bacio senza lacrimar..../ ...a noi la morte non ci fa paura, / ci si fidanza e ci si fa l’amor”.

Quando si studieranno accuratamente questi testi, riuscirà facile forse far emergere temi cari ad un languido e stucchevole romanticismo tipico di una letteratura femminile da romanzi d’appendice, che si declina nelle forme del nuovo eroismo. E si potrà anche mostrare come il vento di questa modernizzazione autoritaria dei ruoli e dei compiti delle donne aveva investito anche il rapporto con la famiglia, in particolare con i padri, che si opposero spesso alle decisioni dell’arruolamento, mentre le figlie si sentivano sacerdotesse e garanti del nuovo ordine.

Si era realizzata con successo una sorta di militarizzazione della mente di ragazze molto giovani insieme all’elaborazione di una sacralità laica e pubblica, che sarà ricorrente in molti regimi totalitari del secondo Novecento, per esempio quelli del Vietnam o della Cambogia. Questo fa pensare che questa militarizzazione della mente femminile non fosse soltanto il prodotto di un regime disperato che avverte la sua fine, ma sembra porsi come un modello attraverso il quale si procede alla ricostruzione di un tessuto sociale e si elabora un rito collettivo, che, comunque, passa attraverso la soppressione di libertà, atrocità, esposizione dei cadaveri.

In ogni caso è interessante osservare che le donne soldato di questo periodo, ausiliare o partigiane, per motivi opposti sparirono dalla visibilità pubblica: le prime, perché traditrici e da rinnegare, le seconde perché probabilmente ingombranti e possibili concorrenti nel gestire lo spazio politico della ricostruzione di un paese.

* QUADERNI di antropologia e scienze umane. Quadrimestrale del Laboratorio Antropologico del Dipartimento di Scienze umane, filosofiche e della formazione dell’Università di Salerno, DONNE IN ARMI. ANTROPOLOGIA E STORIA/1, numero 3, pp. 120-123, NOVEMBRE 2014, Paolo Loffredo - Iniziative Editoriali.


Sul tema, in rete e nel sito, cfr.:

I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA.

IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.

FLS


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