La protesta globale
di Carla Ravaioli (il manifesto, 19 ottobre 2011)
Quanto è accaduto sabato scorso in novantacinque città del mondo (a prescindere dalle vicende italiane, soltanto italiane, che esigono un discorso specifico ad esse esclusivamente dedicato) parla di qualcosa come cinquanta e più milioni di persone in marcia contro il capitalismo. A negare clamorosamente la vulgata che con insistenza da tempo parla di neoliberismo incontrastato e vincente, dunque di “fine delle sinistre”, ecc. Ciò che peraltro in effetti risponde non solo quantitativamente alla debolezza delle sinistre, ma alla totale mancanza di una politica che possa in qualche misura distinguerle dalle logiche dominanti; prescindendo ovviamente dall’impegno sostenuto soprattutto dai sindacati a favore dei lavoratori, nello specifico di situazioni di volta in volta in questione (salario, orari, mansioni, “difesa del posto di lavoro”, ecc.); una lotta indubbiamente utile, anzi indispensabile, che però non rimette in alcun modo in causa l’organizzazione produttiva nelle sue logiche e nelle sue ricadute, né in alcun modo garantisce un’occupazione sempre più a rischio.
Di fatto “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “rilancio della produzione”, ecc. sono gli obiettivi che - non diversamente dall’intero mondo politico - le sinistre auspicano e perseguono, nel segno dell’accumulazione capitalistica. Di recente addirittura è stato recuperato il vecchio slogan “Creare posti di lavoro”: insensato invito alla promozione di attività destinate solo a occupare vite altrimenti ritenute inutili; di fatto capovolgimento e negazione del lavoro nella sua funzione di risposta a bisogni dati.
L’origine di tutto ciò risale d’altronde a fatti lontani, da potersi sostanzialmente situare nel trentennio della grande ripresa postbellica, quando l’organizzazione produttiva che andava via via imponendo al mondo i modi e le logiche dell’ accumulazione capitalistica, e modellandolo di conseguenza, per più versi però parve oggettivamente migliorare le condizioni delle classi lavoratrici; e fu allora che le sinistre (pur senza mai negare quell’anticapitalismo nel cui nome erano nate) in qualche misura andarono rimodellando le proprie politiche, puntando (sovente d’altronde con apprezzabili risultati) sulle riforme piuttosto che sulla “rivoluzione”. La quale da allora, specie dopo la fine dell’Urss, di fatto venne “messa in sonno”.
Ma il “peccato” più grave delle sinistre è l’aver di fatto “regalato” il progresso scientifico e tecnologico al capitalismo. Di fronte alla più grande rivoluzione compiuta dal pensiero umano, che avrebbe potuto consentire quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” auspicata da tutti i grandi utopisti, compreso Marx , le sinistre non hanno saputo che difendersi dal rischio della disoccupazione tecnologica, d’altronde con risultati non proprio entusiasmanti. Di fatto operando secondo la forma dell’ accumulazione capitalistica, accettandone logica e conseguenze, e solo di volta in volta, nello specifico delle singole situazioni, combattendo spesso valorosamente in difesa dei lavoratori.
Oggi, “ripresa”, “rilancio”, “crescita”, ecc., proprio come nei palazzi del potere, sono le parole d’ordine delle sinistre. Incuranti (o così parrebbe) della qualità del mondo che a questo modo si trovano a sostenere: un mondo in cui l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza, 1/6 dell’umanità è sottoalimentato mentre in complesso si distrugge circa il 40% del cibo prodotto, un dirigente d’azienda guadagna fino a 640 volte il salario di un operaio, la produzione di armi rappresenta il 3,7% del Pil (cifra ufficiale secondo gli esperti assai inferiore alla verità, se si considera l’entità del contrabbando attivo nel settore).
Un mondo che continua a considerare la crisi ecologica planetaria come una sorta di variabile marginale, cui dedicare momenti di esclamativa attenzione quando si verificano le catastrofi più gravi, la grande industria (petrolifera, nucleare, che altro) viene pesantemente colpita, i mutamenti climatici distruggono raccolti agricoli di intere stagioni, ecc. Senza mai prestare adeguata attenzione alle voci della comunità scientifica mondiale. La quale parla di sempre più prossima e forse irrecuperabile rottura di equilibri millenari, e continua a ricordare i “limiti” del pianeta Terra: che è “una quantità” data, non dilatabile a richiesta, e pertanto incapace sia di alimentare una produzione in continua crescita, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano, e squilibrano l’ecosistema. Mentre imperterrito risuona il richiamo alla “crescita”, invocata come una sorta di dovere sociale, cui le sinistre puntualmente si associano.
Ma dove sono le sinistre? Questa è l’obiezione di regola sollevata appena si accenna a posizioni e iniziative che, nella situazione data, alla sinistra appunto parrebbero appartenere. E tuttavia, i milioni di giovani e meno giovani che sabato scorso hanno manifestato in novecentocinquanta città del mondo, che altro sono se non sinistre? E i popoli della “primavera africana”? E i tantissimi che si battono per la pace, per i “beni comuni”, contro il nucleare, contro opere monumentali quanto inutili, ecc. ecc. che insomma, nei modi più diversi e per i più diversi obiettivi immediati, mettono in discussione le regole portanti del capitale? E le donne che, anch’esse, in folle sempre più vistose, manifestano il loro “sentire altro” dalla vulgata del sistema imperante, e che perfino nei paesi di più dura misoginia storica sempre più di frequente trasgrediscono la regola che le offende? Ecc. ecc.
Certo, non può stupire che le sinistre organizzate - quel poco che ne rimane - fuggano di fronte a una “rivoluzione” come questa, che per qualità e quantità non ha precedenti. E d’altronde, è pensabile che la situazione possa protrarsi così, indefinitamente? Dopotutto teste pensanti, convinte della insopportabilità sociale, culturale e fisica, della situazione attuale, a sinistra non mancano. E non mancano intelligenze capaci di una lettura adeguata della “globalizzazione”: un processo mondiale ormai interamente compiuto nella sua dimensione economico-finanziaria (ivi incluse devastanti conseguenze ecologiche); sempre più largamente e capillarmente impostosi dal punto di vista culturale (con la pubblicità a giocare in ciò un ruolo decisivo quanto stravolgente); ma di fatto tuttora inesistente sul piano politico (essendo la politica ormai di fatto identificata con l’economia, e da essa sostituita).
Teste non solo pensanti, ma volonterose di “pensare contro”, e di avventurarsi sui rischiosi sentieri di una rivoluzione che non ha precedenti né modelli... io sono certa che non manchino. Forse si tratta solo di cominciare...