Come previsto
di Antonio Padellaro (il Fatto, 16.10.2011)
Primo. Cinquecento (o forse meno) teppisti organizzati hanno distrutto la gigantesca e pacifica manifestazione degli Indignati e messo in ginocchio un intero movimento. Il corteo di duecentomila giovani e meno giovani giunti a Roma da tutta Italia e da tutta Europa è stato minato, disarticolato e infine disperso da bande di incappucciati che per cinque ore, praticamente in-disturbati hanno tenuto in ostaggio una città, bruciato auto, distrutto banche, saccheggiato negozi, incendiato un blindato dei carabinieri mettendo alle corde forze di polizia numericamente superiori. Chi sono questi professionisti della guerriglia? Da dove vengono? Chi li guida? Chi li paga? Il ministro Maroni parla di “violenza inaccettabile” ma è mai possibile che malgrado i ripetuti allarmi dell’ intelligence, l’orda abbia potuto agire indisturbata?
Secondo. Non era difficile prevedere che un’enorme concentrazione di popolo in cui confluivano decine di sigle sindacali e movimentiste, priva di un qualsiasi servizio d’ordine, abbandonata a un’improvvisata autogestione diventasse l’habitat ideale della guerriglia annunciata. Abbiamo visto i manifestanti arrivare allo scontro fisico con i violenti, e perfino bloccarli e consegnarli alle forze dell’ordine. Ma, e lo diciamo agli organizzatori, bisognava pensarci prima. Non vorremmo davvero che la logica dei “compagni che sbagliano” abbia reso ciechi e sordi quanti avrebbero potuto impedire o comunque denunciare l’infiltrazione nel corteo dei manipoli teppisti.I quali hanno inferto al movimento un danno incalcolabile proprio mentre in altre 82 capitali la protesta si dispiegava forte e pacifica.
Terzo. Il governatore Draghi, bersaglio simbolo della protesta ha usato parole sagge accogliendo le ragioni del 99 per cento costretto a pagare il conto dell’1 per cento, presentato dalla grande finanza mondiale. Ma nessuno poteva pensare che un altro 1 per cento, questa volta armato di spranghe avrebbe potuto fare qualcosa di peggio alla generazione degli indignati.
di Michele Ciliberto (l’Unità, 16.10.2011)
Il movimento che ieri ha coinvolto centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo merita una severa e rigorosa riflessione, tanto più alla luce delle violenze che l’hanno devastato. Anche perché azzardo una previsione esso è destinato a durare nel tempo per un motivo preciso: ha una dura e resistente base materiale. Molti dei giovani che hanno manifestato hanno sentito, e continuano a sentire, nella loro carne i morsi della disoccupazione, della mancanza di futuro, di prospettiva di vita. Come si sa, ci si abitua a molte cose, purtroppo. Ma quando entrano in crisi le ragioni primordiali dell’esistenza, scatta qualcosa nel profondo di ciascuno che spinge, in modo irresistibile, a dire no. È come se dalla dimensione della “cultura” si ridiscendesse a quella della “natura” per cercare di rendere chiari a tutti e anzitutto a se stessi le ragioni primarie del proprio essere al mondo e del proprio diritto alla vita, rimettendo al centro, come sta accadendo in questo periodo, il discorso sui “beni comuni”, cioè sui fondamenti del vivere individuale e collettivo.
È questa la situazione di crisi, e di svolta, al quale ci ha condotto il modello economico che ha dominato il mondo negli ultimi decenni acuendo come mai si era visto prima le diseguaglianze tra gli uomini, i Paesi, i continenti. Lo constatiamo, del resto, giorno per giorno nel nostro Paese: il berlusconismo con i suoi tratti specifici e anche grotteschi, è forma e momento di una crisi più vasta, alla quale occorre guardare con freddezza e lucidità, per poterne uscire sia in Europa che in Italia.
Rispetto ai violenti che hanno devastato la manifestazione di ieri bisogna prendere le distanze in modo netto e durissimo. Ma si sbaglierebbe se si interpretasse questo movimento come una pura e violenta difesa di interessi particolari. Quello che ho chiamato ritorno alla “natura” contiene sia pure in forme contraddittorie elementi di novità, connessi al punto di sviluppo cui è arrivato la nostra civiltà. Come si vede da alcune parole d’ordine, in queste manifestazioni si esprime anche la ricerca di nuovi “legami” capaci di strappare gli individui dal cerchio ristretto, e perdente, della loro singola esperienza proiettandoli verso nuove forme di riconoscimento, di condivisione, di solidarietà. “Legami” di tipo nuovo incentrati, per fare un esempio, sulla difesa e la valorizzazione di beni primari come l’acqua che si situano oltre le barriere dei “beni” affermati, e difesi, nella sua lunga storia dal movimento operaio.
Che si tratti di un movimento che, nelle sue parti positive, vuole confrontarsi con le ragioni materiali della crisi è dimostrato dalla critica, addirittura violenta, che fa contro il capitalismo finanziario, rivendicando il primato, in forme nuove, della politica. Né c’è dubbio che su questo punto esso ponga un problema decisivo: è la politica, non l’economia, il luogo centrale del “vivere comune”, di quello che una volta si chiamava l’interesse generale. Così come è giusto porre, di fatto, il problema di nuove forme di rappresentanza che siano in grado di contenere gli esiti dispotici di cui abbiamo anche esperienza in Italia della democrazia, quando vengano meno o si spezzino i rapporti tra “governanti” e “governati”.
L’esatto opposto di quello che vogliono i violenti di ieri. Ma proprio per questo è necessario fare un’analisi severa e rigorosa della situazione. Di fronte a noi c’è un magma, nel quale sono presenti anche elementi negativi, di violenza, da criticare con durezza. Cosa possa diventare questo movimento e quale sia il contributo che può dare alla “riforma” delle stesse forme della rappresentanza democratica dipende anche dagli altri, anche da noi, dalla capacità di ascoltarlo e di criticarlo, confrontandosi con esso in modo adulto, maturo. Dipende insomma anche dalla nostra iniziativa ideale, culturale e politica, nella quale deve essere ben chiaro un punto: il lavoro era, e resta, il centro della emancipazione umana. Senza lavoro dalla “natura” si precipita nella “barbarie”. Ma è una dura battaglia: come hanno dimostrato gli avvenimenti di ieri, c’è sempre il rischio che, come diceva il vecchio Vico, le città ridiventino “covili d’uomini”.