Inviare un messaggio

In risposta a:
RICERCHE LOGICO-FILOSOFICHE (E POLITICHE), NELLA SCIA DI KANT (NON DI HEGEL, NON DI DEWEY, E NON DI HEIDEGGER). "L’Io è il mistero profondo", "e non dell’io in senso psicologico"(L. W., Quaderni 1914-1916).

WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO": UNA QUESTIONE TUTTA DA RIAPRIRE, SUL FILO DELL’ARCHIVIO RITROVATO. Ne parla Arthur Gibson. Un resoconto di Riccardo Staglianò - a c. di Federico La Sala

Prima ha cambiato la storia del pensiero sostenendo di aver trovato la soluzione ultima. Poi l’ha cambiata dicendo il contrario. a sessant’anni dalla morte, a Cambridge salta fuori un baule di scritti che potrebbero cambiare tutto un’altra volta
venerdì 3 giugno 2011 di Federico La Sala
[...] Spiega Gibson: «Da quest’archivio si capiscono cose che illuminano meglio anche scritti successivi. Che la verità per lui non è auto-evidente. Anzi, ciò che sappiamo spesso ci confonde sulla nostra reale ignoranza. Un po’ come illudersi che conoscere le previsioni del tempo per oggi ci dica qualcosa su come sarà tra un mese. E ancora, pur abbandonando l’idea della filosofia come sistema, è come se volesse ricomporre le due parti del suo pensiero. Nelle profondità dell’uso ordinario (...)

In risposta a:

> WITTGENSTEIN E "IL MISTERO PROFONDO" ---- Wittgenstein e la distruzione del cogito cartesiano (di Maurizio Morini).

lunedì 8 maggio 2023

Wittgenstein e la distruzione del cogito cartesiano

di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 7 maggio 2023)

Ognuno di noi ha fatto almeno una volta nella vita l’esperienza per cui si è desiderato avere delle parole speciali per descrivere un momento speciale. Le parole a disposizione erano insufficienti e si avrebbe voluto avere un proprio linguaggio creato appositamente per la sensazione che si stava vivendo. Il desiderio sarebbe stato sensato? Sarebbe pensabile cioè un linguaggio in cui si potesse esprimere le proprie esperienze per uso personale? In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? Che dire del linguaggio che descrive le mie esperienze interiori? In che modo designo le mie sensazioni con le parole?

Tutte domande che Wittgenstein si pone continuamente, non solo nelle sue Ricerche Filosofiche. E la sua risposta è negativa: un linguaggio privato non solo non si costituisce ma non è nemmeno pensabile. Nel suo stile irrequieto, frenetico, mai sistematico, egli utilizza almeno tre blocchi di argomenti: la definizione ostensiva (“questo è S”), la sensazione del dolore e la natura dei colori. In tutti questi casi, il filosofo austriaco intende demolire alla radice l’idea che un soggetto, nominando qualcosa, voglia indicare qualcosa che a sua volta si possa distinguere in reale ed irreale. Non esiste cioè una prospettiva ontologica che parta dal soggetto: l’idealismo, come dice in una sua lezione, si lega soprattutto ai dati di senso visivi. In parole più chiare, per chi è abituato a ragionare in filosofia aiutandosi con la storia della filosofia, Wittgenstein ha come riferimento polemico Cartesio e il cogito cartesiano, il cuore stesso dell’idealismo.

Lo scarabeo, il dolore e Sant’Agostino Wittgenstein, vera e propria fabbrica di metafore secondo lo stile di Schopenhauer, utilizza diversi esempi o esperimenti mentali, il più suggestivo dei quali è quello dello scarabeo.

«Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so che cosa significa la parola dolore, non debbo dire la stessa cosa anche degli altri? E come posso generalizzare quest’unico caso in modo così irresponsabile? Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso. Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo ‘scarabeo’. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere cos’è uno scarabeo soltanto guardando il suo scarabeo. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. Ma supponiamo che la parola ‘scarabeo’ avesse tuttavia un uso per queste persone! Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe essere vuota. Questo vuole dire: se si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello oggetto e designazione, allora l’oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante» (Wittgenstein 1953, 293).

In queste ultime righe riecheggia un’altra polemica, quella contro la dottrina tradizionale del linguaggio di Sant’Agostino in cui le parole denominano oggetti. Si tratta della rappresentazione primitiva del linguaggio che descrive un sistema di comunicazione o meglio, una forma di addestramento. Il problema, osserva Wittgenstein, è che non tutto ciò che chiamiamo linguaggio rientra in quella spiegazione: forse per gli oggetti, ma non certo per le sensazioni. Il tentativo di spiegare il linguaggio secondo la dottrina tradizionale non basta. «Ma che cos’è dare un nome a una sensazione? Diciamo che è pronunciare il nome mentre si ha la sensazione e forse concentrarsi su di essa; ma, e con ciò? Forse che per questo il nome riceve poteri magici? E perché mai chiamo questi suoni il nome della sensazione? (...) Dare un nome a una sensazione non significa nulla a meno che non si sappia già in che tipo di gioco va usato questo nome» (Wittgenstein 1936, 41)

Contro il razionalismo cartesiano Ma, come accennato, è soprattutto il modello del cogito cartesiano l’oggetto principale della critica. Cartesio era partito dal presupposto di dubitare di tutto, ad eccezione dei suoi stati interni che coincidono con il suo pensare. Dubito di tutto, afferma Cartesio, ma non dubito del fatto che parole come “dubbio”. “pensare”, “verità”, “genio ingannatore” ed altre conservino il loro significato. Di fatto, sostiene Wittgenstein, Cartesio arriva a scoprire la base incrollabile di ogni certezza tramite un linguaggio privato basato su sensazioni e ricordi di sensazioni.

Tutto ciò è un nonsenso. Intanto una riflessione di carattere generale: come è pensabile che qualcosa, che non ha nulla in comune con un’altra cosa, si metta in comunicazione con quest’altra cosa? Se il cogito ha natura diversa rispetto a quella del mondo esterno, come può il cogito giungere da sé ad una conclusione sulla natura del mondo esterno? Il soggetto potrà assumere come valido il mondo esterno solo con l’intervento di un deus ex machina che lo dichiari come valido (ed è esattamente quello che fa Cartesio, incorrendo nel cosiddetto circolo vizioso).

La motivazione di Wittgenstein per rifiutare il cogito è che il linguaggio è governato da regole ed è essenzialmente pubblico, incorporato, per così dire, nella nostra pratica, nelle nostre “forme di vita”. Di conseguenza l’idea di un linguaggio privato, un linguaggio cioè che solo una persona può capire, è incoerente e va in cerca della certezza nella direzione sbagliata. È quindi del tutto impossibile che il cogito possa essere il punto di partenza di ciò che possiamo conoscere. Quella del filosofo francese, commenta in modo ironico Wittgenstein, è una superprivatezza, una privatezza metafisica che si aggiunge a quella fisica. L’Io è il vero problema di cui bisogna liberarsi: «L’idea da abolire di un ego che abita in un corpo» (Wittgenstein 1936, 25)

L’impossibilità di un’esperienza privata Wittgenstein ritiene che l’esperienza non è mai qualcosa di privato e di soggettivo. Riconoscere le sensazioni come private significa riconoscere che le sensazioni sono incomunicabili. Il che significa fare due affermazioni errate (Wittgenstein 1953, 246).

La prima è quella per cui si dice che io soltanto posso sapere che provo dolore: questa affermazione è falsa in quanto io non posso dire di apprendere un dolore, quanto piuttosto che ce l’ho. In quanto ho un dolore, non so di sapere di avere un dolore: non ha senso dire che io dubito di provare dolore, perché il dolore o ce l’ho o non ce l’ho; il dubbio è proprio della conoscenza e quindi esclude il dolore.

La seconda affermazione, quella in cui si dice che un altro non può sapere che io provo dolore, è invece insensata. Questo perché se io non posso dire di apprendere il dolore (in quanto ce l’ho, come detto sopra) anche degli altri non si può dire che essi apprendono il dolore attraverso il mio comportamento. Il dolore di una certa persona è solo il suo dolore, esattamente come lo scarabeo chiuso nella sua scatola è solo il suo scarabeo. Il linguaggio però è qualcosa che mette in relazione gli esseri umani. Se una certa parola per me significa qualcosa, essa deve significare lo stesso anche per gli altri; se le cose non stessero così non esisterebbe comunicazione, quindi neppure linguaggio.

Riferimenti bibliografici

Wittgenstein, Ludwig. 1936. Esperienza privata e dati di senso, Torino, Einaudi.
-  Wittgenstein, Ludwig. 1953. Ricerche Filosofiche. Torino: Einaudi.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: