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EREDI. Tema della rassegna di Bologna. Un ciclo di lezioni e letture classiche, sui legami tra le epoche e le generazioni.

L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato" - a c. di Federico La Sala

(...) Siamo eredi che ignorano l’essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio - e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare (...)
lunedì 9 maggio 2011
[...] Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l’automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l’altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci (...)

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> L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). --- SU “METAFISICA CONCRETA” DI MASSIMO CACCIARI (Recensione di Michele Ricciotti).

venerdì 7 giugno 2024

SU “METAFISICA CONCRETA” DI MASSIMO CACCIARI

Recensione di Michele Ricciotti ( Philosophy Kitchen, Giugno 2024)

Sul piano tematico, Metafisica concreta (Cacciari 2023) ha una struttura circolare: comincia con un’analisi dell’analogia del sole nel sesto libro della Repubblica di Platone e si conclude affermando la necessità per la filosofia-metafisica di assumere un linguaggio propriamente analogico. L’immagine platonica che assimila l’Agathón alla luce del sole non è semplice metafora. La metafora è potenzialmente traducibile in un significato determinato e ultimativo; caratteristica essenziale dell’analogia è invece di non poter in alcun modo ridursi alla perfetta identità tra il termine analogo e il suo referente. L’ “altro” che l’allegoria e la metafora dicono, l’analogia si limita ad indicare.

Nel mythos platonico Cacciari riconosce quindi una configurazione proporzionale, i cui termini, proprio perché collocabili entro una relazione di simmetria, devono mantenere una qualche omogeneità e somiglianza. Nessuna alterità assoluta, dunque, tra la luce del sole e gli enti che quella luce aggioga a sé, come dice Cacciari riproponendo la traduzione heideggeriana a cui aveva già accennato in Labirinto filosofico (in pagine che vanno affiancate ai primi capitoli di Metafisica concreta: cfr. Cacciari 2014, 115-124). Con questo, l’indirizzo speculativo del libro è delineato.

Analogico è il metodo di Cacciari e analogico non può che essere il linguaggio che mette in relazione, assimilandole, metafisica e scienza. Quale la ragione dell’analogia? Quale la sua intima giustificazione? Se tale ragione fosse rintracciabile una volta per tutte, se l’analogia fosse pienamente giustificabile, essa cesserebbe di essere quello che è: da uguaglianza di rapporti diventerebbe mera tautologia. Anche se articolata secondo la forma canonica di proporzionalità e simmetria, il medio che lega i termini di un’analogia è sempre niente di più che un punto: «Punto inafferrabile, ma condizione insieme della possibilità che gli opposti vengano trattati analogicamente» (Cacciari 2023, 379). Ma anche quel punto merita di essere indagato scientificamente; tornando al linguaggio platonico, anche quello dell’Agathón è máthema, conoscenza trasmissibile e insegnabile. L’Agathón eccede tanto la sfera degli enti fisici quanto l’orizzonte noetico-intellettuale, ma il sole non potrebbe esserne il figlio naturale se non ne condividesse almeno in parte i lineamenti o il profilo genetico. Nella «grande analogia» platonica, l’Agathón non è un’anomalia che il linguaggio analogico non riesce a ricondurre a sé, ma è piuttosto ciò che costitutivamente residua dall’analogia proprio rendendola possibile.

L’Agathón è simbolo dell’insufficienza di ogni ragionamento analogico; un’insufficienza necessaria perché il linguaggio adoperato sia autenticamente analogico. Il Melandri di cui Cacciari, in nota, dice di non stancarsi di ricordare i meriti (cfr. Cacciari 2023, 397) lo aveva detto con parole che sembrano risuonare nelle pagine di Metafisica concreta: «la soluzione analogica è sempre imperfetta: il suo residuo inesplicabile replica l’analogia all’infinito» (Melandri 2023, 159).

La trattazione di Cacciari si riannoda a quella di nove anni prima; in Labirinto filosofico si leggeva: «Un’urgenza ancora più forte di quella che si presume spinga la metafisica a vedere, spinge la parola ad indicare ‘ciò’ che riesce solo a immaginare» (Cacciari 2014, 149). Concreta sarà allora quella metafisica che sa concordare le due istanze: da un lato il vedere-determinare, dall’altro la Dichtung analogica, immaginativa e poetica (in Metafisica concreta sono frequenti i richiami a Dante, ma anche a Eliot e Pound). Tanto la metafisica quanto la scienza orientano le loro indagini secondo l’ideale regolativo e irraggiungibile dell’identità kath’autò dell’ente, la singolarità che non potrà mai essere compresa epistemicamente ma sempre soltanto indicata.

In termini più “concreti”: la metafisica-scienza deve porsi il problema del “caso”, indagarlo secondo criteri rigorosi, ma non può mai esaurire l’evento del suo accadere. Quella che individua “casi” è un’operazione totalmente noetico-scientifica. La necessità e l’universalità del caso lo rendono irriducibile all’evento che, per quanto anch’esso necessario, è sempre individuale, è ciò che «il soggetto avverte come espressione di una propria Tyche» (Cacciari 2023, 272).

Qui Cacciari rincontra Carlo Diano, che già nelle sezioni “dialogate” di Dell’Inizio veniva evocato in perifrasi: «il mio maestro di greco» (Cacciari 2008, 245). Ma di Diano ora adotta anche il peculiare lessico. L’impossibile-possibile, l’eccedenza dell’ente rispetto alla sua predicazione è «ápeiron onniavvolgente» (Cacciari 2023, 409), quell’ápeiron periéchon che Diano individuava come il polo divino dell’evento, l’altro polo essendo costituito dall’hic et nunc dell’esistenza singolare, l’«esserci» heideggeriano che a sua volta ritorna con prepotenza nelle pagine di Metafisica concreta. La metafisica oscilla tra questi due poli, conferisce loro una forma che non è mai sintesi definitiva.

La parola non può nominare quell’ápeiron e aporoúmenon che l’ente è, e, insieme, non può rinunciare al tentativo di farlo. Questo vale tanto per la parola, ancora intrisa di mythologeîn, della filosofia ai suoi esordi, quanto per l’epistéme contemporanea e per la stessa «metafisica concreta» di Cacciari. Anzi, tutto il libro di Cacciari è animato da questo tentativo di nominare il non nominabile. Nell’ultima parte del libro ne trovate un resoconto: «la cosa è l’Ultimo, il risultato della Erinnerung, l’éschaton, l’ulteriore, l’eccedente, l’Impossibilità del possibile» (Cacciari 2023, 377). E sono solo alcuni dei nomi a cui ci si può appellare: altri sono, oltre ai già evocati «ápeiron» e «Agathón», anche «epékeina tês ousías» e, con un altro omaggio al «maestro di greco», «evento». Il Reale è questa impossibile dialettica tra la singolarità dell’evento e l’eterna riproposizione di forme volte a contenerlo o esorcizzarlo: «Reale è tanto l’evento che colpisce individualmente [...] quanto la forma in cui questi tende incessantemente e necessariamente a comprenderlo, a farlo propria Sache (Cacciari 2023, 393).

La riflessione sul possibile, sul caso e sul tempo introduce il dialogo con Severino, confronto decisivo nella proposta teorica complessiva. Già in Labirinto filosofico Cacciari ammetteva che il cammino di Severino non è «in contrasto con il cammino che qui si svolge» (Cacciari 2014, 48). Questo, però, solo fino a che Severino ammette l’impossibilità che la totalità appaia (quell’impossibilità che in Severino fa scattare la «contraddizione C»). Ma l’accordo si interrompe là dove la riflessione severiniana chiude ogni spazio al possibile per “affidarsi” (termine quanto mai improprio nella prospettiva severiniana ma legittimo in quella cacciariana) alla necessità del «destino». È anche il luogo in cui, secondo Cacciari, la riflessione di Severino rinuncia ad ogni “spinta” escatologica: la Gioia - il toglimento di ogni contraddizione e l’apparire dell’ente per ciò che è in verità - è qui e già da sempre data; originaria è la verità dell’ente, la sua identità e tautologicità (e certo anche la sua eternità, ma quest’ultima è in Severino sempre il risultato di una deduzione, la conseguenza fondamentale del suo discorso, mai il presupposto del discorso stesso): «per lui [Severino] ognuno siede alla destra del padre ab origine» (Cacciari 2023, 304). Al contrario, la prospettiva ontologica di Cacciari manifesta una solidarietà di fondo con la forma escatologica del pensare: l’aporia dell’ente è infatti tale da stimolare il pensiero in direzione di una verità sempre ancora da indagare e situabile soltanto in un futuro aionico (éschaton era appunto uno dei “nomi” dell’innominabile).

Ogni passo di allontanamento da Severino sembra un passo in direzione di Heidegger, anche se a tratti i due sentieri sembrano quasi incrociarsi (ed è lì, forse, che è necessario abbandonarli entrambi). La pretesa ultima di Severino è quella di incarnare il linguaggio con cui l’essere si dice (è l’essere a dirsi; noi possiamo, al più, testimoniarlo, esserne i portavoce), ma il suo linguaggio è perfettamente logico. Di contro, la prospettiva heideggeriana viene da Cacciari efficacemente riassunta in questo modo: «Non perché c’è il pensiero c’è l’essere, ma perché l’essere è, è il pensiero» (Cacciari 2023, 224). Il pensiero è strutturalmente in difetto rispetto all’essere che intende testimoniare: «Il pensare e la coscienza sopraggiungono sì, ma non come vincitori su carri trionfali» (Cacciari 2023, 248). A sua volta, la parola è in difetto rispetto al pensiero di cui intende essere espressione; è mancante non soltanto rispetto alla cosa che intende testimoniare, ma anche rispetto all’idea da cui la parola stessa origina: «La parola spalanca l’abisso dell’origine, non lo colma, lo indica» (ibidem). La concretezza dello sguardo metafisico è nella consapevolezza che tale eccedenza non riposa in un orizzonte occulto, ma si manifesta e si annuncia nell’ apparire dell’ente e nel tentativo - sempre in scacco - di dirne la singolarità. Proprio la verità dischiusa nella maniera più rigorosa dall’idealismo e “confermata” dalla scienza contemporanea lo testimonia: non c’è oggetto e non c’è soggetto, ma soltanto la relazione tra i termini. Il linguaggio della metafisica concreta è dunque analogico per una necessità dettata dalla struttura stessa dell’ente e non per vezzo retorico. Ana-logico è l’infinito approssimarsi del linguaggio all’ “in sé” dell’ente, a quell’autoidentità che al ragionamento logico rimane inaccessibile.

Come si vede, il libro è un continuo confronto con alcune delle grandi prospettive ontologiche che hanno orientato l’epistéme occidentale. La prima metà è anzi proprio una sorta di storia della metafisica in cui Cacciari si confronta con i grandi “sistemi” filosofici dell’antichità, della modernità e della contemporaneità, dipanandone i nodi teoretici decisivi e poi, infine, distanziandosene. Aristotele squaderna le categorie con cui concepire il possibile; ma per pensare il vero possibile, il possibile non riducibile all’essere (attualmente) in potenza è necessario spingersi oltre quelle categorie, forzarle fino a farle collassare. Spinoza insegna l’intima unità tra scienza e filosofia, il cui metodo comune è lo scire per causas, ma dobbiamo abbandonarlo quando intende anche il Primo (o, dal punto di vista dell’io “indagante”, l’Ultimo) come Causa a sua volta. Kant ci avverte circa i limiti del conoscere, ma non possiamo seguirlo nel ritenere che la metafisica cada fuori da quei limiti. E ancora, contra Hegel è necessario rivendicare i diritti della filo-sofia: lungi dal dismetterlo, essa deve conservare l’abito di “amante” del sapere senza per questo rinunciare alla vocazione a farsi piena e compiuta sophía. Così come non possiamo seguire Heidegger nel ritenere la metafisica come poco più che il sapere che riduce l’ente al “disponibile” ed “utilizzabile”.

L’impressione è che quella fenomenologico-husserliana sia la prospettiva filosofica con la quale Cacciari avverte un sostanziale accordo. Del resto, il principio dell’intenzionalità fenomenologica altro non è che la combinazione armonica tra «le forme di predicazione dell’ente» (Cacciari 2023, 214) e il riconoscimento della indeterminabilità dell’ente stesso nella sua interezza e unità. La fenomenologia husserliana riconosce cioè che «[l]a filosofia è chiamata a costruire analogie e metodi di comparazione che interpretino e chiariscano questo essere logikôs (nel senso del légein-colligere) dell’ente in quanto ente» (ibidem). L’immagine platonica conteneva un paradosso: spiegava in termini analogici ciò di cui affermava l’eccedenza rispetto ad ogni lógos. L’Agathón è Principio di ogni vedere e condizione di ogni conoscere e in quanto tale mai determinabile. Al contempo, però, il lógos metafisico è strutturalmente impossibilitato a interrompere l’indagine, ad arrestarsi di fronte a ciò che gli si presenta come un’anomalia. Il libro di Cacciari si muove totalmente all’interno di questa aporia. «Nessun Principio chiude il diaporeîn» (Cacciari 2023, 399). Contrariamente a quanto stabilito dal divieto aristotelico, la filosofia è costantemente chiamata a operare la metábasis eis állo génos; il “salto” (così si intitola uno dei diciannove capitoli del libro) da un orizzonte all’altro del sapere è non solo proficuo in termini epistemologici, ma necessario per conservare il movimento strutturalmente “diaporetico” del filosofare.
-  Michele Ricciotti

Bibliografia
-  Cacciari, M. (2008). Dell’Inizio. Milano: Adelphi.
-  Cacciari, M. (2014), Labirinto filosofico, Milano: Adelphi.
-  Cacciari, M. (2023) Metafisica concreta, Milano: Adelphi.
-  Diano, C. (2022), Opere. A cura di F. Diano. Firenze-Milano: Giunti-Bompiani.
-  Melandri, E. (2023), L’analogia, la simmetria, la proporzione. A cura di L. Guidetti, Macerata: Quodlibet.


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