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DOVE VA OGGI L’ISTRUZIONE? DOVE VA LA SOCIETA’? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale

STUDIARE?! MA A COSA SERVE?! Una riflessione di Martha C. Nussbaum - a cura di Federico La Sala

La maggior parte dei Paesi moderni, ansiosi di crescere economicamente, hanno cominciato a pensare all’istruzione in termini grettamente strumentali (...) Ciò che nel fermento competitivo è stato perso di vista è il futuro dell’autogoverno democratico.
domenica 17 aprile 2011 di Federico La Sala
[...] in tutto il mondo, gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciare spazio a competenze che producono profitti, che mirano a vantaggi a breve termine. Quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato. Di recente, la Cina e Singapore, Paesi che certamente non hanno a cuore lo stato di salute della democrazia, (...)

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> STUDIARE?! MA A COSA SERVE?! ---- Nussbaum, la filosofia del talento “Investiamo su capacità e diritti” (di Roberto Festa)

venerdì 2 marzo 2012

Il vero profitto Nussbaum, la filosofia del talento

“Investiamo su capacità e diritti”

      • "Non ci si può fissare sui redditi, dobbiamo pensare alle reali libertà delle persone" "Contano scuola e salute, emozioni ed immaginazione Queste cose danno qualità" L’ultimo saggio della studiosa è una sorta di manifesto "Contro la dittatura del Pil", per un’altra ricchezza

di Roberto Festa (la Repubblica, 02.03.2012)

«Per troppi anni abbiamo sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita. Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità, educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». Martha Nussbaum, celebre per i suoi studi su etica, cittadinanza, mondo classico, educazione, sessualità, dice di aver pensato a Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil come a un’introduzione generale alla teoria dell’approccio delle capacità. «Me lo chiedevano insegnanti, lettori, persone impegnate nel settore dello sviluppo». Poi, durante la fase dell’elaborazione e della scrittura, il discorso si è allargato. Le prospettive si sono arricchite. E questa teoria del Welfare, largamente discussa dagli economisti - Amartya Sen, James Foster, Sudir Anand - , utilizzata da grandi istituzioni internazionali come lo United Nations Development Programme, è diventata un modo per approfondire le cose da sempre più importanti per la Nussbaum: giustizia sociale, pluralismo, diritti, libertà di scelta.

Perché il Pil non è un buon indicatore della ricchezza di un Paese?

«Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo, il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell’esperienza umana. Ci sono Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della Cina».

In che modo l’approccio delle capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza di un Paese?

«Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle "capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di ciascuno all’interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».

Lei identifica dieci "capacità", dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra questi, il diritto alla vita, alla salute, all’appartenenza. Ci sono però elementi - l’immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare diritti di rilievo pubblico...

«Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali dell’esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata. Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso discorso per l’immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una memorizzazione piatta, non stimola l’immaginazione. Con grave danno per la società e l’economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove è cruciale».

Cosa risponde a chi rimprovera a questo modello un’eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che sulle realizzazioni?

«Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze, tradizioni, predilezioni. L’approccio delle capacità dice che ogni essere umano deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l’obbligo di votare. Ci sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione, un’educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se collocare la scheda nell’urna».

L’approccio delle capacità è più un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia sociale?

«È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a misurare la qualità della vita nell’ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per me, è stato un modello di giustizia e un appello all’azione. Quando si usa il termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso all’azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere. Be’, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la condizione delle donne. La teoria dell’approccio delle capacità, con la lista dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale per i diritti umani».

Lei, Amartya Sen, gli altri teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione antistorica?

«No. Sicuramente l’approccio delle capacità non corrisponde a certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le difficoltà, l’Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me».

Eppure in Italia è aperta una discussione politica e culturale sull’abolizione dell’articolo 18. Per alcuni è una necessità, renderebbe più dinamico il mercato del lavoro. Per altri è un attacco a un diritto essenziale. Cosa risponde, sulla base dell’approccio delle capacità?

«Rispondo che il lavoro è un diritto ineliminabile di ogni uomo, e quindi lo Stato deve fare di tutto per garantirlo, al più alto numero di uomini e donne e per buona parte della loro vita. Penso per esempio al caso dell’India, dove il Congresso ha votato un numero minimo e stabilito di giornate di lavoro annue per ogni famiglia di agricoltori. Non vivere attraverso il proprio lavoro compromette la dignità umana. Per essere giuste, le politiche devono essere rivolte alla piena occupazione».


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