Il capo carismatico e l’identificazione con l’oppressore
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 27.07.2019)
Dalle elezioni politiche del 2013, il paese uscì quasi equamente diviso in tre poli: il centrosinistra, il centrodestra e il M5S. Bersani, il segretario del Pd di allora, cercò di aprire la prospettiva di un dialogo con i “grillini”. Il suo progetto, per niente ingenuo, anzi lungimirante, fallì, anche per l’arroganza dei suoi interlocutori (che ne pagano ora le conseguenze). Un’alleanza tra il centrosinistra e il centrodestra portò ai governi di Letta, di Renzi e di Gentiloni. Questi governi non sono riusciti a risolvere nessuno dei problemi strutturali del paese o a porre le basi di una soluzione futura. La disgregazione delle alleanze socioculturali che sostenevano il centrosinistra si è consolidata e le elezioni di un anno fa l’hanno marginalizzato.
Il fenomeno M5S non è mai stato espressione di un processo trasformativo. La sua presenza è, nondimeno, manifestazione, pur confusa e dispersivamente protestataria (e manipolabile), del disagio stagnante e impotente del popolo, in particolare dei ceti sociali che la sinistra dovrebbe rappresentare. Eppure si persevera nel rifiutare di riconoscere che non essendo il centrosinistra autarchico, né potendo esserlo nel prossimo futuro, qualcosa dovrebbe muoversi sul piano del confronto con i 5S. Dopo la scelta catastrofica di spingerli tra le braccia di Salvini, di cui tutti gli “opinion leader” del centrosinistra, che ora non sanno che pesci pigliare, ripetendo slogan stantii, hanno una responsabilità enorme, il nuovo segretario del Pd, un uomo politico decente, ha definito il partito concorrenziale al M5S e “alternativo” alla Lega.
È così difficile percepire l’evidente? La sinistra non è alternativa, nell’ambito di un’“alternanza” democratica, a un partito razzista, retrogrado e profondamente autoritario come la Lega. Non offre soluzioni alternative (è meglio la frittella o il gelato di prima mattina?) a quelle barbariche di Salvini, ma opposte, nell’ambito di un’incompatibilità totale, la stessa che esiste tra democrazia e autoritarismo totalitario.
Nel campo di questa opposizione fondamentale, da cui dipende il futuro democratico del paese, la concorrenza necessaria con il M5S deve includere la prospettiva di un’alleanza, altrettanto necessaria, almeno con una sua parte e soprattutto con gli interessi reali, mal rappresentati, del suo elettorato tendente ora a disperdersi nell’astensionismo.
Salvini è stato fortemente avvantaggiato dall’essergli stato permesso di andare al governo. Com’era prevedibile, sta procedendo, usando tutti i mezzi a disposizione, complice la scarsa opposizione da parte delle istituzioni democratiche di controllo, a una doppia fidelizzazione. Quella dei funzionari dello stato più sensibili alla demagogia del potere (il piacere sadomasochistico di sentirsi forti con i deboli e deboli con i forti). Quella delle masse disorientate e scollegate dai legami solidali che investendo il capo carismatico e autocratico, incarnano in lui un principio di deresponsabilizzazione: ciò da una parte li fa sentire,
llusoriamente, liberi e, dall’altra, li fa pensare non colpevoli, non punibili in un mondo di repressione, punizione. Nella doppia fidelizzazione, di cui Salvini è insieme vittima (pericolosa) e promotore, gioca un ruolo fondamentale l’“identificazione con l’aggressore”: l’identificazione con le forze minaccianti la propria umanità, trovatasi in condizione di precarietà, che crea un senso di invulnerabilità, al prezzo di una grave alienazione. Con tutte le perplessità che si possono avere nei loro confronti, i 5S sono perlopiù periferici a questo processo e piuttosto che cercare di omologarli ad esso è meglio cercare di recuperarli.