Mohammed El Baradei, ex direttore dell’Aiea, Premio Nobel per la Pace, candidato alla presidenza in Egitto, guarda con estrema preoccupazione al futuro del suo Paese
«Piazza Tahrir tradita da militari e islamisti. Ma io non mi arrendo»
Il premio Nobel: «La lotta per la libertà in questa transizione è stata calpestata Ora il rischio è che la delusione e la rabbia degenerino in violenza inarrestabile»
di Umberto di Giovannangeli (l’Unità, 08.12.2011)
Il simbolo dell’Egitto laico e progressista non si arrende. Ed anzi rilancia la sua duplice sfida: ai militari e al fronte islamico, uscito vincitore dalla prima tornata elettorale dell’«era» post-Mubarak: Mohammed El Baradei, ex direttore dell’Aiea, Premio Nobel per la Pace, candidato alla presidenza in Egitto, guarda con estrema preoccupazione al futuro del suo Paese. «Alla base della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak dice a l’Unità El Baradei vi era una istanza di libertà, di giustizia che in questi mesi di transizione tradita è stata svilita, calpestata. Il rischio aggiunge il Premio Nobel per la Pace è che la delusione si trasformi in rabbia e la rabbia inneschi una spirale di violenza inarrestabile. Se ciò dovesse accadere, i primi responsabili andranno ricercati in coloro che nel nome dell’emergenza continua a far funzionare a pieno regime i tribunali militari, uno strumento degno di regimi fascisti. Una cosa è certa: io non mi arrendo».
E alla Guida generale dei Fratelli Musulmani, Mohammed Badie, che in una intervista a l’Unità aveva affermato: «Siamo i vincitori ma non i padroni dell’Egitto», El Baradei risponde così: «Per governare il Paese non bastano gli slogan e le belle parole. Non sarò certo io a criminalizzare il voto, ma il banco di prova per quanti si proclamano vincitori è dimostrare di saper governare».
Cosa la preoccupa maggiormente in questa fase cruciale nella storia dell’Egitto? «Più ancora che il successo registrato dalle forze islamiche più conservatrici, come Al-Nour, ciò che m’inquieta è il profondo senso di delusione che ho riscontrato tra i giovani di Piazza Tahrir. La delusione è forte poiché nulla è cambiato». Di chi la responsabilità di questa situazione?
«Di chi si era fatto garante della transizione...».
I militari, dunque..
«Ciò che dovrebbe essere chiaro a tutti è che i militari hanno fallito nella gestione della transizione. Fallito perché in nome dell’emergenza hanno continuato a far funzionare i tribunali speciali, degni di un regime fascista e non di una democrazia in formazione, e perché hanno pensato di poter riconquistare la piazza attraverso un patto di potere con le forze islamiste».
In una recente intervista a l’Unità, la Guida generale della Fratellanza Musulmana, Mohammed Badie ha sostenuto che non è intenzione della Fratellanza realizzare una «dittatura della sharia», dichiarandosi disponibile a lavorare per un governo di coesione nazionale...
«Per governare non bastano gli slogan né affermazioni che dovrebbero suonare rassicuranti. Il banco di prova per chi si candida a governare è dimostrare di essere in grado di farlo. Di esserne all’altezza. Per quanto mi riguarda, cambiamento per me significa democrazia, libertà, giustizia sociale, rispetto delle minoranze. Principi non negoziabili. Sia chiaro: la mia non è una sentenza senza appello. Ritengo che nel fronte islamico vi siano posizioni moderate che spero possano prevalere. Sono certamente preoccupato per alcune delle prese di posizione estreme, inaccettabili, di alcuni salafiti, sentendo che la letteratura di personalità che hanno dato lustro all’Egitto, come Naguib Mahfouz, viene paragonata alla prostituzione, vedendo che stiamo ancora discutendo se le donne debbano guidare le loro auto, che ancora ci chiediamo se la democrazia sia contro la Sharia».
In un nostro precedente colloquio, prima dell’esplosione della rivolta in Egitto, lei aveva sottolineato l’importanza dei giovani, il loro protagonismo. È ancora di questo avviso?
«Certo che sì. Il motore del cambiamento continuano ad essere i giovani. Alla base della rivolta egiziana vi erano ragioni che si ritrovano anche in altre realtà, come quella tunisina: la mancanza di prospettive di lavoro per le giovani generazioni, l’ingiustizia sociale elevata alla massima potenza, una rivendicazione di libertà e di diritti che si scontra con le chiusure di un potere incapace di rinnovarsi. Per le giovani generazioni la rivolta è stata anche un investimento sul futuro. Futuro che si chiama lavoro, innanzitutto, istruzione, possibilità di realizzarsi. Libertà e giustizia sociale sono le due facce di una stessa medaglia: in Egitto il 42% della popolazione vive con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque. L’uscita di scena di Hosni Mubarak non ha determinato la messa a punto di politiche che affrontassero queste problematiche. La situazione è andata di male in peggio dopo il fallimento del Consiglio militare nella gestione del processo di transizione».
Alla vigilia del voto, lei si era detto pronto a guidare un governo di unione nazionale...
«Ma avevo sottolineato che non mi sarei prestato ad un’operazione di facciata, non sarei stato un primo ministro sotto tutela. Per questo i militari hanno preferito rivolgersi altrove».
C’è ancora spazio per la «Primavera egiziana»?
«C’è, se sapremo serrare i ranghi e privilegiare le ragioni dell’unità a personalismi e logiche di fazione. Questo spazio va difeso puntando sui giovani che hanno fatto di Piazza Tahrir il luogo della libertà. Sono convinto che saranno loro a dirigere il Paese in futuro. Un futuro che sta a noi trasformare in presente».