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IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).

DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-"ROMANO". LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose", nella trad. di Giuseppe De Lorenzo - a c. di Federico La Sala

Se al Cristianesimo dovesse una volta avvenire che cessasse di esser benigno (il che potrebbe accadere, se si armasse di autorità imperativa, invece del suo spirito mite), allora (...) subito dopo, siccome il Cristianesimo invero è destinato ad essere religione universale, ma dal destino non sarebbe stato aiutato a divenirlo, avverrebbe, sotto l’aspetto morale la (inversa) fine di tutte le cose.
domenica 28 ottobre 2012 di Federico La Sala
[...] Il Cristianesimo ha per intenzione quella di promuovere amore alla osservanza del proprio dovere, e lo produce anche: perché il suo fondatore non parla nella qualità di un comandante, che esprime la sua volontà richiedente ubbidienza, ma in quella di un amico dell’uomo, che mette nel cuore dei suoi fratelli la loro propria bene-intesa volontà, secondo la quale essi agirebbero da se stessi volontariamente, se si saggiassero come si conviene [...]
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, (...)

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> DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO ---- Immortalità dell’anima e sommo bene. Sulla metafisica pratica di Immanuel Kant. (di Georg Sans, 2012)

martedì 23 aprile 2024

      • CONTINUAZIONE E FINE

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Immortalità dell’anima e sommo bene

Sulla metafisica pratica di Immanuel Kant

di Georg Sans (La Civiltà Cattolica, QUADERNO 3891-3892 pag. 271 - 280, 4 Agosto 2012)
-  Professore di Filosofia religiosa e disciplinare presso l’Università di Monaco di Baviera.

In uno scritto polemico del 1766 Immanuel Kant parla del suo destino di essere innamorato della metafisica [1]. Pochi sono i lettori del filosofo di Königsberg che si sono preoccupati di chiedersi seriamente in che cosa consista questa passione fatidica. Al contrario, si continua a trasmettere da una generazione all’altra l’immagine stereotipa di Kant come di colui che ha distrutto la metafisica scolastica. Kant avrebbe contestato le prove dell’esistenza di Dio, avrebbe negato l’immortalità dell’anima e avrebbe smascherato l’ipotesi della libertà umana come un’illusione cosmologica. Sarebbe rimasto soltanto il misero resto di una fede pratica, troppo per la filosofia e troppo poco per la religione.

E tuttavia non è possibile dubitare che Kant stesso abbia considerato le cose in maniera del tutto diversa. Venti anni più tardi, nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, il filosofo dichiara espressamente di aver dovuto «mettere da parte il sapere, per far posto alla fede»[2]. Con il sapere che ha dovuto mettere da parte Kant non intende tanto alcuni contenuti specifici quanto piuttosto le fondazioni della metafisica tradizionale. Gli argomenti addotti da Leibniz e Wolff a favore, ad esempio, della sostanzialità e quindi anche della sopravvivenza dell’anima gli erano divenuti sempre più problematici. Nello stesso tempo egli attribuiva un grande valore esistenziale alla dottrina dell’immortalità, come pure dell’esistenza di Dio e della libertà dell’agire, per cui si sentiva molto fiero di aver riposto nella ragion pratica una capacità che rende accessibile la cognizione di quegli ambiti che restano chiusi alla conoscenza teoretica.

[....]

Virtù e felicità

Nonostante questo giudizio disincantato, sarebbe errato ritenere del tutto fallito il progetto di Kant di costruire una metafisica pratica. È invece opportuno riflettere in maniera nuova sul concetto del sommo bene. Kant stesso ha dato il titolo di «Dialettica» alla sezione corrispondente della Critica della ragion pratica, perché egli vi tratta le contraddizioni e le tensioni che esistono tra virtù e felicità. Mentre la moralità dipende soltanto dalla libera volontà del soggetto, quando si parla di felicità sembra che si tratti di qualcosa che l’uomo può raggiungere con le proprie forze soltanto in maniera condizionata. I motivi al riguardo sono diversi. In primo luogo la nostra felicità dipende da molti fattori esterni che si sottraggono al nostro controllo. Nonostante tutti i progressi della scienza e della tecnica, l’umanità è ancora molto lontana dal poter dominare e influenzare il corso della natura, in modo da evitare il dolore e la sofferenza. Spesso sono proprio gli uomini a ostacolare vicendevolmente la loro felicità. Le cattive azioni degli uni comportano inevitabilmente conseguenze sul benessere degli altri. Kant accenna anche a un altro motivo, spesso trascurato: il fatto che normalmente non sappiamo ciò di cui abbiamo bisogno per essere felici un momento dopo. Anche se potessimo realizzare immancabilmente tutte le nostre intenzioni, la nostra felicità non sarebbe per questo ancora perfetta. Il benessere durevole dell’uomo naufraga non soltanto a causa delle sue limitate possibilità fisiche o per mancanza di buona volontà, ma anche perché egli non può conoscere quali siano le condizioni che gli permettono di essere veramente felice e soddisfatto.

Di fronte a questo dato di fatto l’idea del sommo bene si rivela ancora una volta problematica. Che cosa ci dovrebbe autorizzare a supporre che vi sia una qualche connessione tra felicità e morale? Chi o che cosa potrebbe assicurarci che le nostre buone azioni raggiungono realmente il loro scopo? Come si può escludere che alla fin fine abbiano successo proprio coloro a cui non importa nulla della virtù? Per Kant felicità e morale si possono pensare in unità soltanto a condizione che esista un Dio «che contenga il fondamento di quella connessione, cioè dell’adeguarsi esatto della felicità alla moralità» [7]. Soltanto Dio è in grado di creare il mondo con il suo ordine naturale e, nello stesso tempo, di aiutare gli uomini a raggiungere la felicità secondo le loro buone intenzioni. Non la ragione teoretica ma quella pratica fornisce perciò il fondamento per le nostre convinzioni metafisiche.

La metafisica pratica di Kant si fonda sulla supposizione che vi sia una corrispondenza totale tra l’ordine fisico della natura e l’ordine morale del volere e del dovere. La tesi dell’armonia è alla radice dell’idea del sommo bene e agli occhi di Kant si può sostenere soltanto per il fatto che la ragione riconosce Dio come creatore del mondo e dell’uomo. Diversamente dalle prove tradizionali dell’esistenza di Dio, il postulato kantiano non si fonda su princìpi teoretici, come quello di causalità, ma deriva dalla riflessione sul senso ultimo dell’agire per dovere. Se non vi fosse nessuna speranza in una compensazione tra felicità e virtù, ma se dipendesse soltanto dal caso il fatto che il nostro agire morale sia coronato da successo, ciò non nuocerebbe certamente al dovere morale, ma rivelerebbe che il concetto del sommo bene è un’illusione. Nella metafisica di Kant si tratta perciò non di alcune convinzioni scelte più o meno arbitrariamente, ma della conformità della ragion pratica con se stessa.

Partendo dalla tesi dell’armonia, vale la pena dare ancora uno sguardo ai due elementi che costituiscono l’idea del sommo bene. Come deve reagire la ragione di fronte al fatto che la virtù umana non è mai perfetta? La riflessione sul postulato kantiano dell’immortalità ha concluso che un’esistenza che continua all’infinito acuisce il problema, anziché risolverlo, poiché l’uomo in ogni momento possiede la libertà di scegliere nuovamente il male, e poiché la quantità di cattive azioni che si accumulano nel corso di una vita cresce continuamente. Per questi due motivi si può ritenere addirittura che sia un privilegio il fatto che l’uomo non esista eternamente, ma che il tempo delle scelte rilevanti sul piano morale abbia termine con la morte. Poiché tuttavia la morte non fa in modo che il male compiuto durante la vita sia inesistente, l’uomo non può evidentemente realizzare da se stesso la pretesa kantiana di una perfetta adeguatezza dell’intenzione alla legge morale.

Rimane dunque come unica via di uscita la speranza che Dio perdoni all’uomo la sua colpa. Kant non intende rassegnarsi per nulla a una simile soluzione, perché a suo giudizio ogni genere di indulgenza e condono contrasterebbe con la giustizia divina[8]. Il fallimento della sua argomentazione sull’immortalità dell’anima dovrebbe costituire però un motivo sufficiente per prendere seriamente in considerazione l’alternativa da lui esclusa. È davvero più «ragionevole» pensare a un progresso morale continuo dell’uomo piuttosto che confidare che la giustizia di Dio possa sussistere assieme alla sua misericordia? Anche se per ipotesi non si potesse dare alcuna risposta filosofica definitiva a questa domanda, dovrebbe essere chiaro che l’idea della perfezione morale non conduce necessariamente alla fede nell’immortalità, ma può ugualmente suscitare una riflessione approfondita sul fatto che l’uomo è soggetto al perdono e sull’esistenza di un Dio misericordioso.

Se consideriamo ora l’altro elemento del sommo bene, la felicità, ci si prospetta quasi un’immagine opposta. Come abbiamo visto, Kant postula l’esistenza di Dio come condizione necessaria perché vi sia corrispondenza tra l’ordine fisico e quello morale. Se non vi fosse Dio, non vi sarebbe motivo di ritenere che il nostro agire morale eserciti un influsso determinante sul bene dell’umanità. È strano che Kant prenda così poco in considerazione il fatto che l’armonia tra moralità e felicità, insita nel concetto del sommo bene, trovi così scarso riscontro nella nostra esperienza quotidiana. Come mostra a sufficienza la lunga storia del dibattito sulla teodicea, la realtà offre numerosi esempi che inducono a dubitare non soltanto della misericordia di Dio, ma anche della sua giustizia. L’ammissione dell’esistenza di Dio non è per nulla sufficiente ad assicurare che virtù e felicità si corrispondano sempre. Quello che sappiamo del mondo fisico va contro la supposizione che tutti gli uomini raggiungano realmente un grado di felicità corrispondente alla loro intenzione morale.

Come già nel caso della perfezione morale, anche qui si offre la soluzione di mettere da parte completamente l’idea del sommo bene e di lasciar cadere la speranza nella felicità. Chi invece persiste nel ritenere che il sommo bene sia raggiungibile e con Kant continua a supporre che la felicità sia lo stato di un essere razionale «a cui, nell’intera sua esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere», costui dovrebbe pensare che la sua esistenza nella sua totalità non si limiti alla vita terrena. Invece di ricorrere all’immortalità come condizione del progresso morale, è molto più ovvio vedere in essa la condizione per la vera felicità. Questa proposta non è una magra consolazione proiettata sull’aldilà, ma il tentativo di fare chiarezza sull’oggetto dalla nostra ragion pratica.

Poiché l’uomo non è soltanto obbligato moralmente a fare il bene, ma vuole anche raggiungere realmente questo bene, si pone il problema di ciò che resta al di là del dovere morale e delle condizioni metafisiche soggiacenti alle nostre possibilità fisiche perché si possa realizzare questo bene. La considerazione che Kant propone al riguardo suona così: la corrispondenza tra moralità e felicità, insita nell’idea del sommo bene, può essere pensata come possibile soltanto se si suppone che esista un Dio personale. Tuttavia, poiché non sempre la beatitudine viene raggiunta in questo mondo fisico da colui che agisce moralmente, anche la continuazione dell’esistenza oltre la morte va verso ciò che è pensabile sul piano filosofico. Se si suppone l’immortalità dell’anima, non ne deriva, come riteneva Kant, un’ulteriore occasione di dimostrare la propria virtù, ma si rivela possibile il secondo elemento del sommo bene, la felicità. A questa maniera ancora una volta si può constatare come le riflessioni di Kant sul concetto del sommo bene conducano effettivamente a valide prospettive metafisiche. Anche chi non condivide le sue conclusioni, dovrà confrontarsi almeno con le sue argomentazioni che qui abbiamo presentato. In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che la tematica dell’immortalità dell’anima non può rimanere estranea al problema di una vita buona.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2012

***

[1] Cfr I. Kant, Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, in Scritti precritici, Roma - Bari, Laterza, 1982, 399.

[2] Id., Critica della ragion pura, Milano, Bompiani, 2004, 51.

[3] Id., Critica della ragion pratica, Milano, Bompiani, 2004, 261

[4] Ivi, 267.

[5] Ivi, 261.

[6] Ivi, 263.

[7] Ivi, 267.

[8] Cfr ivi, 265.


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