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IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO

KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE. Materiali sul tema - a cura di Federico La Sala

(...) Nel carattere popolaresco del “superuomo” sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da “primadonna” più che da superuomo; molto formalismo “soggettivo e oggettivo”, ambizioni fanciullesche di essere il “primo della classe”, ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale (...)
sabato 17 giugno 2023
KANT - [...] In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi [...]
GRAMSCI - [...] Il tipo del “superuomo” è (...)

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> KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO --- SULLA SOGLIA, IN "ATTESA DI DIO". "Il desiderio di verità, canto di Simone Weil" (di Roberto Righetto).

domenica 21 luglio 2024

Filosofia. Il desiderio di verità, canto di Simone Weil

Torna “Attesa di Dio” della pensatrice francese che nell’«autobiografia spirituale» parla del suo essere sulla soglia della fede “en hipomené”, immobile: «Parola più bella del latino “patientia”»

di Roberto Righetto (Avvenire, giovedì 1 febbraio 2024)

      • [Foto] Simone Weil a Marsiglia nella primavera del 1941

«Sono rimasta in quella precisa posizione, sulla soglia della Chiesa, senza spostarmi, immobile, en hypomoné (è una parola tanto più bella di patientia!)». Così Simone Weil nella sua Autobiografia spirituale, sollecitata dall’amico padre Joseph-Marie Perrin, scritto che fa parte di uno dei suoi libri più famosi, Attesa di Dio, pubblicato postumo nel 1949 a cura dello stesso Perrin. In Italia è uscito nel 1972 da Rusconi, casa editrice allora diretta da Alfredo Cattabiani. Cristina Campo lo definì «un immenso libro» e ora l’Adelphi, che già nel 2008 aveva pubblicato una nuova edizione completa a partire dai manoscritti, il 13 febbraio lo rimanda in libreria (pagine 400, euro 14,00).

Contiene varie lettere a Perrin e alcuni testi composti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942, fra cui la citata Autobiografia, una riflessione sull’amore di Dio e la sventura umana e un altro sul Padre nostro. Come spiega Simone nella ventina di pagine dell’Autobiografia spirituale, che furono scritte il 15 maggio 1942 a Marsiglia e costituiscono un resoconto preciso del suo percorso di avvicinamento al cattolicesimo, il primo impulso le era venuto durante un viaggio in Portogallo nel 1935, dove fu colpita da una processione di barche in un paesino: il canto delle donne che si fa lamento e speranza le dà la certezza, per la prima volta, «che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro».

Dopo un’adolescenza trascorsa nell’ateismo e dopo il breve coinvolgimento nella guerra civile spagnola, terminato amaramente per un infortunio, è nel 1937 ad Assisi che avviene la svolta: «Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa di più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi». E l’anno dopo a Solesmes, una delle più belle abbazie di Francia, trascorre la Settimana santa: « Rannicchiata in un angolo», trova «una gioia perfetta e pura nella inaudita bellezza del canto e delle parole».

Qui fa amicizia con un giovane inglese che le fa conoscere una poesia di George Herbert, intitolata Amore (anch’essa compare in Attesa di Dio), che per lei non è solo un bel componimento ma una preghiera: « Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo è disceso e mi ha presa». Annota Maria Concetta Sala nell’introduzione: «Simone Weil fonda la propria fede non sulla ricerca di Dio o sull’adesione a una dottrina, ma sul desiderio della verità in quanto bene, nonché sulla vocazione personale - che a suo giudizio coincide con la volontà di Dio operante in lei - e sull’incontro inatteso con il Cristo».

Così, al domenicano Perrin, impegnato nella Resistenza e frequentato a Marsiglia a partire dal 1941, dice di voler restare sulla soglia: pur manifestando la sua adesione alla figura di Cristo, rimangono in lei numerose perplessità. Non sopporta la Chiesa cattolica come organizzazione e collettività e non le va a genio l’incapacità di valorizzare le altre culture e religioni, manifestatasi spesso con la violenza nei secoli passati, fra Crociate e Inquisizione. Infine, le pesava il suo sentirsi inadeguata ad essere accolta dalla Chiesa. Per questo partecipava alla Messa ma non voleva ricevere l’ostia. Così come non cedette mai sul battesimo.

Si può parlare di fede implicita? Certamente sì. È noto che Simone da un certo punto in poi della sua vita recitava quotidianamente il Padre Nostro in greco, come spiega raccontando i mesi trascorsi nelle campagne di Saint-Marcel-d’Ardèche, ospite del filosofo-contadino Gustave Thibon: « L’estate scorsa, studiando il greco con Thibon, ripetevamo parola per parola il Pater in greco e ci siamo ripromessi di impararlo a memoria. Da allora, mi sono imposta come unica pratica di recitarlo una volta ogni mattina, con un’attenzione assoluta». Mentre recitava il Padre Nostro durante il lavoro dei campi, la Weil esprimeva il suo sentimento di condivisione del dolore degli uomini per l’orrore del nazismo. «Questa preghiera - si legge nel testo A proposito del Pater - contiene tutte le domande possibili. Lo Spirito soffia dove vuole, non si può che invocarlo. Rivolgergli un appello e un grido».

Come sostiene Giancarlo Gaeta nella postfazione, il sogno di Simone è un cristianesimo inteso come «una religione liberata, o meglio purificata dal preponderante condizionamento sociale », «un cristianesimo che non si affermi più come l’unica religione vera, una chiesa che non si affermi più come la sola portatrice di salvezza». Ma lo dice la stessa Simone: ci sono troppe cose che lei ama al di fuori della Chiesa che la trattengono: «Potete anche credermi sulla parola - scrive a Perrin il 26 maggio 1942 - che la Grecia, l’Egitto, l’India antica, la Cina antica, la bellezza del mondo, i riflessi puri e autentici di questa bellezza nelle arti e nella scienza, la visione delle pieghe del cuore umano nei cuori vuoti di fede religiosa hanno avuto la stessa parte di ciò che è palesemente cristiano nel consegnarmi prigioniera a Cristo ». E nella prima lettera che compare nel volume, del 19 gennaio 1942, spiega: «Nulla mi rattrista più del pensiero di separarmi dalla massa immensa e sventurata dei non credenti».

L’amore indefesso per i feriti dalla storia, la sua radicalità sono sottolineati pure da Chiara Giaccardi nella prefazione ad un altro volume di Simone Weil appena edito da Meltemi ( Attenzione e preghiera, pagine 142, euro 12,00) che raccoglie alcuni testi della filosofa su questi due temi interconnessi, alcuni dei quali compaiono in Attesa di Dio. Dice Giaccardi: «Simone Weil non fa esperienze, osservazione partecipante, assaggi di realtà per poter meglio comprendere la verità. Vive nella sua carne la vita nella dimensione più dura. Ne diventa parte, totalmente». La stessa Simone chiama «miracolo » la capacità di prestare attenzione agli sventurati.

Nel saggio Sulla nozione di lettura, apparso per la prima volta su Les études philosophiques nel 1946 e qui proposto, la pensatrice spiega come la lettura non possa prescindere dal mistero e dalla contemplazione, e in un altro scritto, Sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, testo del 1942 anch’esso presente in Attesa di Dio, si sofferma sul metodo dell’attenzione, cruciale nello studio come nella preghiera.

Come illustra Marco Dotti nell’introduzione, Weil introduce il concetto sopra richiamato di hypomoné, parola greca ripresa dal Vangelo di Luca e che letteralmente significa “redenzione attraverso l’attenzione” e che non è altro che «l’attesa, l’immobilità vigile e fedele che dura all’infinito e nessun evento può scuotere». Quell’attesa che in un’apertura radicale all’altro diviene «la forma più rara e più pura di generosità».


L’ATTENZIONE COME PREGHIERA NATURALE DELL’UOMO

di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 11-02-2024)

      • Simone Weil
      • Attenzione e preghiera
      • Meltemi, pagg. 144, € 12

I 1 termine "attenzione" dà luogo a numerose locuzioni verbali che possono essere costruite con l’aiuto di fare o prestare; il plurale "avere attenzioni" indica, invece, delle premure. Anche se non elegante, il derivato "attenzionare" ha trovato consenso in burocrazia, è stato accolto in politica e financo in settori contigui, sino a far parte con "attenzionato" - il participio passato - del gergo di questure e caserme.

Sull’attenzione si sono cimentati i filosofi moderni, almeno sino a metà Ottocento, quando hanno lasciato l’incombenza alla psicologia scientifica. Descartes, per esempio, nelle Passioni dell’anima intende l’attenzione come l’atto con cui lo spirito tiene in considerazione un unico oggetto per qualche tempo; Locke nel Saggio sull’intelletto umano scrive: «Quando si prende nota delle idee che ci si presentano da sé, ed esse vengono per così dire registrate nella memoria, si tratta dell’attenzione». Non persero l’occasione d’intervenire sull’argomento Leibniz e Christian Wolff; anzi quest’ultimo, in elegante latino, così ne parla nella sua Psicologia empirica: «La facoltà di fare sì che, in uno stato di coscienza complesso, un elemento riceva una maggior chiarezza dagli altri, si dice attenzione».

Saltando il resto ed evitando quanto è pertinente alle analisi delle scienze psicologiche, è bene ricordare una definizione lasciata da Nicolas Malebranche (1638-1715), uno dei padri dell’occasionalismo, autore che si dedicò particolarmente alla ricerca della verità: scrisse che l’attenzione «è la preghiera naturale dell’uomo».

Ora, proprio da qui parte l’introduzione di Marco Dotti a una raccolta di testi di Simone Weil, intitolata Attenzione e preghiera (con prefazione di Chiara Giaccardi e postfazione di Maria C. Lucchetti Bingemer).

Sono brevi e fascinosi saggi risalenti al 1941-42: vanno da Sulla nozione di lettura a Sul Padre nostro (che la filosofa traspose dal greco per Gustave Thibon, nella sua casa a Saint-Marcel), da Sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio all’Autobiografia spirituale.

C’è in chiusura la poesia Love del poeta inglese secentesco George Herbert, che la Weil tradusse sino a considerarla «la più bella del mondo».

Perché tale giudizio?, si chiederà qualcuno. Dotti risponde ricordando che Love, come il Padre nostro, costituiscono esempi di un «linguaggio decreato, abbassato fino al grado zero dell’umiltà». Sono una preghiera, insomma; e tale atto - se cogliamo un suggerimento che si trova nei Cahiers - è «l’attenzione nella sua forma pura». Perché Dio, osserva Weil, «è sempre oltre», è fuori, è Altro. O, come ha scritto ne La connaissance surnaturelle, «è attenzione senza distrazione».


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