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RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.

In questa lezione incontriamo un altro Kant (...) Foucault scopre in Kant il contemporaneo che trasforma la filosofia esoterica in una critica del presente che replica alla provocazione del momento storico (...)
martedì 7 maggio 2024
Foto. Frontespizio dell’opera di Thomas Hobbes Leviatano.
SIGMUND FREUD E LA LEZIONE DI IMMANUEL KANT: L’UOMO MOSE’, L’ UOMO SUPREMO, E LA BANALITÀ DEL MALE. I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. NOTE PER UNA RI-LETTURA
QUESTO L’INDICE (il testo completo è allegato - qui in fondo - in pdf):
I
PRIMA PARTE:
SIGMUND FREUD, I DIRITTI UMANI, E IL PROBLEMA DELL’ (...)

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> FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. --- "L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida" di Caterina Resta (rec. di Rita Fulco)

lunedì 5 marzo 2012

Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida. Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 138, Euro 14,00

Recensione di Rita Fulco - 19/12/2003 (da: www.swif.uniba.it)

Ascoltare e cor-rispondere nella scrittura. Questo originario mettersi a disposizione della parola e del pensiero ha da sempre consentito a Caterina Resta di confrontarsi con le maggiori questioni filosofiche del nostro tempo e di tradurle in parola con un certo anticipo rispetto alla loro ribalta nel dibattito filosofico.

Questa "preveggenza" aveva caratterizzato anche il suo primo testo su Jacques Derrida (Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Milano 1990), una delle pionieristiche monografie italiane - che tutt’oggi resta un punto di riferimento ineludibile per chi intenda occuparsi seriamente di Derrida - sul grande pensatore francese: indubbiamente ha il merito di avere aperto, per prima, alcune piste divenute fondamentali nel dibattito intorno al filosofo. In particolare, gli ultimi due capitoli di quel volume mostravano come il pensiero di Derrida, lungi dal potersi ridurre a un "pensiero della scrittura" come puro esercizio ludico di stile (questo è semmai il limite di tanti suoi mimetici esegeti), fosse aperto a molte altre questioni, altrettanto decisive, la cui portata filosofica è possibile cogliere solo sullo sfondo di alcuni dei suoi più diretti interlocutori. Heidegger, in primo luogo, per quanto riguarda un pensiero dell’evento, inteso anche come cor-rispondere all’ascolto di una parola data, accettazione e accoglimento di una promessa, di un patto che, fin dall’inizio, determina la nostra appartenenza al linguaggio. E Lévinas, per quanto concerne la sempre maggiore attenzione dedicata dall’ultimo Derrida ai risvolti etico-politici e al tema dell’altro in quanto autrui, alla ricerca di un diverso modo di pensare l’entre nous.

Questo nuovo lavoro coglie il frutto più recente e maturo del pensiero del filosofo francese, il cui seme Caterina Resta aveva intravisto nel volume del 1990: in un confronto divenuto ormai esplicito e serrato con il pensiero di Lévinas e con la comune radice ebraica - a cui l’autrice dedica un illuminante e importante capitolo, che offre una ricostruzione esaustiva e affascinante del dialogo tra i due grandi filosofi francesi - Derrida intravede nella figura dello straniero e dell’ospite la possibilità di quell’evento dell’altro che, inatteso e inaspettato come il Messia, scardina e interrompe il continuum del tempo cronologico, introducendovi le possibilità inaudite di un tempo kairologico, mettendo radicalmente in discussione lo stesso statuto del soggetto. Un radicale rovesciamento, dunque, dell’ermeneutica della decostruzione derridiana, considerata da molti come esempio di assoluta irresponsabilità del pensiero, occupato unicamente in un estetizzante quanto cinico gioco basato su una pratica nichilistica e distruttiva, volta a smantellare il "logofonocentrismo", nome dato da Derrida alla tradizione del pensiero occidentale. L’originale e acuta interpretazione di Resta mostra come la responsabilità e la giustizia siano, in realtà, gli snodi fondamentali su cui la decostruzione, negli ultimi lavori del filosofo francese, si de-cide - o fosse sin dall’inizio decisa - radicalmente per altri, richiamando in ogni istante a rispondere dell’altro e per l’altro, proseguendo su quei tracciati che già da sempre conducevano a quello che oggi ci sorprende come un rinnovato e dirompente pensiero dell’ospitalità e dell’accoglienza dell’altro, di altri.

Già l’incipit - un breve quanto denso commento, posto quasi ai bordi dell’immagine scelta per la copertina (un particolare della Cena in Emmaus di Caravaggio) - lascia affiorare il tema chiave dell’intero volume: l’evento dell’altro non è rivestito di gloria e onore ma, come il Messia dell’episodio evangelico, "ebraicamente, è lo Straniero che incontriamo per strada, lo Sconosciuto dal quale si ricevono insospettabili ammaestramenti; è il Clandestino senza nome, forse addirittura il Perseguitato, la cui identità di altro uomo è celata per la cecità dei nostri occhi che non ne sanno riconoscere il Volto; è l’Ospite cui dobbiamo accoglienza alla nostra tavola e con il quale siamo chiamati a condividere i pasti alla mensa comune" (p.10).

A quest’ospite non ci si può che rivolgere dandogli del tu, e la scrittura di Derrida si piega al soffio, o al vento impetuoso, dell’altro assumendo la forma dell’apostrofe, quel tono diretto, quasi timbro di voce, che sul foglio bianco si traduce nella signature, la firma, singolare impronta d’esistenza individuale, incrocio di nome e tempo nello spazio dell’incontro che ogni carte postale, ogni lettera, ogni invio dischiude. L’unicità dell’adresse e della signature non delimita uno spazio identitario, ma i bordi di un appello, di uno spazio gravido d’evento, in cui si possano dare cor-rispondenze: "Poco importa, infatti, la presunta identità - miraggio di ogni comunicazione trasparente - del destinatore e del destinatario: quel che davvero interessa, ciò di cui "ne va", è che la destinazione sia ogni volta unica nel suo indirizzo, che ogni volta si indirizzi a te e a nessun altro e che tu [...] semplicemente l’accolga dicendole di sì [...]. Per questo essa, nonostante ogni ’buona volontà’ e intenzione, può non raggiungerti mai, cadere in altre mani, anche quando fossero proprio le tue" (p. 22). L’importanza di questo Ent-sprechen (cor-rispondere) sarebbe impossibile da comprendere senza tenere in giusta considerazione il corpo a corpo che Derrida sostiene con tutto il pensiero di Heidegger, a partire da Sein und Zeit fino a Zeit und Sein, concentrandosi sui temi dell’ascolto e dell’evento, come impegno alla e nella parola.

L’evento non s’inserisce affatto in un orizzonte di prevedibilità e calcolabilità, anzi scardina ogni programma, porta il tempo out of joint, poiché se davvero si sapesse cosa si attende e il momento preciso in cui tale attesa verrà soddisfatta, non ci sarebbe, non si darebbe, alcun evento, ma tutt’al più l’esecuzione di un programma. L’evento arresta il tempo cronologico, interrompe la scansione ripetitiva delle lancette d’orologio e, in una sorta di escatologia messianica, irrompe sulle ali del giovane Kairos dal lungo ciuffo che dobbiamo saper ’acciuffare’: "Non tutto ciò che accade ha dunque il carattere di evento, ma solo quel che e-viene nella sua assoluta e irriducibile singolarità, quell’unico che, nell’attesa, non mi potevo aspettare e che perciò mi sorprende, fino a mozzarmi il fiato" (p. 31).

Ciò non significa che occorra predisporsi al futuro, dimentichi di ogni passato. Anzi, Derrida stesso avverte che non c’è a-venire senza eredità e possibilità di ripetere. Si tratta di intrattenere un rapporto differente con il passato, che non viene conservato sotto forma di archivio onnifagocitante, ma riattivato mediante una decisione, una responsabilità, a cui l’eredità stessa chiama: quella di esserne testimoni, prestando fede all’impegno preso e alla parola data, liberamente. Testimoniare di un’eredità ricevuta in dono non vuol dire trasmetterne esattamente i contenuti: questo è un gesto impossibile alla radice, visto che si eredita sempre a partire da un segreto che l’eredità stessa serba nell’offrirsi a noi, un inattingibile che non si può confidare e che rivela una condizione di radicale finitezza.

Questo pensiero, allora, deve misurarsi costantemente con il limite, ripensare soglie e frontiere, nello spazio, nel tempo, nel linguaggio, nell’infinita differenza di ogni soggetto con sé stesso e nel suo essere assoggettato all’infinita differenza dell’altro, che arriva e, sorprendendomi, mi reinventa: ospite io stesso di me stesso e di colui che arriva, a sua volta ospitante e ospitato. Questo è il cuore dell’ospitalità all’evento, in cui un arrivante assoluto espropria, disidentifica, mette in questione ogni chez soi, in un imprevedibile rovesciarsi di estraneo e familiare, fino a trasformare - come ha ben visto Lévinas - colui che ospita in ostaggio di colui che è ospitato, spingendo la legge dell’ospitalità verso l’impossibile di una giustizia che impone di accogliere l’arrivante senza chiedergli nulla, neanche il nome: "Muta accoglienza, a braccia aperte, nel più perfetto silenzio in cui si apre una porta, quasi che solo esso sia in grado di custodire quel segreto che l’arrivante ci offre in dono e che consente un’ospitalità incondizionata nei confronti dell’altro: lasciarlo straniero nel gesto che lo accoglie, inappropriabile" (p. 49).

Qui si incrocia uno dei temi più scottanti che attraversa, come una ferita originaria, le politiche dell’ospitalità: come tenere insieme l’esigenza urgente e imprescindibile della legge dell’ospitalità, che impone un’apertura incondizionata, con le leggi dell’ospitalità, chepretendono di regolamentare giuridicamente un’istanza ontologica, prima che etica, e cioè il fatto che l’altro viene prima di me? In realtà La legge dell’ospitalità ha bisogno delle leggi dell’ospitalità, se non altro come frontiera da superare, limite da trasgredire, per avvicinarsi sempre più a quell’imperativo di assoluta apertura di cui essa è portatrice.

Mentre la giustizia appartiene al registro del dono, con l’incommensurabile responsabilità nei confronti dell’altro, al diritto spetta "comparare l’incomparabile", calcolare, equiparare. Derrida si appella dunque a una dimensione escatologica e messianica della giustizia, senza che ciò rinvii a un particolare orizzonte religioso: si tratta di un "messianico senza Messia", di un "riconoscimento della Torah prima del Sinai", come ha sostenuto Lévinas, da inscrivere nell’ordine di una promessa incondizionata che non può essere garantita a priori da nessun programma politico, speranza di una democrazia a-venire: "Il dio che ama lo straniero avrebbe annunciato non a tutti, ma singolarmente a ciascuno, la legge dell’ospitalità come un umanesimo dell’altro uomo, speranza di ogni umanità a venire" (p. 89).

Come riuscire a essere giusti nello iato tra diritto e giustizia? Che cosa garantisce che una decisione non sia semplicemente legale ma giusta? La decisione di Abramo rispetto al sacrificio del figlio Isacco è da Derrida considerata emblematica, poiché rende impossibile la decisione stessa, assoggettata a due imperativi ugualmente esigenti e, proprio per questo, l’unica davvero responsabile. In questo suo proporsi come esperienza dell’impossibile, la giustizia rivela il suo legame con l’evento, sorprendendo la stessa soggettività del soggetto e rivelandolo esposto ontologicamente all’altro, responsabile prima che libero.

Si annuncia così l’urgenza di una politica che decostruisca ogni orizzonte genealogico, che attribuisce diritti a partire dalla nascita e dalla discendenza, come anche ogni schema basato sulla fratellanza, volto a garantire valore solo alla comunità di sangue, spettri sempre pronti a seminare terrore e morte, anche nella nostra epoca in cui la globalizzazione teletecnica e la conseguente deterritorializzazione, lungi dall’offrire un mondo armoniosamente pacificato, hanno visto la risorgenza di localismi e nazionalismi esasperati, contraccolpo allo sradicamento totale e omologante, che ha privato di ogni possibilità di avere una propria dimora e di poter offrire, quindi, un’ospitalità: "Una politica dell’ospitalità non può non riconoscere lo struggente desiderio della singolarità, dell’idioma, di ciò che è proprio: che altro si avrebbe da offrire all’ospite che ci visita se non il dono della nostra differenza? Perfettamente uguali non saremmo anche necessariamente indifferenti?" (p. 72).

Ogni politica dell’ospitalità, ogni politica a-venire, deve rispondere di un difficile compito: quello di essere fedele alla doppia ingiunzione che impone da un lato il rispetto della singolarità e dall’altro la totale ospitalità offerta a ogni altro in quanto altro, nella costante vigilanza che l’esigenza del sangue e del suolo non rinasca dall’interno del desiderio della dimora e dell’idioma. Rischio sempre presente che apre alla possibilità ineludibile che ogni hospes si trasformi in un hostes, anzi nel più acerrimo inimicus.

La scommessa e la promessa di questa politica a-venire, o meglio di un possibile avvenire della politica, è quella di un "legame che sleghi", di una "comunità di coloro che non hanno comunità", come l’ha chiamata Bataille, amicizia del dis-astro, per usare un’espressione di Blanchot, o amicizia stellare degli astri, secondo le parole di Nietzsche, che sappia rinunciare a ogni comune, a ogni come-uno, in vista di un essere-insieme-altrimenti, fondato sulla con-divisione del segreto. Amicizia nella condivisione del silenzio e della solitudine.

L’intraducibilità e l’intrasparenza, proprie di ogni singolarità, alludono a un resto inappropriabile che rende la separazione insormontabile: "Ma come testimoniare di questo ’tacere tra amici’, del tacere l’uno all’altro, l’uno davanti all’altro, ’come si può stare assieme per testimoniare il segreto, la separazione, la singolarità?’ E, domanda ancora più incalzante, può esservi una politica di o per questa comunità di coloro che non hanno comunità, è possibile ’fondare una politica della separazione?’ Una politica, una democrazia che dovrebbero farsi carico, che dovrebbero cor-rispondere all’intrattabilità di questo tratto, di questo ’tra’ che è la condizione di tutt’altra comunità" (p. 86).

Dunque, la questione urgente è se davvero si possa amare lo straniero in quanto tale, se possa esistere un’aimance indirizzata all’unico, all’amico nella sua totale differenza e inappropriabilità, che non scada in un bene come-unitario distribuito indistintamente ai tutti senza volto: "Al di là del comune e della comunità, non sarà forse ’ospitalità’ il nome di questa aimance, l’altro nome di una politica a-venire?" (p. 88). L’ospitalità, al di là del bene e del male di ogni comunità, dice infatti un altro tempo, dona un altro tempo, nell’attesa di quel Messia che è già da sempre qui e che pure deve ogni volta arrivare, clandestino e straniero: lui che, al di là di ogni nome proprio, nomina proprio il dono del tempo. L’evento dell’altro.

-  Indice---Introduzione: L’a-venire della decostruzione 1. L’evento dell’altro (I. Gli effetti della scrittura; II. L’apostrofe; III. L’invenzione dell’altro; IV. La responsabilità della risposta) 2. L’evento e (è) l’impossibile (I. L’inatteso; II. Ereditare; III. L’a-venire) 3. Politiche dell’ospitalità (I. Ospitalità; II. Diritto e giustizia; III. Decisione e responsabilità. IV. Una politica a-venire V. Con-dividere il segreto; VI. Messianico senza Messia) 4. Un contatto nel cuore di un chiasmo: Derrida e Lévinas (I. Incroci; II. Il passo al di là; III. Alterità e scrittura; IV. Un’etica prima dell’ontologia. V. Addio; VI. L’accoglienza)

-  Caterina Resta è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Messina, dove insegna anche Filosofie del Novecento. Si è occupata di Martin Heidegger, Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger e Carl Schmitt. È interessata, inoltre, al tema della differenza e dell’alterità, avendo approfondito, nell’ambito della filosofia francese, il pensiero di Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy e Emmanuel Lévinas. È anche fra i maggiori studiosi di Geofilosofia. Tra i suoi volumi più recenti: La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger (Milano 1998), Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso (Roma 1999), Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani (Milano 2000, con Luisa Bonesio).


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