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RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.

In questa lezione incontriamo un altro Kant (...) Foucault scopre in Kant il contemporaneo che trasforma la filosofia esoterica in una critica del presente che replica alla provocazione del momento storico (...)
venerdì 3 maggio 2024
Foto. Frontespizio dell’opera di Thomas Hobbes Leviatano.
SIGMUND FREUD E LA LEZIONE DI IMMANUEL KANT: L’UOMO MOSE’, L’ UOMO SUPREMO, E LA BANALITÀ DEL MALE. I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. NOTE PER UNA RI-LETTURA
QUESTO L’INDICE (il testo completo è allegato - qui in fondo - in pdf):
I
PRIMA PARTE:
SIGMUND FREUD, I DIRITTI UMANI, E IL PROBLEMA DELL’ (...)

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> FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. --- Eichmann, l’aguzzino che cercò di passare da innocente pedina. Una mostra a Firenze ricostruisce la vicenda del criminale nazista che fu processato e giustiziato a Gerusalemme (di Sonia Renzini)

mercoledì 8 febbraio 2012

Eichmann, l’aguzzino che cercò di passare da innocente pedina

Una mostra a Firenze ricostruisce la vicenda del criminale nazista che fu processato e giustiziato a Gerusalemme di Sonia Renzini (l’Unità, 08.02.2012)

Imperturbabile, nella gabbia di vetro stretto tra due guardie, con gli occhiali e le cuffie, rasato e ben vestito. No, a vederlo così Eichmann non sembra quel criminale efferato che le cronache e la storia hanno rivelato, ma ora è un uomo senza potere, sconfitto dalla storia e dalla civiltà, che cerca di difendersi di fronte a quell’umanità che ha calpestato senza né scrupoli né pudore. Per conoscerlo davvero bisogna vederlo prima, quando giovanissimo simpatizza per l’estrema destra e si iscrive al partito nazista, diventa spedizioniere della morte e nel ’42, all’apice della sua carriera, mette a punto a Wannsee la soluzione finale. Istantanee sparse, ma tasselli fondamentali per ricostruire il mosaico di una figura complessa e sondare le ragioni di quella follia.

È il momento del processo, quello in cui il mondo si interroga, portato ancora una volta, oggi come nel ’61 all’attenzione dell’opinione pubblica. Attraverso le immagini che corrono sui monitor, le foto d’archivio, articoli di giornale dell’epoca, documenti e ricostruzioni storiche, testimonianze. Una traccia indelebile della nostra memoria ripercorsa nella mostra già approdata a Berlino e a Vienna e ora, per volontà della Regione Toscana e della fondazione Museo e centro di documentazione della deportazione e Resistenza di Prato diretta da Camilla Brunelli, a Firenze, alle Murate, neanche a farlo apposta tra le mura delle ex prigioni della città (fino al 18 febbraio). Di nuovo a catalizzare l’attenzione è il tentativo di difesa del gerarca nazista di uomo qualunque che eseguiva gli ordini, e ora insinua il dubbio, fastidioso e penetrante, che tutto quello orrore fosse solo un’emanazione della normalità, semplice banalità del male, come scrisse Hannah Arendt, inviata del New Yorker. Fu veramente così?

«PICCOLO INGRANAGGIO»

Eichmann si definì un piccolo ingranaggio di una macchina, la Arendt trovò inquietante che in effetti fosse uno come tanti, ma quante volte abbiamo saputo di mostri fin troppo «perbene». Eichmann è padre di 4 figli e marito di Vera Liebl e, soprattutto, è un grande servitore dello Stato, troppo. Una mappa geografica dell’Europa mostra i suoi spostamenti per lavoro, un’agenda fittissima di viaggi compiuti per essere certo di adempiere bene il suo dovere, nel suo caso si tratta di vigilare sull’effettivo sterminio degli ebrei. Come un manager moderno non esita a precipitarsi da Vienna, dove vive, a Berlino, a Praga. Non si accontenta di starsene dietro una scrivania, lui parte, arriva, si accerta. «Ero qui e dappertutto, nessuno poteva sapere quando sarei comparso», dirà Eichmann orgoglioso nel ’57 al giornalista ex Ss Willem Sassen. Una missione più che un compito. Sempre a Sassen confiderà: «Burocrate lo fui davvero, ma a questo attento burocrate si unì un combattente fanatico per la libertà del mio sangue, al quale appartengo».

Eccoli i risultati di tanta devozione, poco più in là una serie di foto mostra i volti in bianco e nero di vecchi e bambini, in mano una valigia, a volte niente, prima e dopo essere saliti sul treno diretto ad Auschwitz, in fila o ammucchiati. A Skopie in Macedonia nel ’43, a Ioannina in Grecia nel ’44, a Hanau in Assia nel ’42, a Westerbork nei Paesi Bassi e a Ž-linain Slovacchia, a Budapest in Ungheria, ad Auschwitz. È una lista lunghissima ed Eichmann la mette a punto fin nel minimo dettaglio, attento che tutto fili come deve, senza intoppi o rallentamenti, salvo darsi alla macchia quando non c’è più niente da fare. Allora cambia nome, lavora come operaio forestale, gestisce una fattoria avicola e fugge a Buenos Aires, nel ’50, dove condurrà una vita ritirata con il nome di Ricardo Klement e sarà catturato dal servizio segreto israeliano che lo confinerà in un’aula di tribunale di Gerusalemme da cui uscirà impiccato nel ’62.

È la parte più suggestiva della mostra, la Shoah diventa una realtà, ingombrante e irremovibile, il procuratore Hausner fa sfilare i sopravvissuti uno dietro l’altro, per ricordare che tutto quanto è stato vero, anche se non sembra possibile. Hanno la voce rotta, a tratti interrotta, qualcuno sviene. Inizia il compito della storia e della memoria, si tratta di capire come tutto ciò sia potuto accadere.


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