EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
Il filosofo olandese era anche un po’ palestinese
Polemiche. Una risposta all’articolo uscito sul «Corriere della Sera» dal titolo «Spinoza sionista», firmato dalla studiosa Donatella Di Cesare
di Stefano Visentin (il manifesto, 03.11.2015)
È senz’altro una pura coincidenza il fatto che, pochi giorni dopo le frasi razziste e antisemite (perché anche gli arabi appartengono al ceppo linguistico semitico) di Benjamin Netanyahu a proposito della soluzione finale suggerita ad Hitler dal Gran Muftì di Gerusalemme, sia apparso sulle pagine culturali del Corriere della Sera un articolo della filosofa Donatella Di Cesare su «Spinoza Sionista» ([La Lettura], domenica 25 ottobre).
I due interventi, peraltro, si collocano su piani assolutamente diversi: il primo è un’orribile falsificazione storica operata da un primo ministro, che non prova vergogna a strumentalizzare per motivi politici una delle grandi tragedie del Novecento; il secondo è uno scritto di un’importante studiosa italiana (anche se forse non tra le più note interpreti del pensiero spinoziano) che rilegge in maniera originale - e per molti versi inaccettabile - un momento significativo della biografia di uno dei maggiori filosofi della prima modernità, il «maledetto» Spinoza (maledetto, sia ben chiaro, tanto dagli ebrei, quanto dai cristiani), per ricondurlo alla religione natia e, in tal modo, mostrare il carattere ideologico dell’interpretazione della modernità come processo di secolarizzazione e di graduale (e problematica) presa di distanza dall’eredità delle grandi religioni monoteiste (in particolare dall’ebraismo). E tuttavia, pur tenendo ben presente la grande differenza tra questi due interventi, è forse possibile trarne un insegnamento comune.
Una pioggia di maledizioni
Che le radici culturali e politiche del moderno abbiano un rapporto complesso e ambivalente con la dimensione teologica è un dato storicamente acclarato; e tuttavia la lotta per l’emancipazione dall’invadenza del clero nella vita della società e dei singoli individui rimane un passaggio fondamentale nel processo di costruzione dell’orizzonte politico della modernità.
Che Spinoza non sia stato scomunicato - come afferma Di Cesare, giocando sul fatto che per la religione ebraica la scomunica non esisteva - bensì «semplicemente» bandito dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam («Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra»), e che vi fossero dei fondati motivi di opportunità politica perché la comunità agisse in questo modo, tutto ciò è, in ultima analisi, poco rilevante per il percorso filosofico spinoziano; il giorno dello Cherem Spinoza di fatto aveva già abbandonato la sua comunità, andando a vivere fuori dal quartiere ebraico, frequentando perlopiù cristiani «senza Chiesa» (come l’ex-gesuita Van den Enden, oppure gli amici Collegianti Balling e Jelles), e successivamente dialogando con i maggiori scienziati dell’epoca (come Henry Oldenburg, segretario della Royal Society) e, forse, perfino istituendo rapporti con personaggi di spicco della politica olandese, come Johan De Witt.
Soprattutto, egli aveva abbandonato l’orizzonte ideologico della sua antica religione, leggendo Machiavelli e Hobbes, gli storici latini e Terenzio, Descartes e i trattati seicenteschi di medicina; e iniziando, passo dopo passo, a costruire un sistema filosofico che attribuiva a Dio la materialità, privandolo della volontà creatrice, e al mondo una necessità antifinalistica che mirava a liberare gli uomini dal giogo del peccato e della colpa.
Per questo la stesura del Trattato teologico-politico, composto tra il 1665 e il 1670, quando Spinoza era ormai lontano da Amsterdam, non era pensata per chiudere dei conti con l’ebraismo e con la sua comunità, né tantomeno - come sembra indicare Di Cesare - per testimoniare un qualche debito filosofico con la fede degli avi, quanto piuttosto, come dice lui stesso in una lettera all’amico Oldenburg, per difendere «la libertà di filosofare e di dire ciò che sentiamo» dai pregiudizi dei teologi di ogni religione, in particolare di quella calvinista, che preoccupava Spinoza ben più dei suoi ex-correligionari.
Così i capitoli dedicati alla respublica Hebraeorum, sui quali Di Cesare costruisce la sua tesi di uno Spinoza proto-sionista, sono in realtà composti in aperta polemica con la filia vetero-testamentaria dell’ortodossia calvinista, allo scopo di trarre dalla storia politica ebraica «alcuni insegnamenti politici» (titolo del cap. XVIII) da adoperare nella lotta per la libertà di pensiero e di parola nelle Province Unite del XVII secolo. Il carattere problematicamente democratico della teocrazia mosaica appare, agli occhi di Spinoza, un modello inimitabile in una società nella quale «non ci sono più profeti», dove l’idea di un patto con Dio risulterebbe niente altro che un grande inganno teologico: è la «società tutta intera» (cap. XVI), e non la divinità, alla quale una collettività «moderna» deve attribuire il diritto di governare, in modo che tutti i cittadini rimangano liberi e uguali.
Spirito non addomesticabile
Concludendo: il tentativo di arruolare Spinoza tra i figli prediletti del popolo ebraico (tentativo uguale e contrario alle numerose interpretazioni di uno Spinoza traditore della sua fede avita, che Di Cesare omette di ricordare; pars pro toto quella di Leo Strauss) appare un’operazione fortemente a rischio di manipolazione politica, nella direzione di una conferma dell’eccezionalismo ebraico, oggi rappresentato eminentemente dallo Stato di Israele, culla della democrazia moderna, minacciata dal progetto di sterminio architettato fin dalla prima metà del secolo scorso da una presunta congiura araba (la ripresa in chiave farsesca della leggenda dei Protocolli dei Savi di Sion).
E però Spinoza non appartiene al popolo ebraico - né tantomeno alla nazione israeliana - più di quanto non appartenga all’intera umanità, e in particolar modo a coloro che, senza distinzioni di nazione, etnia, fede religiosa, lottano per emancipare gli uomini dai pregiudizi della morale e della religione e dall’asservimento al potere dispotico di pochi; in tal senso, forse, Spinoza è anche un po’ palestinese.
Il sionista Spinoza
Il filosofo ebreo, mai «scomunicato» dai rabbini, vedeva nella Bibbia le origini della democrazia e ipotizzava la nascita di un nuovo Stato d’Israele
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera - La Lettura, 25.10.2015)
Può capitare di salire su un autobus, fermo alla stazione di sosta, e di imbattersi in un autista immerso nella lettura di un libro. La sorpresa aumenta quando si riesce a scorgere il titolo. Il libro è l’ Etica di Baruch Spinoza, la stazione degli autobus è quella di Tel Aviv.
Ma che ci fa Spinoza in Israele? Non è stato forse «scomunicato», espulso dal popolo ebraico già secoli fa? Come mai il suo spettro si aggira nel cuore della società israeliana? Per rispondere occorre ripartire proprio dal mito di quella «scomunica» che continua a essere divulgato in modo acritico. Secondo la versione più diffusa, il 27 luglio 1656 le autorità rabbiniche della comunità di Amsterdam avrebbero «scomunicato», con tanto di cerimonia lugubre, celebrata sotto la volta della sinagoga dello Houtgracht, Bento Spinoza, registrato con il nome ebraico di Baruch. La scena assume un valore emblematico: è l’apice dello scontro fra il libero pensiero e la rigida ortodossia ebraica, tra l’apertura della scienza e l’intolleranza della religione. La condanna di Galilei e la «scomunica» di Spinoza segnerebbero la fine di un’epoca buia, inaugurando la modernità.
Descritta talvolta con dovizia di particolari, tra candele nere, voci accorate, suono dello shofàr , la scena della «scomunica» non si è mai verificata. Frutto di una immaginazione, per nulla innocente, è la «scomunica» stessa. Da che cosa avrebbe dovuto essere «scomunicato» Spinoza? L’ebraismo non ha, a differenza della Chiesa, né un’autorità centrale né un dogma teologico, sulla cui base si possa impedire la «comunione» di sacramenti. Secondo le ricerche condotte negli ultimi anni si può dire che, in una saletta attigua alla sinagoga, i parnassìm , le autorità laiche, i capi riuniti nel ma’amad , il consiglio della comunità, diedero lettura di un testo in ebraico, andato perduto, di cui depositarono una copia in portoghese: per via delle sue horrendas heregias , «orrende eresie», si vietava ai membri della comunità di Amsterdam di avere ancora rapporti con Bento Spinoza.
Il divieto non fu rispettato. Dal canto suo Spinoza, che non era presente alla lettura, per difendersi inviò un testo in spagnolo, la Apologia , di cui non resta traccia, ma che dovette confluire nel suo celebre Trattato teologico-politico . L’evento non ebbe risonanza. La comunità prosperò e fiorì senza il giovane ribelle, il quale continuò a frequentare gli amici di prima e a sviluppare le sue «idee eretiche».
Oscuro resta il motivo concreto del provvedimento: forse Spinoza aveva deciso di disfarsi dell’eredità del padre, un cumulo di debiti, forse non aveva pagato le quote alla comunità, forse fu colto in flagrante mentre, insieme a Juan de Prado, violava apertamente lo Shabbat. Ma Spinoza, per carattere, era riservato e introverso; non amava la bagarre . La serena intimità dei quadri di Vermeer non deve ingannare: tra i canali del quartiere di Vlooienburg, nella «Gerusalemme olandese», i conflitti erano all’ordine del giorno. I vecchi marrani, che avevano resistito alle persecuzioni in Spagna e Portogallo, erano convinti di aver conservato in segreto l’ebraismo. Non ne avevano, però, che un pallido ricordo. L’impatto con la tradizione, che si era mantenuta viva negli altri Paesi europei, fu dunque traumatico. Giunsero da Venezia rabbini famosi come Rabbi Saul Levi Mortera, per insegnare a quegli ex conversos che Purim non era, come loro immaginavano, la festa di Santa Ester.
Fioccavano perciò i provvedimenti di cherem , di bando dalla comunità. Lo storico Yosef Kaplan ne ha contati almeno 40 nel periodo tra il 1622 e il 1683. Il cherem poteva durare anche solo un paio di giorni. La tensione era alta anche all’esterno. I capi della comunità dovevano dimostrare alle autorità olandesi che gli ebrei, oltre a seguire l’ortodossia, si guardavano bene dal sostenere idee politiche troppo radicali. Che fare con il giovane Spinoza, strenuo difensore della democrazia e della sovranità popolare? Il cherem ebbe, dunque, un valore politico. Ma a che scopo alimentare il mito della «scomunica», come hanno fatto già i primi biografi, Johan Colerus e soprattutto Jean-Maximilien Lucas, che riportano notizie tendenziose e apocrife?
Ha parlato, senza mezzi termini, di «antisemitismo» Richard Popkin, tra i maggiori studiosi del filosofo: sulla scia di precedenti illustri, Spinoza è stato dipinto come un martire per gettare discredito sulla comunità di Amsterdam e su tutto il mondo ebraico.
Eppure Spinoza è rimasto sempre ebreo. In veste geometrica e in lingua latina ha articolato la tradizione ebraica, inserendola nella riflessione europea. Di qui la straordinaria complessità della sua opera. Né ricchezza, né onore, né piacere sono beni certi. Eppure li inseguiamo ogni giorno, lasciando la nostra vita in balia di passioni e sbalzi morali che la turbano. Questo patetico amore per il bene effimero non è che idolatria. Chi è eticamente libero non teme la sorte avversa né attende ricompensa nell’aldilà.
Per spezzare le catene della schiavitù etica occorre amare ciò che è infinito, eterno, perfetto. Solo l’«amore intellettuale di Dio» è fonte di «letizia» - e nella laetitia riecheggia l’ebraico simchà . Che cosa significa, d’altronde, l’emendazione dell’intelletto, di cui Spinoza parla nel suo primo trattato? A chiarirlo è l’ebraico tikkùn , riparazione. Emendare l’intelletto vuol dire ricondurlo al Sommo Bene. Perfino la formula Deus sive natura , secondo cui Dio è natura, non è la negazione della trascendenza, ma proviene - come ha mostrato il noto studioso Moshe Idel - dalla Kabbalà. Lo aveva già detto, d’altronde, in un saggio del 1864, il grande rabbino di Livorno Elia Benamozegh.
Il mondo ebraico non ha mai dimenticato Spinoza. Certo, ha guardato con qualche sospetto quel primo grande intellettuale della modernità. Tracce di ciò si rinvengono nel breve racconto di Isaac B. Singer Lo Spinoza di via del Mercato . Nahum Fischelson, un filosofo in pensione, viveva nella quieta solitudine del suo piccolo appartamento di Varsavia, lontano dalla comunità. Di tanto in tanto gettava un’occhiata sulla via del Mercato, poi tornava beato a leggere l’ Etica di Spinoza. Ma improvvisamente si ammalò. Una vicina, Dobbe la nera, fu presa allora da pietà; superato il timore per l’«eretico», andò ad accudirlo. Sbocciò l’amore e, inatteso, si celebrò il matrimonio. Durante la prima notte di nozze, l’anziano filosofo, finalmente felice, si affacciò alla finestra. «Aspirò profondamente l’aria della notte, poggiò le mani tremanti sul davanzale e mormorò: “Divino Spinoza perdonami. Sono diventato uno sciocco”».
Ma l’immagine dell’eretico, riflessa dall’esterno, non ha mai fatto presa nel mondo ebraico, screditata e confutata da un approfondito dibattito sul Trattato teologico-politico . Di solito quest’opera è letta come un attacco all’ebraismo. Vengono omessi, a questo scopo, due lunghi capitoli dedicati alla «Repubblica degli ebrei».
Spinoza può allora essere presentato come il pioniere del pensiero secolare, come appare nella versione addomesticata che ne dà Steven Nadler. Come mai Spinoza si sofferma sulla costituzione del popolo ebraico? Non sono stati i greci a introdurre la democrazia. Spinoza punta l’indice contro Platone e Aristotele. Non solo hanno affiancato la democrazia all’aristocrazia e alla monarchia, non solo hanno visto nel potere dei più una forma deteriore di governo, ma hanno persino tollerato al margine la schiavitù. Dove c’è schiavitù, però, non ci può essere democrazia. Per Spinoza è stato il popolo ebraico a introdurre per la prima volta la democrazia nella storia del mondo. In una pagina magistrale situa quell’istante all’uscita dall’Egitto. Liberati dall’oppressione, gli ebrei seguirono il richiamo del Dio sovversivo che fece uscire il popolo «con braccio teso».
Furono finalmente cittadini, non più sudditi. Una volta riconquistato il proprio diritto, avrebbero potuto conservarlo ciascuno per sé, o trasferirlo ad altri. Invece presero una decisione che li distinse da tutti gli altri popoli. Con le parole di Spinoza: «Decisero di non trasferire il proprio diritto a nessun mortale, ma soltanto a Dio e, senza esitare, promisero tutti ugualmente a una voce», uno clamore .
Nel patto teologico-politico che stringono non ci può essere dominio di un essere umano sull’altro. Se ci fosse, verrebbe meno l’eguaglianza di tutti. La forma politica di Israele è la teocrazia. Anzi, theocratía è la traduzione greca dell’ebraico Israel , «che Dio regni!», il «Regno di Dio». Il potere di Dio garantisce che non ci sia comando, dominio di un essere umano sull’altro.
Martin Buber e Jacob Taubes parleranno perciò di «teocrazia anarchica» di Israele. Nella visione radicale di Spinoza la teocrazia è però sospesa non appena il popolo ebraico riconosca un altro potere. L’ebreo divenuto cittadino della Repubblica d’Olanda non è tenuto più a osservare lo Shabbat, che ha anche un eminente valore politico. Della teocrazia ebraica resta allora il «braccio teso» del popolo, gesto di libertà, simbolo di uguaglianza, promessa di democrazia, esempio per tutti gli altri popoli, impegno di Israele nel futuro.
Che ne sarà allora della «Nazione ebraica» in esilio? Per Spinoza l’«elezione» degli ebrei, legata alla storia, è politica, motivata dalla loro forma di governo. E scrive: «Potrei assolutamente credere che, se si presentasse la possibilità, gli ebrei ricostruiranno un giorno il loro Stato e Dio li eleggerà di nuovo».
Spinoza è stato il primo sionista? L’aveva già riconosciuto con chiarezza Moses Hess nel suo scritto del 1862 Roma e Gerusalemme . D’altronde Spinoza è stato anche il primo vero linguista dell’ebraico. Il suo Compendio di grammatica ebraica è lo studio pionieristico dell’ebraico vivo, la dimora che, per Spinoza, attendeva la nazione ebraica in esilio.
Ahinu attà, «sei nostro fratello!». Il 21 febbraio 1927 Yosef Klausner pronunciò un discorso ufficiale all’Università ebraica di Gerusalemme in cui toglieva il bando e rivendicava Spinoza alla cultura ebraica. Quando mai aveva contato quel cherem ? - commentò caustico Gershom Scholem. Nel 1953 Ben Gurion proclamò che era venuta l’ora di riparare al torto e tradurre Spinoza in ebraico. Emmanuel Levinas criticò dapprima Ben Gurion, ma poi a sua volta scrisse Avete riletto Baruch? L’edizione delle opere in ebraico ha prodotto una rinascita di studi. Fondato da Yirmiyahu Yovel nel 1984 il Jerusalem Spinoza Institute è solo uno dei centri universitari dove si discute, non senza toni accesi, l’eredità del grande filosofo. Poco note sono ancora in Italia le ricerche dell’ultimo decennio su Spinoza e, più in generale, sul pensiero politico ebraico.