Come stranieri gli ebrei sotto Hitler
di Marco Roncalli (Avvenire, 25 marzo 2014
Un teologo ed esegeta protestante, noto professore di Nuovo Testamento, ideatore e curatore di un
importante dizionario (il
Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament
arrivato in edizione
tedesca a dieci volumi).
E un pensatore ebreo di origine viennese, fiero della propria identità, forse
il più famoso dopo la morte di Hermann Cohen anche grazie alle sue opere sul chassidismo. E cioè:
Gerhard Kittel e Martin Buber.
Sono loro i protagonisti della disputa svoltasi fra il luglio e il dicembre del 1933, a proposito degli ebrei in Germania e del loro futuro: un confronto ora ricostruito nella sua completezza da Gianfranco Bonola nel volume La questione ebraica. I testi integrali di una polemica pubblica (Edizioni Dehoniane Bologna, pagine 170, euro 13,50).
Tutto inizia quando Kittel manda a Buber il suo
Die Judenfrage
uscito nel luglio ’33 chiedendogli
un commento pubblico. Come ha sintetizzato Emil L. Fackenheim nel suo
Un epitaffio per
l’ebraismo tedesco
(Giuntina, 2007) «Kittel aveva scritto che se gli ebrei, ridefiniti dalla rivoluzione
nazista degli “ospiti”, si fossero comportati come persone “perbene”, sarebbe giunto il tempo in cui
sarebbero stati trattati come esseri “relativamente inferiori” e non più come “assolutamente
inferiori”. Per farla breve: Kittel era un nazista. Buber replicò pubblicamente, ma con toni
gelidi...». Andò proprio così? Ognuno trova la sua risposta leggendo oltre alla prima edizione del
libretto kitteliano, il primo commento buberiano, la seconda edizione di
Die Judenfrage
rielaborata e accresciuta di due appendici (“Risposta a Martin Buber” e “Chiesa ed ebreo-cristiani”)
uscita nel ’33 e ripubblicata senza variazioni nel ’34, come pure la seconda replica di Buber oltre
alle reazioni, documentate, di Rudolf Bultmann, Ernst Lohmeyer, Hans Philipp: testi tutti raccolti
nel volume curato da Bonola.
Al centro della querelle vi sono le condizioni di vita del ger, lo straniero che in epoca biblica viveva in mezzo al popolo d’Israele, ritenute paradigmatiche per stabilire l’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei che in quel periodo avevano assunto il ruolo di “stranieri” nella società tedesca: una società cristiana, dunque, per Kittel, sottoposta all’autorità della parola biblica.
Una diatriba dotta, che scandagliava il Pentateuco per determinare i diritti del ger in seno al popolo ebraico ospitante, e che dopo essere stata capovolta, diventava questione di stretta attualità, cruciale dopo l’ascesa di Hitler. Nettamente diversa la prospettiva buberiana non ignara dei supporti presuntamente biblici al ruolo destinato agli ebrei dal Terzo Reich, al quale l’interlocutore iscritto dal 1° maggio al Partito nazionalsocialista (e lo rimarrà sino alla fine della guerra) e al blocco religioso fiancheggiatore (i “Cristiani Tedeschi”, dai quali invece dissentirà mesi dopo) è tutt’altro che estraneo.
Tuttavia, scrive Bonola, il giudizio degli studiosi su Kittel non è unanime, accogliendo alcuni autori, almeno in parte, le sue autogiustificazioni del ’46: secondo le quali il suo era un tentativo, nel 1933, di aprire una strada alla giustizia e all’umanità a partire dalla tradizione paleocristiana e veteroecclesiastica di fronte alla montante propaganda antisemita. Insomma, si sarebbe trattato del tentativo di influenzare l’impianto della politica nazionalsocialista verso gli ebrei per mitigarne i tratti violenti.
A parte il fallimento di questa eventuale strategia, l’esame di
Die
Judenfrage,
sorvolando sulla proposta circa un regime giuridico speciale, il “diritto del forestiero”,
colloca Kittel sul fronte ideologico del più bieco antisemitismo.
La convergenza fra le opinioni del
teologo e i più diffusi stereotipi antiebraici usati da Hitler al varo delle prime misure discriminatorie
è totale.
Balza poi agli occhi la sproporzione, nello scritto, tra l’intento inizialmente dichiarato di muoversi contro l’ebraismo «dal terreno di un cristianesimo consapevole» e la successiva trattazione del problema che solo nelle ultime pagine tocca la dimensione religiosa, dopo aver dedicato il pamphlet ad attaccare «l’ebraismo dell’assimilazione, depravato e divenuto infedele alla sua propria missione, scollegato ormai dalla storia dell’autentico ebraismo».
Più interessante accennare al cuore delle risposte buberiane, tese non solo a smontare le distorsioni insultanti con cui Kittel affronta l’ebraismo, o a impedire di utilizzare in senso antiebraico la frattura che l’ipotesi sionista aveva introdotto nelle comunità ebraiche, ma, restando sul versante religioso, ad accusare Kittel di volere considerare operato divino misure discriminatorie tutte umane. Con ironia Buber si chiede perché l’interlocutore si leghi a pochi passi concernenti unicamente il piano giuridico, prescindendo dai moltissimi altri in cui il cristianesimo richiama la sua legge: quella dell’amore.