L’ambiguità del desiderio
di Giannino Piana (“Rocca”, n. 22, 15 novembre 2013)
Il termine «desiderio» ha una polivalenza di significati, dovuti non solo alla molteplicità degli ambiti disciplinari nei quali è implicato, che vanno dalle scienze biopsicologiche alla speculazione filosofica fino all’antropologia teologica, ma anche (e soprattutto) alla diversa definizione che di esso si è data (e tuttora si dà) nel contesto della cultura occidentale.
L’area alla quale l’idea di «desiderio» risulta, in ogni caso, più affine è quella psicologica. Contrariamente al «bisogno», che affonda le sue radici nel mondo degli istinti biofisici, o all’«aspirazione», che si riferisce ad istanze che fanno capo alla dimensione razionale e spirituale dell’esperienza umana, il «desiderio» si situa in una posizione intermedia, ed è anche per questa ragione meno facilmente circoscrivibile in quanto soggetto alla pressione degli altri due poli.
L’etica si è da sempre misurata con la categoria del «desiderio», assumendo tuttavia posizioni non univoche, talora persino antitetiche. Vi è chi ha fatto di esso il fondamento stesso dell’agire morale, lo stimolo all’azione ma anche l’obiettivo verso cui l’azione tende; e chi, invece, mettendone soprattutto in evidenza la strutturale ambiguità, lo ha considerato (e lo considera) un pericolo per il dispiegarsi della vita morale, un attentato alla sua libera espressione. A determinare queste oscillazioni è, da un lato, il significato che al desiderio si assegna e, dall’altro, la concezione che si ha dell’eticità e del suo rapporto con il mondo interiore dell’uomo in cui interagiscono istanze diverse che vanno tra loro integrate.
dall’esaltazione alla negazione
Le origini della riflessione etica sul desiderio risalgono ai primordi del pensiero occidentale, in particolare alla filosofia greca. Il primo ad assumerlo come criterio fondamentale di valutazione della condotta umana è stato Epicuro. La considerazione dell’uomo come soggetto guidato nel proprio agire da una serie di impulsi, che affondano le loro radici nel mondo biopsichico, fa del desiderio non solo il principio da cui l’azione scaturisce ma anche il fine che essa è chiamata a perseguire. L’uomo è dunque integralmente soggetto nella propria condotta alla logica del desiderio, che è all’inizio e al termine della vita morale, in quanto presupposto da cui prende avvio e insieme obiettivo a cui tende.
Epicuro non esita tuttavia a riconoscere l’esistenza nel mondo del desiderio di una gamma variegata di oggetti, che hanno una diversa valenza e che esercitano un grado diverso di attrazione. Egli distingue infatti i desideri naturali e necessari da quelli naturali non necessari e, infine, da quelli vani - tra i quali annovera la ricchezza, il potere e il successo - che vanno rifiutati perché alienanti.
Vi è dunque in Epicuro la consapevolezza che si dà una considerevole differenza tra desiderio e desiderio, che non ogni desiderio è buono e va soddisfatto, ma che è necessario un serio discernimento; in altre parole, che l’etica non si risolve in un assenso indiscriminato al desiderio qualunque esso sia, ma che essa è chiamata a giudicare gli oggetti del desiderio, differenziandoli secondo il criterio del bene e del male avendo come referente la ricerca della promozione umana.
Ad opporsi radicalmente a questa impostazione è stato soprattutto, agli inizi della modernità, Immanuel Kant, sostenitore di una morale rigidamente deontologica, per la quale tutto ciò che ha a che fare con le dinamiche sotterranee dell’esperienza umana - istinti, passioni, desideri - si oppone all’etica, che affonda invece le sue radici nella ragione dell’uomo.
La rivoluzione da lui inaugurata con l’assegnazione del primato alla soggettività è condizionata dalla persistenza di una visione dualista della realtà, che, separando la coscienza dal mondo della vita, finisce per fare appello a una forma di razionalità del tutto disancorata dalle radici biopsichiche dell’umano. L’imperativo categorico, il devi perché devi, è la naturale conseguenza di questa visione: l’etica dell’obbligazione (o del dovere) considera (e non può che considerare) il desiderio come una energia negativa che si oppone al corretto svolgimento della vita morale e che va pertanto controllata o repressa.
Gli sviluppi successivi della riflessione morale hanno sempre oscillato tra queste due opposte concezioni: tra un’etica che si appoggia al desiderio, o assumendolo come principio assoluto - si pensi in particolare a Nietzsche - o facendo con esso, sia pure criticamente, i conti, mediante l’esercizio del discernimento circa l’oggetto perseguito, e un’etica, che tende invece a rifiutare a priori qualsiasi riferimento al desiderio considerandolo un fattore pericoloso o deviante.
Questa dialettica non si è peraltro manifestata soltanto in ambito teorico; ha coinvolto anche le opzioni di movimenti e di gruppi presenti nella società: è sufficiente richiamare qui l’attenzione sulle posizioni assunte in passato dal mondo cattolico e da quello comunista - la figura del militante era caratterizzata, in ambedue i casi, dall’adozione di un’etica del dovere, dell’impegno e del sacrificio - e, in tempi più recenti, sulle istanze della cultura radicale, nel cui ambito alla rivendicazione del diritto soggettivo si associa il ricorso al principio del piacere (vale ciò che vale per me, vale per me ciò che mi piace), con l’assunzione del desiderio come paradigma indiscusso di valutazione del comportamento.
desiderio e obbligazione
Un contributo determinante al superamento di tale conflitto è fornito dalla fenomenologia. Partendo da una accurata riflessione sulla coscienza assiologica (la coscienza in quanto luogo di esperienza dei valori morali), l’analisi fenomenologica evidenzia con chiarezza come il valore morale emerga all’interno di essa quale espressione di un processo che coinvolge direttamente il soggetto e insieme lo supera. Il valore è anzitutto percepito come bene, in quanto soddisfa il bisogno di autorealizzazione della persona, e risulta dunque in questo senso desiderabile; ma è percepito anche come dovere , come qualcosa che dall’esterno si impone al soggetto, il quale lo avverte allora come obbligante.
In questa ottica l’eticità acquisisce i connotati di realtà insieme immanente e trascendente, o presenta i tratti di una istanza nella quale confluiscono soggettività ed oggettività: il valore morale è ciò che indica al soggetto la via da percorrere per rendere l’agire conforme alle esigenze inscritte nella propria natura, ma è, nel contempo, anche un dato al quale occorre adeguarsi, al punto che il suo rifiuto non suscita semplicemente - come avviene per altri valori (quelli estetici o noetici ad esempio) - la sensazione di avere mancato un’opportunità per il proprio arricchimento interiore, ma provoca l’insorgenza di sensi di colpa.
Lungi dal dover essere demonizzato, il desiderio è perciò un fattore fondamentale dello strutturarsi del fatto morale: da esso viene la spinta originaria alla ricerca del bene. L’eticità è anzitutto radicata nel mondo del soggetto, in cui si intrecciano (e interagiscono tra loro) diverse istanze che fanno capo alla complessa stratificazione dell’umano - dall’istinto all’inconscio fino alla ragione e alla volontà - e che vanno convogliate in unità nel rispetto dell’ordine gerarchico che sussiste tra loro.
Il desiderio, che costituisce l’ambito in cui confluisce l’insieme delle istanze ricordate, conserva aspetti di ambiguità, che esigono di essere registrati con cura. Gli interessi che ad esso fanno capo sono molteplici; di qui la necessità di un serio discernimento, ma soprattutto la capacità di integrare le energie rispondenti ai diversi livelli della struttura della persona ordinandole e facendole convergere verso la promozione umana globale.
Compito dell’etica è dunque quello di valutare i contenuti ai quali il desiderio fa appello, rilevando di volta in volta ciò che può essere perseguito e ciò che va respinto; e di fornire al desiderio un preciso orientamento nella direzione del vero bene umano.
nel cuore delle relazioni
Il desiderio acquisisce pertanto un valore indiscusso nella dinamica che conduce l’uomo verso la realizzazione di sé. La distinzione che oggi si fa, nell’ambito della riflessione antropologica, tra «bisogno» e «desiderio» conferma questa affermazione.
Se il «bisogno» è infatti qualcosa di ben definito e circoscritto, che trova la sua codificazione nel mondo dei diritti e risponde a un’istanza di giustizia, il «desiderio» non è invece mai del tutto circoscrivibile, poiché non ha come fine un semplice oggetto, ma lo stesso soggetto umano, l’altro, con il quale entrare in relazione. Esso rinvia dunque all’area della gratuità e sollecita l’adesione alla logica dell’amore. Per questa ragione il desiderio diviene «cifra» dell’inquietudine del cuore umano; un’inquietudine che non può mai essere del tutto colmata e che fa dell’esperienza dell’uomo nel mondo una inesausta ricerca di assoluto.
L’etica trova qui la radice da cui viene e il fine cui è destinata. La misura della giustizia, che ha nel rispetto dei diritti il paradigma, per quanto essenziale, è tuttavia insufficiente a giustificare da sola il senso della vita buona. Si richiede qualcosa di più grande, uno slancio vitale che non si limiti a un reciproco scambio di prestazioni, ma crei le condizioni per un incontro autenticamente umano. Un incontro che esige l’oltrepassamento del bisogno e del diritto per aprirsi a una forma di comunione che ha nell’economia del dono il paradigma cui ispirarsi.