LE LETTERE SEGRETE DI MARTIN HEIDEGGER AD HANNAH ARENDT
Colpo di fulmine e il filosofo le aprì il suo cuore
di FRANCO VOLPI *
Quella tra Heidegger e Hannah Arendt fu una storia d’ amore incredibile. Una storia che accende come poche altre la nostra immaginazione: vuoi per il nome dei protagonisti, primi attori sulla scena del pensiero ma francamente inattesi nel ruolo di amanti; vuoi per la straziante intensità e le travagliate circostanze in cui fu vissuta, che davvero meriterebbero di essere raccontate in un romanzo; vuoi perché in essa si verificò una coincidentia oppositorum, un combaciare di due modi di essere e di pensare radicalmente contrapposti, che avrebbe potuto cambiare le sorti della filosofia del Novecento.
L’ amore tra i due era rimasto a lungo segreto, anche se voci e dicerie circolavano da tempo. A renderlo di dominio pubblico fu Mary McCarthy, biografa e intima della Arendt, che "autenticò" la storia come confidenza fatale dall’ amica. In Italia le vicissitudini di questo amore impossibile furono raccontate per la prima volta da Repubblica in un articolo del 17 novembre 1994.
Poi arrivò il libretto di Elzbieta Ettinger, la quale, aggirati i divieti e presa visione delle loro lettere, ne fece un resoconto indiretto, misto a giudizi oscillanti tra il perbenismo e la disapprovazione moralistica. Il libro ha comunque avuto un effetto positivo: quello di sbloccare la pubblicazione dell’ epistolario, che si diceva fosse stato distrutto di comune accordo dai due amanti, ma che in realtà la Arendt aveva conservato con cura e che viene ora pubblicato da Ursula Ludz (Briefe 1925 bis 1975 und andere Zeugnisse, Klostermann, pagg. 435).
Si tratta di 119 lettere di Heidegger e 33 della Arendt, con l’ aggiunta di altri documenti tra cui alcune poesie che i due si scambiarono. La voce dominante è quella di Heidegger, per il semplice fatto che le lettere di lei sono andate in gran parte perdute o distrutte. Fortunatamente altri documenti nel frattempo editi, come il carteggio della Arendt con Heinrich Blucher, suo secondo marito, forniscono integrazioni preziose (Briefe 1936-1968, a cura di Lotte Kohler, Piper, pagg. 597).
La storia ha un inizio folgorante. Siamo nel novembre 1924, nell’ aula 11 dell’ Università di Marburgo, dove Heidegger ha appena cominciato uno dei suoi corsi più affascinanti. Malgrado la concentrazione sulle ardue linee dell’ Etica Nicomachea e del Sofista, il giovane professore rimane colpito, come confessa in una lettera, da "quello sguardo che mi rivolgevi mentre parlavo dalla cattedra".
Benché più anziano di diciassette anni, sposato e padre di due figli, l’ attrazione fatale lo spinge a prendere l’ iniziativa. "Cara signorina Hannah", le scrive, "questa sera devo venire da Lei e parlare al suo cuore". Che cosa accadesse quella sera, lo si intuisce dall’ apostrofe confidenziale della seconda lettera inviata di lì a pochi giorni: "Cara Hannah...". "Se vuoi puoi avermi", risponderà lei candidamente, e la settimana seguente il terzo biglietto di Heidegger comincia: "Una forza demoniaca mi ha colpito... Non mi era mai accaduta una cosa del genere. Nello scroscio di pioggia sulla via del ritorno eri ancora più bella e maestosa. E avrei voluto trascorrere con te notti intere. Ti prego, Hannah, regalami ancora qualche parola. Non posso lasciarti andare via così". E citando sant’ Agostino: "Amo significa: volo ut sis".
Su questo travolgente esordio della "passione della sua vita" Heidegger ritorna più volte. Ma vi ritorna con quella "nostalgia del presente", quella malinconia propria di chi gode la pienezza del giorno pensando che già sarà notte. Si sente "sconvolto da quella prima intimità", gli "mancano le parole", e ringrazia Hannah semplicemente di esistere. L’ incontro stellare gli trasmette una vitalità sconosciuta, un’ energia inaspettata, gli regala l’ esperienza di una "grandiosa" e inesausta produttività. Nei suoi ricordi autobiografici il vecchio Heidegger lascerà cadere una frase di cui capiamo ora il senso profondo: "Gli anni di Marburgo furono per me i più eccitanti, i più intensi, i più ricchi di eventi".
Ma la relazione è strozzata dalle mille cautele che, da uomo sposato, egli è costretto a interporre fra sé e il libero gioire di Hannah. E’ avvilita da sotterfugi ("se la luce della mia stanza è accesa, allora puoi venire"), da biglietti clandestini per combinare furtivi appuntamenti, ritrovi nel bosco "sulla nostra panchina", attimi immensi ma insostenibilmente leggeri e fugaci. Ciò malgrado, entrambi vengono travolti da un turbine, da una magica sintonia di pensieri ed emozioni.
Ma il loro vivere "con il cuore in gola" reclama il coraggio di una decisione autentica, che Heidegger paventa: "Non sono abbastanza forte per il tuo amore". Il vischio delle convenzioni tarpa le ali alla sua debole volontà. Dalle lettere si capisce che davvero egli avrebbe voluto regalare a Hannah il "dono della visibilità pubblica", da lei desiderato con discrezione e pazienza.
Ma l’ imbarazzante presenza della moglie Elfride - che più di una sera fu vista dai vicini piangere perché Martin non era ancora tornato, ma reagì come una leonessa ferita che difende con gli artigli la sua tana - fece sì che la sua scelta diventasse una non scelta: Heidegger sublima la passione che lo tormenta nell’ opera che gli cresce tra le mani, il capolavoro filosofico del secolo: Essere e tempo.
Hannah, per mettere fine alla relazione clandestina che mortifica la sua identità di giovane donna costretta nel ruolo di amante, fugge da Marburgo e si trasferisce a Heidelberg, dove si laurea con Jaspers sul concetto di amore in Agostino.
Lui la insegue e la cerca disperato: "Non ce la facevo più, giravo sperduto per le strade di Heidelberg, sperando a ogni istante di incontrarti", le scrive non appena riesce ad avere da un altro suo allievo ebreo, Hans Jonas, l’ indirizzo. Come una falena che sbatte le ali intorno alla candela, Hannah gli risponde: "Avrei perso il mio diritto alla vita se perdessi il mio amore per te, ma perderei questo amore e la sua realtà se mi sottraessi al compito cui mi costringe". Cioè a un lacerante congedo: "Non dimenticarmi, e non dimenticare quanto profondamente io so che il nostro amore è diventato la benedizione della mia vita. Questa consapevolezza non è scossa nemmeno oggi che ho trovato asilo alla mia inquietudine presso un uomo da cui tu forse non l’ avresti mai aspettato". Quest’ uomo era Gunther Anders, altro allievo ebreo di Heidegger, che Hannah sposò come "il primo venuto", non per amore ma per sottrarsi alla struggente relazione.
Poi partì in esilio, a Parigi, e prima ancora di arrivare in America aveva già divorziato. Dicono le malelingue che, per dimenticare, Heidegger volgesse la sua attenzione ad altre: Elisabeth Blochmann, Helene Weiss, Kate Victorius. No, le cose non stanno così: l’ indimenticabile non può essere dimenticato, e lo dimostra ciò che accadde vent’ anni dopo, quando la Arendt tornò a Friburgo per rivederlo. Dopo averlo incontrato, gli scrive: "Questa serata e questa mattina sono la conferma di un’ intera vita. Una conferma in fondo inattesa. Quando l’ inserviente mi ha annunciato il tuo nome, era come se il tempo si fosse improvvisamente fermato". E, in partenza per Berlino, lo invita a seguirla: "Se potessi raggiungermi sabato e domenica prossimi qui, nel nord, ed essere mio ospite...".
Ma le scenate di gelosia di Elfride inchiodano Martin a Friburgo, che le scrive: "Avrei voglia di passare la mia mano, pettine a cinque dita, tra i tuoi capelli crespi". La sommergerà d’ ora in poi di lettere per tentare di catturare almeno l’ ombra di quella felicità cui ha ormai rinunciato: Hannah è, e rimane, la sua vera interlocutrice. Ciò vale altrettanto per lei.
Quando il 26 luglio 1967 tornerà a Friburgo a tenere una conferenza su Benjamin, Heidegger - che il giorno precedente aveva ricevuto nella capanna di Todtnauberg la visita di Paul Celan - scende in città e siede in prima fila nel gremito Auditorium Maximum dell’ università. L’ ormai celebre intellettuale ebrea non esita ad aprire il suo discorso rivolgendosi anzitutto al professore "ex-nazista" con un "Caro Martin Heidegger", e poi "Signore e signori...", che solleva un mormorio in sala.
E’ l’ attestazione pubblica di un sentimento espresso anni prima nella lettera con cui gli inviava una copia di Vita activa: "E’ un’ opera che non sarebbe mai nata senza tutto quello che da te ho appreso in gioventù", "un libro scaturito direttamente dall’ esperienza dei primi giorni a Marburgo e ti sono debitrice, sotto ogni aspetto, più o meno di tutto". Ma il carteggio non documenta solo questa incredibile storia d’ amore. E’ un testo che brulica di spunti filosofici, di letture condivise, interessi spirituali, riflessioni e meditazioni a due voci, su temi e autori amati in comune.
Per esempio sant’ Agostino, che più che una lettura è un evento, la Montagna incantata, i versi di Mallarmé o i dipinti di Klee - tutti elementi che aggiungono sfaccettature nuove e molteplici all’ immagine dei due personaggi. E se ne traggono anche scorci illuminanti sulla vita filosofica e culturale del tempo: per esempio su Husserl, che già nel marzo del 1925 è per Heidegger "una delusione, perché è molto stanco e invecchia in modo visibilmente rapido"; o su Lowith, che "non ha imparato evidentemente nulla; nel 1928 Essere e tempo era per lui una "forma mascherata di teologia"; nel 1946 "puro ateismo" - e che cosa mai sarà oggi?".
Viene toccato anche un tema sinistro, l’ antisemitismo. Nell’ ultima lettera prima dell’ emigrazione - siamo nel 1932/33 - Hannah riporta incredula ma preoccupata voci circa presunti comportamenti antisemiti di Heidegger. Lui reagisce indignato elencando una serie di interventi compiuti in favore dei propri allievi ebrei.
La lettura appassionante fa spazio anche a fantasie impertinenti. Quali imprevedibili scenari si sarebbero aperti, per la filosofia del Novecento, se Heidegger avesse avuto il coraggio di abbandonare Elfride per seguire Hannah in America? Che ne sarebbe stato del filosofo della Selva Nera a New York? Che cosa avrebbe insegnato alla New School o agli studenti di Berkeley, coccolato magari più del suo allievo Marcuse?
Il carteggio con Hannah Arendt ci restituisce quest’ uomo, grande nel pensiero quanto piccolo nella biografia, in tutta la sua umanità, e ce lo mostra nella nobiltà di una passione che infiamma la secchezza delle tre parole in cui potremmo altrimenti riassumere la sua vita: "Nacque, lavorò, morì".