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POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.

LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan - a cura di Federico La Sala

LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
lunedì 8 ottobre 2018
[...] Fin quando resteremo legati a un atteggiamento narcisistico e considereremo le estensioni dei nostri corpi qualcosa di veramente esterno e indipendente da noi, non riusciremo ad affrontare le sfide della tecnologia se non con le piroette e gli afflosciamenti di una buccia di banana.
Archimede disse una volta: "Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo". Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo:
"M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e (...)

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> LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN. Il "rimorso di incoscienza" --- Sentirsi maggioranza, non l’anonimato nutre l’aggressività nei social network. Sotto sotto siamo tutti troll (di Serena Danna).

lunedì 20 aprile 2020

Comportamenti. Un nuovo approccio di analisi alle molestie sul web: la sua atmosfera «mascolina» accomuna uomini e donne

Sotto sotto siamo tutti troll

Sentirsi maggioranza, non l’anonimato nutre l’aggressività nei social network

di Serena Danna (Corriere della Sera, La Lettura, 21 settembre 2014).

L’anonimato è da sempre l’imputato numero uno quando si tratta di ricercare le cause dell’aggressività online. Che si tratti di un professionista del disturbo - il cosiddetto troll - o, semplicemente, di un utente che inquina la conversazione con linguaggi e pensieri volgari, la soluzione per molti è sempre la stessa: abolire l’anonimato online.

Proprio questa convinzione ha spinto siti e social network nella direzione dell’identificazione forzata degli iscritti. I risultati, però, non sono confortanti: avere un nome e cognome su Facebook oppure una fotografia sul profilo di Twitter al posto dell’ovetto che appare in assenza di immagini non ha impedito al cosiddetto hate speech (termine che nella giurisprudenza americana indica parole e discorsi pronunciati con il solo obiettivo di esprimere odio e intolleranza nei confronti degli altri) di dilagare online a ogni occasione. La battaglia contro l’anonimato ha trovato nel filosofo Platone un inconsapevole testimone. -Nel secondo libro della Repubblica, Glaucone racconta la storia del pastore Gige, il quale ruba a un soldato morto un anello che gli conferisce il dono dell’invisibilità. Grazie al potere acquisito con l’oggetto, l’uomo compie una serie di malefatte. L’ «effetto Gige» - il modo in cui Internet può incoraggiare una disinibizione impossibile nel mondo offline - sarebbe alla base del crollo di empatia che trasforma anche cittadini rispettabili in utenti odiosi.

Agli inizi degli anni Novanta gli studiosi di Psicologia sociale Martin Lea e Russell Spears elaborarono un modello conosciuto come Side (Social identity of deindividuation effects) che ancora viene utilizzato per spiegare, in ambito accademico, i comportamenti negativi nelle comunicazioni mediate da computer. Stando a questa teoria, nei contesti anonimi online le persone smetterebbero di agire come individui per comportarsi come membri di una comunità. La de-individualizzazione condurrebbe dunque alla perdita di consapevolezza di sé nel contesto sociale e a una conseguente disinibizione che spingerebbe le persone a mettere in campo comportamenti violenti nei confronti degli altri.

Eppure la realtà delle interazioni online sembra smentire la percezione comune: l’aggressività sul web, come la tendenza a sminuire e offendere chi la pensa in maniera diversa da noi, sembrano appartenere anche a chi ha un’identità ben riconosciuta dentro e fuori la Rete. Capita sempre più spesso di vedere politici, professionisti della comunicazione e personaggi pubblici esibire modi e linguaggi da character assassination, immagine utilizzata per definire chi intenzionalmente punta a distruggere la reputazione di una persona. Invece che a confronti sul tema, assistiamo sempre più spesso a offese personali. Come ha dichiarato la regista e scrittrice Lena Dunham, molto attiva sul web, «Internet sarebbe un posto migliore se invece che attaccare personalmente gli altri, si dibattesse sul piano dei contenuti».

Ma se non si può dare la colpa agli anonimi troll, allora da che cosa dipende l ’aggressività da social network? Jesse Fox, che è direttrice del Virtual Environment, Communication Technology and Online Research Lab della Ohio State University, analizza da anni i comportamenti molesti in Rete. «Anche se hanno un’identità definita e riconosciuta, le persone percepiscono una sensazione di oscurità sul web - spiega a “la Lettura” - come se i loro comportamenti fossero osservati e giudicati soltanto da una ristretta minoranza». Proprio grazie alla struttura dei social network, organizzata attraverso reti sociali basate sulle affinità, le persone si sentono circondate da un ambiente favorevole e complice. Secondo la ricercatrice, proprio questa falsa percezione di «gruppo di simili» spingerebbe a non sentire le conseguenze delle proprie azioni.

«La teoria della spirale del silenzio - aggiunge - suggerisce che, quando gli individui pensano di fare parte di una maggioranza, si sentono più a loro agio nell’esprimere, anche in maniera dura, le loro opinioni nei confronti della minoranza». La nostra rete di contatti diventa così l’opinione dominante capace di schermarci da tutte le altre, quella che il saggista Eli Pariser chiama «la bolla del filtro». Allo stesso tempo, il pensiero di navigare in un oceano di commenti a sproposito, battute più o meno brillanti, offese e molestie verbali, creerebbe anche negli esperti di comunicazione la falsa idea che «scrivere un paio di tweet spiacevoli non sia poi così grave».

Jesse Fox sostiene che sui social network, come nei giochi online, prevalgano «norme sociali guidate dalla mascolinità», regole non scritte che riflettono il ruolo tradizionalmente dominante dell’uomo nella società e che associano il concetto di mascolinità «all’essere competitivi, forti e censori delle proprie emozioni».
-  L’identità sociale mascolina - che riguarda indifferentemente uomini e donne - verrebbe così rafforzata dal meccanismo dei like e del consenso tipica dei social media: «È un ambiente competitivo - continua Fox - dove le persone combattono per avere le attenzioni degli altri. Erroneamente pensano che alzare la voce, avere opinioni molto nette e distruggere gli avversari sia un modo per avere più consenso». Nessuno, puntualizza la ricercatrice, apre i commenti a un proprio post o scrive una frase su Twitter per ricevere complimenti: «Sa che quelle frasi genereranno un dibattito e questa aspettativa lo spinge naturalmente sulla difensiva, quindi ad attivare la riserva di aggressività».

Con i suoi studi Fox si è spinta a investigare non solo le cause ma anche possibili soluzioni. «La prima cosa da fare è prendersi cura della propria community: il ruolo del moderatore è fondamentale». Una comunità ben gestita che nasce e si sviluppa intorno a un sito o a un account può rafforzare - giorno dopo giorno - le regole, promuovendo i comportamenti virtuosi. «Se sul forum, nel gruppo di follower di Twitter o di “amici” su Facebook passa l’idea che i disturbatori vadano ignorati, si innesca un processo di indifferenza che finisce con lo scremare naturalmente il dibattito».
-  Per la studiosa, un buon esempio è rappresentato dal sito Reddit, che sebbene acquistato da Condé Nast nel 2006, conserva la struttura libertaria degli inizi: «Hanno ancora gruppi controversi ma gli episodi di intolleranza sono sempre di meno: la comunità è abbastanza forte da fare squadra con il moderatore. È difficile avere una piattaforma aperta per dare a tutti la possibilità di parlare, loro ci riescono perché lavorano bene con i redditor».

Un modo in cui alcuni siti provano a limitare hate speech e molestie online è l’utilizzo di algoritmi che cancellano in automatico account dove compaiono parole considerate offensive: «Non sono d’accordo - chiarisce Fox - con le soluzioni meccaniche: non si può affidare al computer un ruolo così delicato. I pc non sanno distinguere il sarcasmo o cosa sia appropriato o meno». Eppure è proprio sull’analisi e sul riconoscimento delle emozioni online che aziende come Facebook e istituzioni come la Cia stanno investendo soldi e uomini, sperando di arrivare presto a distinguere tra un commento ironico e una minaccia così grave da meritare la chiusura del profilo. Esperimenti di «soluzionismo tecnologico», come li definirebbe lo studioso Evgeny Morozov, che rischiano però di sottovalutare il fondamentale ruolo degli uomini. Perché l’umanità, come il rispetto e la responsabilità sociale, non potranno mai appartenere a una macchina.


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