Come ricostruire: non siamo all’anno zero
di Vittorio Emiliani (Il Tirreno, 10 aprile 2009)
Una regola s’impone nella tragedia del terremoto aquilano: essere rapidi ed efficienti nel migliorare l’assistenza ai terremotati e avviare la ricostruzione quando si hanno le idee ben chiare. Senza promesse infondate.
In Umbria, nel ’97, Prodi parlò di tre anni. Berlusconi, nei giorni scorsi, di due anni. Ora accenna a tempi più lunghi. Gli uomini di governo dicano la verità vera: i tempi di una ricostruzione fatta bene si misurano in non pochi anni, da cinque in su, a seconda delle situazioni. E allora agli attendamenti bisognerà far seguire, prima dell’autunno, non i famigerati container bensì veri villaggi o acquartieramenti di case prefabbricate in legno, le «instant houses», quelle usate con successo fra Umbria e Marche. Con scuole e servizi. In tal modo nessuna identità comunitaria, neppure la più piccola, verrà dispersa.
Non siamo all’anno zero. Per L’Aquila e dintorni si può prendere il meglio dalle esperienze dei molti (purtroppo) terremoti dell’ultimo quarantennio. Da Tuscania (Viterbo), terremoto dimenticato che registrò nel ’71 oltre trenta morti e forti distruzioni nella città dalle belle mura e da Venzone (Udine), medioevale anch’essa, quasi sbriciolata nel ’76, si prenda l’incoraggiamento a ricostruire, ovunque sia possibile, «com’era e dov’era» il tessuto storico, l’intero contesto e non i soli monumenti. Con la partecipazione attiva delle popolazioni al processo di decisione e di ricostruzione.
Da Assisi si prenda l’idea-forza di concentrare una massa formidabile di competenze tecnico-scientifiche (restauratori, strutturisti, ecc.) nella chiesa-simbolo tanto minacciata, la Basilica superiore di San Francesco, per restaurarla al meglio in tempi ragionevolmente rapidi. Per L’Aquila i simboli sono due: Santa Maria di Collemaggio, senza dimenticare le altre chiese della città, e il poderoso Castello. Ma tutto il centro storico, tanto massacrato e tanto stratificato, esige di venire analizzato, inventariato, studiato, progettato al dettaglio nel restauro e nella ricostruzione. Investendo anche in esso con una massa di competenze ben orientata e diretta dagli organismi dei Beni Culturali e da nessun altro. Qui come nei borghi minimi.
In Friuli si scelse di ricostruire prima le fabbriche e poi le case. In Umbria di ricostruire anzitutto le chiese («le nostre fabbriche», commentò un vescovo alludendo al turismo religioso). All’Aquila la scelta è più complessa: riattivare l’Università, soccorrere le piccole e medie imprese, ridare un tetto alla gente, restaurare i monumenti-simbolo. Fondamentale è non calare dall’alto le strategie, interrogare le comunità locali. In Umbria vennero creati consorzi fra proprietari privati i quali hanno poi gestito bene i finanziamenti.
Evitiamo anzitutto l’ingrandimento dell’area del sisma oltre i suoi confini reali: in Irpinia si inclusero ben 213 comuni nei quali «nessuna abitazione risultava seriamente lesionata» (Rapporto della commissione di inchiesta Scalfaro, 1991). Da San Giuliano di Puglia ci si è allargati all’intero Molise... Sono indecenti pratiche politico-clientelari che portano a sprechi enormi e aprono una autostrada alle imprese della criminalità.
Non siamo all’anno zero. I terremoti e le ricostruzioni dell’ultimo quarantennio (come minimo) ci dicono cosa fare e cosa non fare. Seriamente.