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EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).

SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DÀ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto - a cura di Federico La Sala

sabato 4 aprile 2009
[...] Il Terzo paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità in questo passaggio epocale.
Il riferimento biblico non ha finalità religiose, ma è assunto come messaggio per dare senso e forza al concetto di trasformazione sociale responsabile e per motivare un grande ideale che unisca in un solo impegno le arti, le scienze, l’economia, la spiritualità e la politica [...]
PASQUA IN ARRIVO. IL TERZO SARÀ REGNO DELLO SPIRITO SANTO: "TERTIUS IN CHARITATE". (...)

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> SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". --- ARTE ESTETICA POLITICA E CONSUMO. "La miseria del simbolico" (Bernard Stiegler), Un estratto (di

lunedì 27 febbraio 2023

      • CONTINUAZIONE E FINE.


La miseria del simbolico tra arte, estetica, politica e consumo

Il lavoro artistico è originariamente impegnato nella questione della sensibilità dell’altro e la questione politica è essenzialmente la questione della relazione all’altro in vista di un sentire insieme

di: Bernard Stiegler

      • [...]

L’ominazione, come prosecuzione della vita con altri mezzi che la vita stessa, è l’apparizione di una forma di vita in comune dove la distribuzione dei ruoli non dipende più dalla genetica ma dai destini (dalle esistenze e dalle loro genealogie, vale a dire da ciò che, del passato, agisce in esse) che si costituiscono nella storia di ciò che, come genere, non è più una semplice specie: l’ominazione è l’esteriorizzazione funzionale delle esperienze individuali e singolari, che si trasmettono a coloro che diventano per ciò stesso degli eredi: i discendenti.
-  Mi riferisco, qui, tanto alla singolarità dei gesti dei tagliatori di selce che a quella dei gesti, molto tempo dopo, delle pitture rupestri: è questa singolarità di esistenze (ex-sistere è rimanere fuori di sé) a essere conservata e trasmessa da questi artefatti tecnici che sono tanto le pitture quanto gli utensili appuntiti, che sono dunque gli uni e gli altri, e immediatamente, benché differentemente, dei supporti di memoria, o delle memo-tecniche propriamente dette (ma tornerò su questo tema, che fu anche quello di Nietzsche).

Ora, sembra proprio che, dall’alba dell’ominazione, l’individuazione collettiva, in cui consiste una società, presupponga una partecipazione di tutti alla produzione dell’uno, vale a dire del tutto, come fantasma e finzione necessari, in grado di installare il teatro di una presunta unità che si chiamerà “la società”; sempre attraverso una dimensione sociale che, come la lingua, la religione, la struttura familiare, i modi di produzione, ecc., sono ciò che si è chiamato strutture, o sistemi, o dispositivi, ecc., i quali sempre presuppongono l’esteriorizzazione originaria che sostiene dei destini.
-  Questi espedienti, attraverso cui si costituisce l’uno come fantasma del tutto, queste dimensioni significano che la società, in proprio, non esiste, né dunque la comunità, e che essa non è che un assemblaggio di tali dispositivi o sistemi, sebbene, tuttavia, questo concatenamento, per fare uno, debba esso stesso portare una singolarità che sia idiomatica, detto altrimenti: allo stesso tempo singolare e comune.

Questi assemblaggi sono supportati da ciò che ho chiamato strati epifilogenetici, o ritenzioni terziarie, vale a dire concrezioni di saperi e di poteri, negli oggetti e dispositivi tramandati come cose del mondo umano. In questo, essi comportano una dimensione mnemotecnica anche quando non sono mnemotecniche in senso stretto. Una pala da muratore o un forcone da letame, i quali mi è capitato di maneggiare, non hanno funzione mnemotecnica; e, tuttavia, esse supportano una memoria di gesti e di funzioni che li proiettano automaticamente nello strato mnemotecnico di tutte le cose in quanto cose del mondo.
-  Quanto alle mnemotecniche in senso stretto, esse appaiono dopo il neolitico e diventano immediatamente dispositivi di strutturazione dei poteri. Ma, a partire dalla costituzione della città greca e poi della Chiesa cristiana, questi dispositivi, che ho chiamato ritenzionali e che sono allora nelle mani dei chierici (giuristi e religiosi, politici e spirituali), i quali ne definiscono i criteri di selezione (diritto canonico, selezione dei buoni enunciati, dei buoni gesti, delle buone azioni, dei costumi e delle procedure corrette, ecc.), sono pensati come processo di individuazione che presuppone la partecipazione del molteplice alla produzione dell’uno, benché sotto l’autorità dei chierici.

Ora, nel XIX secolo, le mnemotecnologie fanno per la prima volta apparizione: tecnologie e non più semplicemente tecniche, sono prodotti industriali e macchine che inaugurano l’era dell’audiovisivo (fotografia e fonografia, cinema e radio, televisione), e poi, nel XX secolo, tecnologie del calcolo (eredi della meccanografia di Hollerith), di modo che il mnemo-tecnologico diventi il supporto stesso della vita industriale e sia integralmente sottomesso agli imperativi della divisione mondiale e macchinica del lavoro, della ricchezza e dei ruoli; a fortiori quando, attraverso la digitalizzazione generalizzata, tecnologie dell’informazione e tecnologie della comunicazione si integrano, quadro oggi denominato “capitalismo culturale” o “capitalismo cognitivo”.
-  Senonché, un imperativo, fino ad allora totalmente sconosciuto, è apparso tra i ruoli sociali ridistribuiti dalla rivoluzione industriale: quello della necessità di smaltire, consumandoli, i prodotti industriali provenienti dal macchinismo termodinamico, elettrico ed elettronico, in numero sempre più importante, in una diversità sempre crescente, benché al contempo sempre più standardizzati, modificando la natura stessa della diversità.

Questo ruolo di smaltimento è affidato al marketing, che si impadronisce, dal XIX secolo, delle mnemotecnologie (anche se esso non è veramente definibile come tale che nel XX secolo) per assicurare il funzionamento del sistema, vale a dire la circolazione sempre più accelerata (ed entropica: qui è la questione) delle energie che lo costituiscono.

Ma qui le energie non sono più la circolazione simbolica, in cui consisteva la partecipazione e che instaurava il sim-bolo, in greco sym-bolon, come condivisione sensibile, cognitiva e spirituale (spirituale nel senso di ciò che, come gli spiriti, riviene e differisce, perdura ripetendosi): la circolazione funzionale delle energie, nella società di controllo degli affetti e dei corpi che essi abitano e consumano, a cui giunge l’organizzazione dello smercio dei prodotti come organizzazione dell’adozione delle incessanti novità che risultano dall’innovazione che si chiamerà modernità, è ciò che genera una perdita di partecipazione simbolica, che è anche una sorta di congestione simbolica e affettiva, vale a dire, ci tornerò nel terzo capitolo, Allegoria del formicaio, una perdita strutturale di individuazione, tema di cui avevo avviato il discorso in Amare, amarsi, amarci. Ciò che così viene distrutto è un circuito del desiderio su cui tornerò in La miseria simbolica. La catastrofe del sensibile. In altri termini, è il desiderio stesso a essere distrutto, in quanto esso non può che essere un circuito: il circuito di un dono. Da qui il sentimento di sbandamento generalizzato che domina ovunque, liberando i frutti della pulsione di morte, e lo strano piacere che essi donano, che sono l’odio di sé e degli altri, e il passaggio all’atto omicida, così ben messo in scena nel film di Gus Van Sant, Elephant (2003). Con il marketing, la cui apparizione è contemporanea al fordismo, la questione non è più la sola riproduzione del produttore (della sua forza lavoro, delle energie di cui ha bisogno, delle sue materie prime, ecc.; tutto ciò che già Marx aveva pensato) ma anche la fabbricazione, la riproduzione, la diversificazione e la segmentazione dei bisogni del consumatore.

Le energie esistenziali (le energie dei produttori e dei consumatori), che assicurano il funzionamento del sistema, sono i frutti del desiderio - della libido - dei produttori da un lato, e dei consumatori dall’altro. Il lavoro e il consumo sono libido captata e canalizzata. Il lavoro in generale è sublimazione e principio di realtà; ivi compreso, certamente, il lavoro artistico. Ma il lavoro proletario o più generalmente industriale non ha niente di artistico né di artigianale: è tutto il contrario. E il consumatore, la cui la libido è captata, trova sempre meno piacere a consumare: è confuso, pietrificato dalla coazione a ripetere, rispetto a cui bulimia e anoressia sono come casi particolari (sono anche, su di un altro piano, in epoca hitleriana, età paradossale e arcaizzante dell’industria, le anguille vomitate del Tamburo di latta di Günter Grass): non è un caso, infatti, che si apra in questo momento un dibattito sull’obesità, risultato micidiale dello sfruttamento del corpo e delle sue passioni, frustrazioni e pulsioni.
-  Ciò accade anche perché l’industrializzazione della mnemotecnologia audiovisiva e informatica, che rende possibile la guerra estetico-industriale e che costituisce l’arsenale del marketing, conduce inevitabilmente alla divisione industriale del lavoro e dei ruoli extra-lavorativi in modo per cui il rapporto al “prodotto”, nel nostro caso al simbolo, cognitivo o estetico, finisce all’opposizione dei “produttori” e dei “consumatori” di questi simboli; e questa opposizione uccide i loro desideri.

È così che il capitalismo culturale, informatico o cognitivo, rappresenta il problema di ecologia industriale più inquietante che possa esserci: le capacità mentali, intellettuali, affettive ed estetiche dell’umanità vi sono massivamente minacciate, il momento stesso in cui la potenza di azione dei gruppi umani dispone di mezzi di distruzione senza precedenti. La crisi ecologica che risulta dalla produzione industriale dei simboli è l’epoca della grande miseria mondiale del simbolico, che colpisce (benché molto differentemente) tanto il Nord quanto il Sud e ciò che, ormai, bisogna distinguere come l’Estremo Oriente. Per miseria del simbolico intendo, dunque, la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione dei simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi). E ritengo che lo stato presente di perdita di individuazione generalizzato non possa che condurre a un crollo del simbolico, vale a dire a un affondamento del desiderio, ovvero, alla distruzione del sociale propriamente detto: alla guerra totale.

* ACCADEMIA UNIDEE, 16.01.2023 (ripresa parziale).

-  Via Serralunga 27
-  Biella, Italia
-  info@accademiaunidee.it


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