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RIPENSARE L’AMERICA....

WASHINGTON, L’INVERNO, LA SPERANZA E LA VIRTU’. BARACK OBAMA A CAPITOL HILL: IL DISCORSO D’INSEDIAMENTO (TESTO ORIGINALE E TRADUZIONE).

mercoledì 21 gennaio 2009 di Federico La Sala
[...] "Che si dica al futuro del mondo... che nel profondo dell’inverno, quando possono sopravvivere solo la speranza e la virtù... Che la città e la campagna, allarmate da un pericolo comune, si sono unite per affrontarlo".
America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, ricordiamo queste parole senza tempo. Con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei (...)

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> WASHINGTON, L’INVERNO, LA SPERANZA E LA VIRTU’. --- Obama davanti alle macerie (di Serge Halimi)

giovedì 22 gennaio 2009

La valigia diplomatica

Obama davanti alle macerie

L’entrata in funzione di Barack Obama confermerà una triplice rottura

di Serge Halimi (Le Monde Diplomatique, venerdì 16 gennaio 2009) (traduzione dal francese di José F. Padova)

Innanzitutto politica. È la prima volta dal 1965 che un presidente democratico inizia il suo mandato in un contesto di debolezza, se non addirittura di disfatta delle forze conservatrici. Nel 1977 James Carter al suo inizio l’aveva spuntata (per un pelo) grazie alla sua promessa di un rinnovamento morale («Non vi mentirò mai») dopo lo scandalo del Watergate; la sua presidenza fu segnata da una politica monetarista e dai primi grandi provvedimenti di deregolamentazione; nel 1993 William Clinton si presentò come l’uomo che «avrebbe modernizzato» il partito democratico facendo proprie una quantità di idee repubblicane (la pena di morte, la messa in discussione degli aiuti sociali, l’austerità finanziaria).

Poi una rottura economica. Il neoliberismo alla Reagan non è più difendibile, neppure da parte dei suoi adepti. Durante la sua ultima conferenza stampa come presidente, lunedì 12 gennaio, Gorge W. Bush lo ha «ammesso volentieri»: «Ho messo da parte alcuni dei miei principi liberisti quando i miei consiglieri economici mi hanno in formato cha la situazione alla quale andavamo incontro rischiava di essere peggiore della Grande Depressione [la crisi del 1929]». «Peggiore» comunque equivale a spingersi un po’ troppo lontano, tanto la crisi del 1929 aveva fatto fermentare gli «acini della collera» e rischiato di fare precipitare il Paese nel caos. Tuttavia il 2008 si conclude con una perdita di 2.600.000 posti di lavoro negli Stati Uniti, dei quali 1.900.000 soltanto negli ultimi quattro mesi dell’anno. Questo significa la peggiore performance dal 1945 - vale a dire una caduta libera. Passi ancora se il Paese avesse i conti in equilibrio e una illimitata possibilità di rilancio mediante indebitamento. Ne è ben lontano... Il deficit di bilancio quest’anno raggiungerà i 1.200 miliardi di dollari e l’8,3% del PIL. Anche qui la cifra è impressionante tanto è cattiva: non soltanto supera i peggiori risultati dell’era Reagan (6% nel 1983), ma segna il triplicarsi del deficit da un anno all’altro. E poi, tanto per migliorare le cose, ogni giorno pare annunci un nuovo fallimento di banche.

Una rottura diplomatica. Mai nel mondo, e senza dubbio dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’immagine degli Stati Uniti era caduta tanto in basso. La maggior parte dei Paesi ritengono che la superpotenza americana svolga un ruolo negativo negli affari mondiali, spesso in misura schiacciante. Iraq, Vicino Oriente, Afghanistan: lo statu quo sembra essere inimmaginabile, tanto è nello stesso tempo costoso e micidiale. Tutto sommato Obama ha iniziato la sua campagna elettorale nel 2007 invocando la necessità di un ritiro dall’Iraq e grazie a questa insistenza ha vinto Hillary Clinton - la sua futura Segretaria di Stato... - alle primarie democratiche. Il calendario di questo ritiro sembra già opporre il presidente eletto (più impaziente) ai militari (più «prudenti» (1)). Ma l’impazienza del primo non si spiega per nulla con una disposizione d’animo pacifista. Regge invece sulla volontà di Obama di spostare in Afghanistan una parte delle truppe ritirate dall’Iraq. Ora non è sicuro che le prospettive di impaludamento siano minori a Kabul che a Bagdad...

Politicamente il nuovo presidente ha le mani libere. Il paesaggio di macerie che eredita condannerà i suoi avversari politici a una certa moderazione. La sua elezione, ottenuta con larghissimi consensi, ha beneficiato dello slancio delle forze vive della nazione, dei giovani in particolare. Infine - e le schede speciali, sovente agiografiche, che la stampa del mondo intero dedica a Obama lo suggeriscono a sufficienza - la speranza che il suo ingresso alla Casa Bianca suscita è immensa; e questo non si spiega soltanto col fatto che il presidente degli Stati Uniti è Nero. Di colpo, il «marchio America» si è risollevato. Alcune decisioni a forte impatto simbolico, relative alla chiusura di Guantanamo e alla proibizione della tortura stanno rafforzando questo senso di una nuova era. «Noi dobbiamo mettere altrettanta diligenza nel conformarci ai nostri valori e a proteggere la nostra sicurezza», ha annunciato il nuovo presidente.

Ma poi cominciano le difficoltà. Non basta aspergere l’economia americana di liquidità perché la macchina economica e l’occupazione si mettano in moto. L’inquietudine della popolazione sul proprio avvenire è tale che, invece di consumare di più, risparmia come non mai (2). Il tasso d’indebitamento delle famiglie, che non cessava d’aumentare dal 1952 in poi, ha segnato la sua prima flessione nel terzo trimestre del 2008. Ora, ciò che è sicuramente augurabile a medio e lungo termine mette in pericolo il rilancio rapido [dell’economia] mediante i consumi e gli investimenti, come dà per scontato la nuova equipe della Casa Bianca. «Se non facciamo nulla, questa recessione potrebbe durare anni», ha messo le mani avanti Obama, desideroso che il suo programma di spese supplementari per 775 miliardi di dollari, composte da investimenti pubblici e riduzioni delle imposte, sia adottato al più presto dal Congresso. Sarà sufficiente? Alcuni economisti democratici come Paul Krugman lo giudicano insufficiente e mal concepito (3).

Neppure la situazione internazionale sembra prestarsi a un risultato immediato. Deliberatamente o meno, i dirigenti israeliani hanno messo il loro grande alleato davanti a un fatto compiuto - una guerra particolarmente impopolare nel mondo arabo - e obbligato il nuovo presidente a prendere in mano seduta stante un dossier esplosivo, che non costituiva per niente una sua priorità. La parzialità della quale egli rischia di dare prova in questa occasione, perché nessuno immagina più che gli Stati Uniti possano un giorno difendere una posizione equilibrata in Medio Oriente, potrebbe intaccare assai rapidamente la sua popolarità internazionale.

Ma tutto non si riassume in un uomo, anche se nuovo. Tanto più che la novità è molto meno impressionante quando si esaminano le scelte fatte da Obama per il suo staff. Per un ministro del Lavoro vicino ai sindacati, la signora Hilda Solis, che promette una rottura con le politiche antecedenti, c’è un ministro per gli Affari esteri, Hillary Clinton, i cui orientamenti diplomatici tagliano meno col passato e un ministro della Difesa, Robert Gates, addirittura ereditato dall’amministrazione Bush. La diversità dell’equipe poi non è certo di natura sociologica. Ventidue delle trentacinque persone designate per prime da Obama sono laureate da un’università d’elite americana o da un college britannico pieno di soldi... Ecco ciò che ricorda un poco il ritorno alla «competenza», ai «best and brightest» (i migliori e i più brillanti) dell’amministrazione Kennedy-Johnson. L’immodestia che caratterizza questo genere d’individui li porta talvolta a presumere delle loro forze e a diventare gli architetti di catastrofi planetarie, come si vide al tempo della guerra del Vietnam. Ma negli Stati Uniti, coi tempi che corrono, è piuttosto l’insabbiamento «centrista» che non l’audacia del «Yes, we can» che costituirebbe la minaccia più temibile.

Serge Halimi

-  (1) Leggere « Timetable for Iraq too slow for Obama », International Herald Tribune, 15 janvier 2009.
-  (2) Cf. « Hard-Hit Families Finally Start Saving, Aggravating Nation’s Economic Woes », The Wall Street Journal, 6 janvier 2009.
-  (3) Paul Krugman, « The Obama Gap », The New York Times, 8 janvier 2009.


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