Se gli italiani perdono l’anima
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 8 marzo 2010)
Anche i popoli hanno un’anima, o come dicono i tedeschi un Geist, uno "spirito" che li caratterizza e li rende riconoscibili. "Qual è l’anima degli italiani oggi?" chiede il saggista e romanziere Franco Scaglia al vescovo di Terni Vincenzo Paglia, presidente della Conferenza Episcopale Umbra, nonché consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio.
La domanda percorre l’intero libro-intervista In cerca dell’anima (Piemme, pagg. 290, euro 19), che già nel titolo lascia intendere che gli italiani un’anima, in cui potersi riconoscere come nazione, società e stato, ancora non l’hanno trovata, perché, dopo l’unificazione di storie, culture, società, e soprattutto lingue diverse avvenuta 150 anni orsono, è mancato, come vuole l’espressione di Eugenio Scalfari (che spesso ritorna nelle pagine del libro come interlocutore laico ai discorsi che prendono le mosse da una visione religiosa del mondo), agli italiani è mancato un "federatore". Lo fu Mussolini in modo "approssimativo e superficiale in difesa di valori ingiusti", lo furono la Dc e il Pci "che lavorarono alla rinascita e alla ricostruzione dell’Italia". Dissolte queste due forze, oggi a federare gli italiani è l’"inerzia" quando non addirittura il cupio dissolvi "che ha afferrato le coscienze ancor prima delle menti".
L’inerzia infiacchisce l’anima, che più non si appassiona e non sogna. Non sognano i giovani a cui il futuro non appare più come una promessa ma come una minaccia, non sognano gli adulti che sembrano essersi consegnati a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che è il denaro, non sognano i vecchi a cui è stata allungata la vita solo per riempirla di vuoto. L’inerzia è come un fiume che tutto ingloba e che pigro scorre verso un mare lontano, senza più la spinta della sorgente, le cascate dei dislivelli, i vortici degli affluenti. A rallentare il suo cammino annoiato e triste è solo il suo ristagnare nelle anse sempre più inquinate, paludose e piatte.
Questo infiacchimento spirituale più non conosce ideali forti in grado di affrontare i problemi che la globalizzazione e la tecno-scienza ogni giorno ci propongono: dalla bioetica alla pace, dalla giustizia all’immigrazione, dalla conservazione dell’ambiente alla lealtà fiscale per la costruzione del bene comune. Immersi nel grigio della rassegnazione, gli italiani oggi sono più tristi che felici e, incapaci di guardare il futuro, vivono la "dittatura del presente" dove l’attenzione è rivolta più ai sondaggi che ai movimenti della storia, in un mondo che cambia rapidamente intorno a noi, anche senza la nostra collaborazione, e soprattutto senza che noi lo si sappia interpretare, col rischio che alla fine si cambi in un mondo senza di noi.
Per far emergere il nostro stato di inerzia il libro fa un frequente richiamo al ’68, ricordato dai media con una "sorta di pudore o di fastidio o di lontana e svagata memoria". Senza reticenze nel libro se ne fa una significativa rivalutazione, non tanto per i contenuti, quanto per la passione che esprimeva e che percorreva trasversalmente la società, anche quella ecclesiastica. Allora era difficile parlare di inerzia. C’era una grande voglia di futuro e soprattutto di futuro collettivo, perché a differenza di oggi non c’era chi stava accanto all’altro senza solide relazioni. C’era voglia di comunità e non quelle solitudini di massa, ciascuno col suo ipod nelle orecchie o col video del computer davanti agli occhi per comunicare, dietro una maschera, con altre maschere che nascondono la propria identità.
E tutto questo in un’Italia cattolica che ha il suo centro nella "comunione" che vuol dire comunità, soccorso al prossimo in quelle forme puntualmente elencate nel "Discorso della Montagna" pronunciato da Gesù. Ma già sappiamo che la chiesa del potere non coincide con la chiesa dell’amore, anche se la chiesa dell’amore probabilmente non sopravvivrebbe senza la chiesa del potere. Ma in quest’Italia tutta rifugiata nel privato, senza solidarietà, senza compassione, senza commozione per il proprio simile più svantaggiato, non sarebbe tempo di meno enunciazioni di principio e di più frequenti richiami all’amore del prossimo? Non è questo il grande comandamento del cristianesimo che chiede di scorgere il volto di Dio nel prossimo che non puoi evitare di incontrare lungo la via?