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IL MESSAGGIO EVANGELICO, LA COSTITUZIONE, E IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, ATEO E DEVOTO. COME LA "SACRA FAMIGLIA" DIVENNE ZOPPA E CIECA E IL FIGLIO PRESE IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO" E DIVENNE IL SANTO "PADRINO".... CON E ACCANTO A "MAMMASANTISSIMA".

LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertŕ" (1994-2012). Questo č il nodo da sciogliere. Materiali sul tema - di Federico La Sala

giovedì 14 giugno 2012 di Maria Paola Falchinelli
VIVA L’ITALIA. LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
PER UNA NUOVA TEOLOGIA E PER UNA NUOVA CHIESA.
L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
Il loro successore ha il cuore di (...)

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> LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. -- IL TARLO DELLA COSCIENZA. "Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere" (László Földényi). Due recensioni.

sabato 19 marzo 2022

La rivolta di Dostoevskij. Quel gesto disperato contro la filosofia di Hegel

di Alberto Manguel (la Repubblica, 25 luglio 2012)

      • [Foto] copertina libro
      • Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere
      • László Földényi
      • Editore: Il Nuovo Melangolo
      • Prezzo: EUR 8,00

Lo scrittore dei “Demoni” rifiutň con orrore la concezione della Storia formulata dal padre dell’idealismo: l’idea che passi inosservata l’esistenza dei singoli. Il principio perseguito dall’autore russo, secondo l’ungherese László Földényi, č che nessuno puň essere estromesso dal corso delle vicende umane.

Devo la scoperta di László Földényi a Cees Nooteboom, che in uno dei suoi assalti epistolari insistette perché lo leggessi e mi inviň uno dei suoi saggi, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, pubblicato in italiano dal Melangolo qualche anno fa. Tra le tante vie che ci portano a leggere un libro (che hanno tutte qualcosa di misterioso) c’č quella del titolo. Magari non ci sentiamo immediatamente attratti verso un testo intitolato la Divina Commedia o Le contemplazioni, ma solo un cuore di pietra puň resistere a Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere.

Io lo lessi immediatamente, tutto di un fiato, e poi lo lessi una seconda volta, e poi una terza: il contenuto non faceva assolutamente torto allo splendido titolo. La mia ignoranza dell’ungherese č assoluta e mi dovetti limitare perciň a leggere qualcuna delle opere di Földényi tradotte in spagnolo e in tedesco: sufficienti per giudicarlo un pensatore brillante, originale, lucido; ho seguito con piacere le sue illuminanti considerazioni filosofiche, storiche ed estetiche. I suoi libri sulla malinconia, l’arte e la critica sono dei capolavori.

Molto tempo fa, le scoperte di Copernico spostarono la visione autocentrata del nostro mondo su un’angolazione che da allora si č spostata sempre piů in lŕ, verso i margini dell’universo. La presa di coscienza che noi esseri umani siamo aleatori, minimali, un’apparecchiatura casuale per molecole autoreplicanti, non induce ad alte speranze o grandi ambizioni. Eppure, quello che Nicola Chiaromonte ha chiamato «il tarlo della coscienza» fa anch’esso parte del nostro essere, e pertanto, noi, queste particelle di pulviscolo cosmico, per quanto effimere e distanti siamo anche uno specchio in cui tutte le cose, noi stessi inclusi, ci riflettiamo. Questa modesta gloria dovrebbe bastarci. Il nostro passaggio (e, su una scala minuscola, il passaggio dell’universo insieme a noi) sta a noi registrarlo: un paziente e vano sforzo cominciato quando per la prima volta abbiamo iniziato a leggere il mondo. Chiamiamo Storia quella storia in svolgimento che pretendiamo di decifrare mentre la fabbrichiamo. Dostoevskij aveva capito tutto quando diceva che se la nostra fede nell’immortalitŕ venisse distrutta, «tutto sarebbe permesso ». Cosě come la Storia, non abbiamo bisogno che l’immortalitŕ sia vera per credere in essa.

Fin dall’inizio, la Storia č la storia raccontata dai suoi testimoni, vera o falsa che sia. Nell’VIII libro dell’Odissea, Ulisse elogia l’aedo che canta le sventure dei greci: «Tu narri quello che i Danai patirono e quanto patirono; uno tu sembri che era presente o che abbia udito da loro». Quel «sembri» č essenziale. La Storia quindi č la storia di quello che noi diciamo che č successo, anche se le giustificazioni che diamo per la nostra testimonianza non possono, per quanto ci sforziamo, essere giustificate.
-  Secoli dopo, in una polverosa aula di universitŕ in Germania, Hegel avrebbe diviso questa «invenzione di ciň che č avvenuto» in tre categorie: la prima č la Storia scritta dai presunti testimoni diretti (ursprünglische Geschichte); la seconda č la Storia come meditazione su se stessa (reflektierende Geschichte); la terza č la Storia come filosofia (philosophische Geschichte), che alla fine si trasforma in quella che tutti chiamiamo Storia mondiale (Welt-Geschichte), la storia infinita che include se stessa nel racconto.

Immanuel Kant, in precedenza, aveva immaginato due diverse concezioni della nostra evoluzione collettiva: la Historie, che indicava il mero resoconto dei fatti, e la Geschichte, un’elaborazione ragionata di quei fatti, perfino un’a-priori Geschichte, la cronaca di un corso annunciato di eventi a venire. Per Hegel, quello che importava era la comprensione (o l’illusione della comprensione) dell’intero flusso degli eventi, compreso il letto del fiume e gli osservatori sulla riva, e per potersi meglio concentrare sul corso principale escludeva i margini, le pozze laterali e gli estuari.

Földény immagina che questo sia l’orrore scoperto da Dostoevskij: che la Storia, di cui sa di essere la vittima, ignora la sua esistenza, che la sua sofferenza passa inosservata o, ancora peggio, non assolve a nessuno scopo nel flusso generale della specie umana. Quello che Hegel propone, agli occhi di Dostoevskij (e di Földényi) č quello che Kafka dirŕ poi a Max Brod: «C’č speranza, ma non per noi». Il caveat di Hegel č ancora piů terribile dell’esistenza illusoria proposta dagli idealisti: veniamo percepiti, ma non veniamo visti.

Un presupposto del genere, per Földényi, (e altrettanto dovette sembrare a Dostoevskij) č inammissibile. Non solo la Storia non puň estromettere nessuno dal suo corso, ma č vero anche l’inverso: č necessario il riconoscimento di tutti perché la Storia possa essere. La mia esistenza, l’esistenza di qualsiasi uomo, č condizionata al vostro essere, all’essere di qualsiasi altro uomo, ed entrambi dobbiamo esistere perché Hegel, Dostoevskij e Földényi esistano, dato che noi (gli anonimi altri) siamo la loro convalida e la loro zavorra, noi li portiamo in vita leggendoli. Č questo il significato di quell’antica intuizione che siamo tutti parte di un insieme ineffabile in cui ogni singola morte e ogni sofferenza specifica influenza l’intera collettivitŕ umana, un insieme che non č limitato da ciascun io materiale.
-  Il tarlo della coscienza mina la nostra esistenza, ma allo stesso tempo la convalida; non serve a nulla negarla, nemmeno come atto di fede. «Il mito che nega se stesso», dice Földényi saggiamente, «la fede che pretende di sapere: questo č l’inferno grigio, questa č la schizofrenia universale su cui č inciampato Dostoevskij».

La nostra immaginazione ci consente sempre una speranza in piů, al di lŕ della speranza spezzata o realizzata, una frontiera finora apparentemente irraggiungibile, che alla fine raggiungeremo solo per proporne un’altra ancora piů in lŕ. Dimenticare questa illimitatezza (come cercava di fare Hegel «potando» la sua concezione di quello che conta in quanto Storia) puň riuscire a garantirci la piacevole illusione che ciň che avviene nel mondo e nella nostra vita sia pienamente comprensibile, ma riduce la contestazione dell’universo al catechismo e quella della nostra esistenza al dogma. Come sostiene Földényi, quello che vogliamo non č la consolazione di ciň che appare ragionevole e probabile, ma le inesplorate terre siberiane dell’impossibile.
-  (Traduzione di Fabio Galimberti)


Dostoevskij vs. Hegel

di Andrea Monda (BombaCarta, 24 Marzo 2009) *

      • [Foto] Fëdor Dostoevskij

Nel febbraio del 1854 Dostoevskij si trova ad essere condannato a servire l’esercito come soldato nella cittŕ siberiana di Semipalatinsk vicino al confine cinese. Cinque anni prima era stato condannato a morte, poi la pena era stata commutata, all’ultimo minuto, ai lavori forzati a vita; infine anche questa pena, dopo quattro anni durissimi, era stata trasformata nel servizio militare in Siberia. In questo periodo gli furono di grande supporto morale i libri inviatigli clandestinamente dal fratello Michail, tra cui i romanzi di Dumas e la Critica della ragion pura di Kant nonché Hegel.
-  E proprio dalla lettura di Hegel prende le mosse questo strano libretto, a metŕ tra il racconto biografico e il saggio filosofico, scritto due anni fa dal professore ungherese di letteratura comparata Laszlo Foldčny che oggi arriva in Italia grazie all’edizioni de Il Melangolo.

Foldčny si concentra in quei cinque anni della biografia del grande scrittore russo passati nell’inferno bianco della Siberia (potrŕ tornare nella Russia europea solo il 18 marzo 1859) ed in particolare sull’effetto che ebbe su di lui la lettura di un brano delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel in cui il filosofo tedesco, parlando dell’Asia, scrive di non essere interessato alla Siberia “in nessun modo, perché la zona nordica giace fuori dalla storia“. Il piů grande filosofo e il piů grande romanziere discutono “a distanza” (Hegel in realtŕ č giŕ morto da oltre vent’anni) e il primo rivela al secondo, in modo secco e arrogante, di non far parte della storia.

Il breve saggio di Foldčny puň essere visto come un tardivo tentativo di “risarcimento”, un prendere parte nel senso proprio di “parteggiare” per Dostoevskij, duramente colpito dalla lettura hegeliana: “E’ facilmente immaginabile che proprio allora, quando capě di non far parte della storia, per la quale aveva accettato tutte le disavventure” scrive Foldčny, “nacque in lui la convinzione che la vita potesse avere delle dimensioni che non possono essere inquadrate nella storia [...] Che č necessario uscire dalla storia per poter vedere i confini e i limiti dell’esistenza della storia“.

Il saggio č diviso in due parti, la prima si concentra su Hegel e la sua riflessione, perfettamente lucida quanto arida, sulla storia, e la seconda invece dedicata al tumultuosa condizione in cui si trova l’animo del romanziere russo che trova nella Siberia nello stesso tempo l’Inferno per cui disperare ma anche le ragioni per una riconquista piů matura della fede e della speranza.

Sul filo del paradosso l’autore conduce al lettore alla conclusione che, proprio perché sconfitto dalla storia e sbattuto nel luogo piů sperduto della terra, Dostoevskij riesce a osservare il mondo e l’uomo piů in profonditŕ di quanto faccia Hegel, cogliendo che nella storia c’č qualcosa di piů, qualcosa di irriducibile e che sfugge anche alla piů perfetta “architettura filosofica” realizzata dall’uomo occidentale.

* (Recensione al libro “Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere di L. Foldčny, Il Melangolo, apparsa su Roma7 il 15.3.09)


Sul tema, nel sito, si cfr.:

HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.

Federico La Sala


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