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A FRANZ KAFKA E A PRIMO LEVI. A MEMORIA ETERNA ....

DIE VERWANDLUNG. LA METAMORFOSI. E LA METASTASI DELLA CLASSE POLITICA E INTELLETTUALE ITALIANA - a cura di pfls

UN GIORNO, PER "SOPRAVVIVENZA", UN CITTADINO RUBO’ IL NOME DI TUTTO IL POPOLO ITALIANO, FONDO’ UN PROPRIO PARTITO ... E TUTTI E TUTTE NELLA SUA FARAONICA AZIENDA LAVORARONO FELICI E CONTENTI ("il lavoro rende liberi"), AL GRIDO DI "FORZA ITALIA"!!!
mercoledì 3 settembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] La sera dell’8 luglio, nella trasmissione «Primo piano» su Rai 3, la giornalista Bianca Berlinguer ha intervistato Antonio Polito, direttore del «Riformista» e uomo politico, già redattore dell’«Unità», e Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione», quotidiano del Partito della liberazione comunista. Tre nomi, le stesse origini e nessuno, apparentemente, di destra. Il tema era quello della cancellazione dei processi e dell’immunità per il presidente del Consiglio. Polito si è (...)

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> DIE VERWANDLUNG. LA METAMORFOSI. --- un nuovo libro mostra la stretta relazione tra gli scritti impiegatizi e lo straordinario mondo kafkiano.

sabato 3 gennaio 2009

Franz Kafka. Impiegato fannullone? No, modello Genio e regolatezza. Una biografia ne documenta lo zelo in ufficio

-  Kundera lo definì "il segretario dell’invisibile" per la sua capacità di andare in profondità
-  "Di tutti gli scrittori", notò Elias Canetti, "è il massimo esperto sul potere"
-  Gregor Samsa ha paura che i suoi superiori lo giudichino un assenteista
-  "Il Castello" è una grande allegoria della burocrazia che lo scrittore ben conosceva
-  Era lecito sospettare che il romanziere trascurasse il suo lavoro in un Istituto per le
-  assicurazioni
-  Invece un nuovo libro mostra la stretta relazione tra gli scritti impiegatizi e lo straordinario mondo kafkiano

di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 2.1.2009)

Era lecito sospettare che l’impiegato Franz Kafka fosse un burocrate fannullone. Dove mai poteva trovare il tempo di immaginare tutto quello che ha immaginato, scrivere tutti quei racconti, tutti quei romanzi, tutti gli abbozzi e i rifacimenti, le cose che pubblicò, i manoscritti che affidò all’amico Max Brod chiedendogli di bruciarli, e le carte che stracciò lui stesso, e i diari, e le lettere alle fidanzate, se non nell’orario di ufficio? Se non imboscandosi dietro la scrivania, facendo finta di lavorare mentre pensava ad altro, la testa tra le nuvole? E invece no. Viene fuori che al contrario si portava l’ufficio in casa, travasava nei romanzi e nel resto il suo lavoro da impiegato, che faceva praticamente gli straordinari anche nel tempo libero. È la sorprendente scoperta di un libro fresco di stampa, Kafka: The office Writings (Princeton University Press, copyright 2009). I cui curatori, Stanley Corngold, Jack Greenberg e Benno Wagner, non si limitano a tradurre per la prima volta in inglese quello che Kafka scriveva in ufficio (le relazioni e la corrispondenza da impiegato dell’Istituto per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di Praga, i pareri legali, l’attività da speech writer per il suo capufficio), ma lo collegano direttamente, in modo meticoloso, perfino un po’ pedante, ai suoi scritti letterari. Nato nel 1883, laureatosi in legge all’Università tedesca di Praga, Kafka aveva brevemente lavorato per la triestina Assicurazioni Generali, prima di essere assunto dall’Istituto alle cui dipendenze rimase ininterrottamente dal 1908 al 1922 (non fece la Grande Guerra perché nel 1915 era stato esonerato dal servizio militare in quanto impegnato in attività di "interesse pubblico"), finché non lasciò l’incarico "per motivi di salute" (la tubercolosi che l’avrebbe ucciso un paio di anni dopo, nel 1924). L’Istituto, che aveva in organico circa duecento tra avvocati, matematici, ingegneri, medici, impiegati, dattilografi e personale di supporto si occupava di tutti gli aspetti dell’anti-infortunistica. Aveva iniziato come esperto nella minuziosa classificazione delle industrie e dei rischi connessi, e dei contributi dovuti dai datori di lavoro, era passato a dirigere la commissione di revisione dei ricorsi e si era affermato come alter ego dei massimi dirigenti, scrivendone le relazioni. Gran parte di questi "scritti d’ufficio" sono dedicati a respingere le istanze di datori di lavoro che chiedono di essere esentati dalle loro responsabilità o riduzioni dei contributi a loro carico. Ad esempio ha a che fare col ricorso di un proprietario di alberghi che rifiuta di pagare le quota di assicurazione per l’ascensore con l’argomento che il motore è all’esterno, quello di un proprietario di cave che vorrebbe assicurare i suoi operai come braccianti agricoli e quello dei fabbricanti di giocattoli che si lamentano degli oneri che rischiano di mettere la loro produzione "fuori mercato" rispetto alla concorrenza internazionale.

Negli articoli destinati alla stampa, scritti su ordine e con la forma dei superiori che gli avevano commissionato una difesa delle assicurazioni in crisi, Kafka riesce a destreggiarsi tra le critiche provenienti da tutte le parti, tra le pressioni dei datori di lavoro che tirano solo a risparmiare e quelle dei sindacati ai quali ricorda che distribuire piccoli risarcimenti e pensioni di invalidità a pioggia finisce per sottrarre risorse al risarcimento degli incidenti più gravi. È in questo campo che si forma come maestro dell’ambiguità, del dire e non dire. «Scritto un articolo sofistico? a favore e contro l’Istituto», la confessione di suo pugno in una delle lettere a Felice. A un certo punto si trova ad affrontare, in una nota al Ministero dell’Interno, il problema degli ispettori che danno quasi sempre ragione ai datori di lavoro, mentre il loro compito dovrebbe limitarsi all’analisi dei fatti. Lamenta che «dopo 25 anni di esistenza delle assicurazioni contro gli infortuni le agenzie non hanno il diritto di ispezionare i luoghi di lavoro che assicurano», e che le informazioni fornite dalle imprese «sono così difettose e inadeguate che non rappresentano affatto la realtà attuale e finiscono col determinare una distribuzione totalmente ingiustificata degli oneri». La conclusione, molto "kafkiana", è che non c’è rimedio, perché ogni volta che l’Istituto fa obiezioni, gli viene risposto che si tratta di "un caso eccezionale", quindi si ottiene "piena soluzione in principio", ma completamente "futile" in pratica, perché "tutti si dimenticano della normativa nel momento stesso in cui viene emanata". Si occupa anche di psichiatria quando gli viene dato l’incarico di istituire un ospedale per la riabilitazione dei soldati affetti da "shock da esplosioni". "Patriottismo" non è sacrificarsi per lo Stato, è occuparsi degli individui, la sua argomentazione. C’è anche un documento del 1909 in cui propone di estendere l’assicurazione obbligatoria alle automobili, definendo l’automobile privata come "impresa" e il guidatore come "proprietario". L’argomento, osservano i curatori nel commento, sarebbe sfociato nella pagina del romanzo Amerika dove le automobili diventano quasi persone ansiose di "raggiungere il più velocemente possibile i loro proprietari".

Una corposa sezione contiene le lettere che Kafka indirizzava ai suoi datori di lavoro. Tutte quelle dal 1910 al 1917 sono richieste di aumento dello stipendio: non generiche ma veri e propri saggi, dense fitte di statistiche sul diminuito potere d’acquisto e quelle che riteneva sperequazioni rispetto agli stipendi in altre branche della pubblica amministrazione. In particolare, nota la "palese disparità di trattamento" tra le sue competenze e quella di altri impiegati con meno esperienza, non giustificata "né dall’anzianità né dalle mansioni svolte". Anche in questo siamo tutti un po’ Kafka. Ma lui era anche ebreo, e già il fatto di essere stato assunto in un ruolo di dirigente nel pubblico impiego era all’epoca un’eccezione, se non un privilegio. Anche mio nonno Siegmund era avvocato, ma per esercitare aveva dovuto emigrare dalla Romania a Costantinopoli.

Il lavoro d’ufficio al Kafka scrittore andava evidentemente stretto. Ma al tempo stesso non ne avrebbe potuto fare a meno. Non passava giorno senza che avesse da scrivere qualcosa per l’ufficio. Ma al tempo stesso non c’è suo scritto in cui non ricompaiano, trasformati, gli stessi temi. Una simbiosi, si potrebbe dire. Nel 1913 scrive alla fidanzata Felice Bauer lamentandosi che «la scrittura e l’ufficio non si possono conciliare, dal momento che la scrittura ha il suo centro di gravità nella profondità, mentre l’ufficio si colloca nella superficie della vita. Così va su e giù e uno finisce con l’essere dilaniato nel processo». «L’inferno vero è qui in ufficio, nient’altro può crearmi terrore», aveva calcato. All’altra fidanzata, Milena, aveva descritto il suo ufficio come «non stupido, ma fantastico (phantastisch, che evoca insieme spettrale e fantastico)».

Il Castello, il suo romanzo incompiuto, è stato da alcuni interpretato come allegoria religiosa. Ma altri vi hanno visto un’allegoria della burocrazia. Parla di un aspirante impiegato, l’agrimensore K. che non sa bene se è stato davvero assunto, ed è incerto su quali mansioni debba effettivamente svolgere. Gli vengono affiancati due "assistenti" di cui non vengono mai spiegate le funzioni. Mentre cerca continuamente chiarimenti da un management completamente al di fuori della sua portata, gli viene assegnato un supervisore inaccessibile quanto il castello in cui è asserragliato. Nella Colonia penale è il burocrate capo a finire spellato vivo, nella soddisfazione generale, dalla sua macchina.

L’ufficio è ben presente anche nel più noto dei racconti di Kafka, uno dei pochi da lui pubblicato, la Metamorfosi. Gregor Samsa è un impiegato, ossessionato dal non essere giudicato dai suoi superiori alla stregua di fannullone, assenteista, quanto dalla sua improvvisa trasformazione in insetto. «Suonarono alla porta di casa. "È qualcuno dell’ufficio" si disse Gregor, e si sentì quasi agghiacciare mentre le sue zampine ballavano ancora più velocemente. A Gregor bastò intendere la prima parola di saluto del visitatore per capire subito chi fosse? Perché mai Gregor era condannato a lavorare in una ditta presso la quale la più piccola trascuratezza provocava il maggiore sospetto? Gli impiegati erano dunque tutti quanti dei mascalzoni? Non esisteva dunque tra di loro un uomo affezionato e fidato che, quando non aveva utilizzato un paio d’ore del mattino per il lavoro, diventava come pazzo dal rimorso e non era quindi in condizione di lasciare il letto?... "Non si sente bene", diceva la mamma, "non si sente bene, mi creda"? "Signor Samsa, che succede dunque? Lei si barrica nella sua stanza, risponde soltanto con sì e no, procura ai suoi genitori dei gravi e inutili pensieri e trascura - questo sia accennato soltanto di passaggio - i suoi doveri d’impiegato in maniera veramente inaudita?"».

«Ora - disse Gregor, ed era sicuro di essere l’unico che avesse mantenuto la calma - mi vestirò subito? lei vede bene che non sono testardo e fannullone? può capitare di essere temporaneamente incapaci di lavorare, ma proprio allora è il momento di ricordarsi del lavoro compiuto prima e di pensare che più tardi, superato l’ostacolo, certamente si lavorerà con maggiore entusiasmo e raccoglimento. Io sono già molto obbligato al principale, questo lei lo vede benissimo. D’altra parte ho da pensare ai miei genitori e a mia sorella?». La visita fiscale si è già conclusa, quello ha preso la fuga. Ma c’è tra i commentatori anche chi si è esercitato a scrivere la domanda con cui Gregor Samsa avrebbe anche potuto chiedere l’invalidità per infortunio professionale, anche se non sul lavoro.

Avrebbero magari avuto argomenti per negare la richiesta, come avviene in uno dei frammenti del racconto incompiuto raccolti da Max Brod sotto il titolo Durante la costruzione della muraglia cinese, quello intitolato La supplica respinta: tutti sanno che verrà respinta, perché questo è il compito istituzionale del funzionario che «quando gli arriva dinanzi una delegazione con qualche richiesta, egli si presenta come il muro del mondo». Ma per nulla al mondo rinuncerebbero al rito. C’è chi ha osservato che in quei tempi parlare della Grande muraglia era un modo diffuso per parlare della burocrazia asburgica. Io mi sono fatto l’idea che era un modo per parlare del mondo. Anche se fatto di frammenti scomposti è una miniera inesauribile. C’è persino la leggenda dell’imperatore che, in punto di morte, decide di rivolgersi al cittadino comune, «proprio a te, individuo, a te, misero suddito, ombra minuscola, rifugiatasi dal sole imperiale nella più remota lontananza», e manda un messaggero, "uomo robusto e instancabile", che ce la mette tutta ma "si affanna per nulla": «ancora si sforza di attraversare le stanze più interne del palazzo; non le potrà superare mai; e se vi riuscisse non sarebbe niente di guadagnato; dovrebbe lavorare di gomiti per scendere le scale; e se anche potesse farlo non ne avrebbe vantaggio; dovrebbe attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo che li contiene; e ancora scale e ancora cortili; e un altro palazzo; e così via nei millenni; e se infine uscisse di corsa dal portone estremo - ma non potrà avvenire mai, mai - si troverebbe dinanzi la città imperiale, l’ombelico del mondo, piena colma della sua feccia. Qui nessuno può passare? Tu invece, seduto davanti alla finestra, te lo sogni quando scende la sera». Ma come aveva fatto, Kafka, ad anticipare persino la televisione? O la concorrenza sleale, l’aleatorietà delle "decisioni d’affari" e le intercettazioni telefoniche (frammento intitolato Il vicino)?

«Di tutti gli scrittori, Kafka è il massimo esperto sul potere», notò Elias Canetti. "Segretario dell’invisibile", lo definì Milan Kundera. Dalla scrivania del suo ufficio riusciva a tirare fuori materiale sufficiente per parlare di tutto il mondo, di quello che è fuori e anche di quello, ancora più vasto e minaccioso che è nascosto in profondità dentro ognuno di noi. Rileggendolo con un occhio rivolto ai suoi scritti d’ufficio questi mondi si moltiplicano ulteriormente, si scoprono ancora altre galassie. Provare per crederci.


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