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EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). «Et nos credidimus Charitati...»!!!!

A GALVANO DELLA VOLPE, IN MEMORIA. Il suo (e nostro) limite, come quello di Galilei, Hegel e Marx, è l’aver letto l’"Inferno" e non "tutto Dante". Una nota di Michele Prospero - a cura di Federico La Sala

"Il suo approdo al marxismo avvenne in realtà su un rigoroso e trasparente profilo di scientificità. E solo di questo si deve parlare".
domenica 13 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Tutta una tradizione teorica, che dall’ontologia mistica di Meister Eckhart (studiata a fondo in un testo apparso nel 1930) passando per l’Hegel romantico e mistico (così si intitola un celebre volume del 1929) perveniva fino a Croce e Gentile, si muoveva entro una dialettica senza discorso o categorialità che dissolveva il sentimento o particolare nell’Idea. E non lo assumeva nella sua irriducibile alterità. Esisteva per Della Volpe una autentica malattia platonica e romantica, che (...)

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> A GALVANO DELLA VOLPE, IN MEMORIA. Il suo (e nostro) limite, come quello di Galilei, Hegel e Marx, è l’aver letto l’"Inferno" e non "tutto Dante". -- Galvano della Volpe: l’ultima «autorevisione» (di Leonardo allodi)

mercoledì 27 dicembre 2017

Galvano della Volpe: l’ultima «autorevisione»

di Leonardo Allodi *

      • Lo spirito critico del filosofo Galvano della Volpe (1895-1968) lo ha condotto a una serie di profonde «auto-revisioni», dal fascismo a un marxismo «eterodosso», declinato come scienza storico-sperimentale, sino a una certa valorizzazione del cristianesimo. Tuttavia, nessuno si sarebbe immaginato l’ultima «auto-revisione», al termine della sua vita, illustrata in questo articolo da Leonardo Allodi, docente di Sociologia dei Processi culturali all’Università di Bologna, e confermata dalla testimonianza della nipote di della Volpe, suor Monica, riportata subito dopo: alla fine non ci sono più né Marx né Engels, ma l’unica cosa che conta è Cristo.

Per Lucio Colletti - il più noto e brillante degli allievi di Galvano della Volpe, ma che dal «dellavolpismo» aveva preso congedo convinto che anche il marxismo scientifico propugnato dal suo maestro fosse inemendabile dal vizio d’origine della dialettica hegeliana, e cioè da quella matrice teologica e mistica scoperta dal suo maestro in una delle sue opere più notevoli: Eckhart o della filosofia mistica, 1930 e rie­laborata poi nel 1952 - Galvano della Volpe è stato un «personaggio notevolissimo», un «romagnolo di piccola nobiltà», detto per questo il «Conte rosso», prima fascista critico e inquieto anche rispetto al gentilianesimo (non meno di Giuseppe Bottai con il quale condividerà l’avventura di Primato) e poi comunista, ma mai liberale: «Era circondato da una antipatia e una diffidenza che riconduco a varie ragioni. Primo: andava matto per le donne e non lo nascondeva. Secondo: aveva gli atteggiamenti dell’aristocratico e li faceva pesare. Terzo: aveva fatto il salto da fascista a comunista. Lo avevano fatto pure Antonio Banfi (che aveva insegnato alla scuola di “mistica fascista”) o Ranuccio Bianchi Bandinelli, che era stato il cicerone in orbace di Hitler a Firenze, senza che ciò impedisse al Pci di accoglierli con gli onori. Ma per lui era diverso. Era guardato con sospetto da tutti: dai liberali perché comunista e dai comunisti perché eterodosso» (1).

L’origine mistica dell’hegelismo

La ragione era dunque ben più profonda, cioè filosofica e connessa ai risultati delle ricerche storiografiche sull’origine «mistica» della dialettica hegeliana, nel quadro di un atteggiamento intellettuale portato all’inquietudine e alla continua «auto-revisione». I tedeschi l’avrebbero chiamata Wirkungsgeschichte, storia delle idee e degli effetti genealogici, anche imprevisti, delle idee e della logica del pensiero. Galvano della Volpe era sempre stato un pensatore contro-corrente «sia nei confronti della tradizione filosofica italiana sia per la sua interpretazione del marxismo, così lontana dalla vulgata ufficiale e sovietica» (2). Ma tanto fu importante il suo lavoro in vista di una disideologizzazione del marxismo quanto «cieca» rimase fin quasi alla fine la sua fedeltà al Pci e al comunismo sovietico. La sua posizione filosofica metteva in difficoltà lo sforzo gramsciano e togliattiano di inserire il marxismo nella tradizione filosofica italiana (3). Da qui l’emarginazione in una sede universitaria minore come Messina (dove insegnò ininterrottamente dal 1939 al 1965). Un capolavoro di ipocrisia istituzionale sovietica resta, in questo senso, il messaggio che Luigi Longo, in nome del Comitato centrale del Partito comunista italiano, invierà alla famiglia in occasione della morte (13 luglio 1968): «Noi sentiamo tutta l’attualità del suo pensiero e del suo impegno e lo ricordiamo, anche per questo, con affetto e gratitudine. Galvano della Volpe continuerà a restare con noi, con le sue opere» (4).

Ben altra risonanza conservano invece le parole di Lucio Colletti: «Vederlo così mi dava dolore. Aveva un carattere detestabile e scriveva difficilissimo, con parentesi quadre dentro parentesi graffe. Ma era affascinante perché era un uomo vivo. Non lo incontravi a casa sua, dati i cattivi rapporti con la moglie, ma al caffè di piazza Vescovio. Riceveva là. Ci ricevette anche Kolakowski e Sartre. Fino a quando morì, nel ’68. Mi ha dato molto. Prima di tutto la freschezza dell’osservazione. Andavamo al cinema insieme. E anche davanti al film più banale riusciva a cogliere il dettaglio da cui ricavava sempre un elemento di vita vissuta»5. Nello stesso Caffè riceveva anche Pierpaolo Pasolini, l’amico che chiamava «il mio misticone». Colletti era giunto alla conclusione che Galvano della Volpe, nono­stante il suo straordinario sforzo teoretico e filologico (anche come traduttore), fosse rimasto impigliato nella dialettica di Marx e di Hegel, quella dialettica di cui aveva magistralmente indagato la genealogia e le origini in Proclo e nel neoplatonismo, fino a risalire al Vangelo di Giovanni ma soprattutto a Maestro Eckhart, al punto da meritarsi il notevole apprezzamento del maggior filosofo cattolico tomista del Novecento, Étienne Gilson6. Meister Eckhart, con la sua mistica speculativa, con il suo volontarismo, con il suo disprezzo per la creaturalità, in fondo era in decisa rotta di collisione con il grande Tommaso. Il Meister Eckhart presente in Hegel dava invece molto fastidio agli idealisti gentiliani come ai marxisti e, costituiva, paradossalmente (certo, al di là delle stesse intenzioni di della Volpe), un «assist» formidabile al tomismo cattolico e alla sua critica dell’immanentismo hegeliano e poi marxista, al­l’«e­terogenesi dei fini» derivata da quello spiritualismo eckhartiano che aveva rotto con la tradizione scolastica.

Il «falso» realismo

Il notevole interesse che della Volpe riservava ad Aristotele, un pensatore «pre-cristiano» come qualcuno ha detto, in opposizione a Platone, nasceva nell’orizzonte di questa critica allo spiritualismo disincarnato eckhartiano e in questa stessa prospettiva possono essere letti il fascino che avvertiva per scienza e tecnica, lavoro e socialità umana, dunque l’esigenza di volgere il pensiero verso una materialità oggettiva e non mistificata.

Ma per Colletti Galvano della Volpe non era riuscito a «fare l’ultimo passo» che lo avrebbe condotto fuori dal falso realismo, cioè dal realismo a metà del Marx giovanile. Rimase per questo in un’inquietudine esistenziale e filosofica mai risolta e forse proprio in questa inquietudine, in questa ricerca di una verità mai trovata almeno a livello pubblico e ufficiale (per la dimensione privata oggi possediamo una testimonianza assolutamente inedita e piuttosto straordinaria nelle parole di Madre Monica della Volpe, nipote di Galvano e oggi alla guida del Monastero trappista cistercense di Valserena a Guardistallo) si trova il significato più profondo del cammino di Galvano della Volpe. Per Colletti, con il suo lavoro teoretico filologico e storiografico, egli ha inconsapevolmente gettato le basi di una fondamentale disideologizzazione del marxismo proprio nel momento in cui indirizzava quest’ultimo verso un confronto con il sapere scientifico: un confronto, tuttavia, dal quale il Marx Galileo delle scienze sociali sarebbe uscito con le ossa rotte. Dunque un pensatore contro-corrente, eretico, non controllabile. Per M. Rossi una caratteristica costante del suo lavoro fu proprio la tendenza a una «rigorosa e incessante autorevisione» (7). In particolare della Volpe «presentava il pensiero marxiano come via d’uscita dalle forme di dogmatismo a priori, un allargamento della ragione verso la positività e la ricchezza del reale. In questo modo della Volpe agganciava il marxismo alla ricerca concreta e discreta delle scienze umane e ne metteva in crisi l’impianto ideologico ufficiale» (8).

La molteplicità «positiva»

Per della Volpe l’unica risposta possibile alla crisi del «vecchio mondo platonico-cristiano-borghese» non poteva essere né borghese-illuministica né romantica né, tantomeno, poteva trovarsi in un atteggiamento «da anime belle». Il suo grande errore fu simile a quello di Nietzsche: confondere il realismo della caritas dell’amore cristiano e dell’ordo amoris agostiniano con la loro degenerazione borghese. Nel pensiero filosofico occidentale, che per lui culmina e si invera definitivamente in Hegel, persistono «un platonismo e un implicito misticismo», che si esprime al meglio nella hegeliana dialettica dell’unificazione degli opposti come momento della totalità. Prima Hume e poi Marx consentono, secondo della Volpe, di riaprire al pensiero un accesso alla realtà, alla complessità del reale che per della Volpe è sempre anche «non essere», «molteplicità» positiva.

Per della Volpe i marxisti che parlano di «negazione della negazione» non sanno quel che dicono: «Ancor oggi si sente parlare molto (anche da marxisti) di “negazione della negazione”. Ma questa formula, se ha da significare qualcosa di preciso, non può non mantenere sostanzialmente il significato ch’ebbe per Hegel, che l’apprese dal primo che se ne servì: dal filosofo mistico maestro Eckhart, che intendeva con essa asserire che, se il principio del mondo è spirituale, esso è principio di unità originaria delle cose, però negazione di quel negativo che è, per definizione mistica, la accidentale molteplicità delle cose!» (9). Con la logica hegeliana cade il principio di non contraddizione, e solo nella scienza, nella logica del circolo concreto-astratto-concreto, è possibile riappropriarsi di un accesso alla realtà così come essa è. Solo la scienza è in grado di evitare l’annientamento del molteplice, e con esso della creatura, propugnato dall’atto mistico eckhartiano («semplificare o unificare all’estremo le cose, il molteplice, trascendendolo, trovandone la reale consistenza ontologica ch’è l’unità assoluta, Dio stesso» (10) ). Agire liberi, spogli, come abito della vita interiore, significa, in Eckhart, svuotamento spiritualistico e disincarnato della vita umana concreta.

Della Volpe ricorda l’affermazione eckhartiana, poi condannata da Giovanni XXII (l’intero testo latino della Bolla è riportato nel volume su Eckhart): «Chi si sia veramente identificato con la volontà di Dio non dovrebbe volere che non fosse stato commesso il peccato in cui è caduto, perché per aver peccato, è tenuto a un maggior amore verso Dio» (11). Le ultime propaggini di questo spiritualismo si spingono, per della Volpe, fin dentro l’esistenzialismo jaspersiano: «Lo stesso sprezzo teologico per l’uomo come ente mondano, ch’era condensato nelle formule eckhartiane del “niente creaturale” e di una mistica “libertà” (dal mondo), ritorna evidentemente mutatis mutandis in questa moderna formula di condanna del “mondo materiale”, dell’umano lavoro pronunciata da Karl Jaspers, ultima anima bella» (12). Interpretare dialetticamente la realtà significa consegnarsi nelle braccia di una dialettica che produce l’illusione della totalità. Per della Volpe, al contrario, «là dove è serio, come nelle analisi de Il Capitale, il marxismo è scienza». Il marxismo è ragionamento sperimentale.

Il «Taccuino del filosofo»

Ma facciamo un passo indietro. Nel marzo del 1940, Galvano della Volpe viene chiamato da Giuseppe Bottai a collaborare alla nascente rivista di arti e lettere Primato, dove curerà il «Taccuino del filosofo».
-  Nati nello stesso anno, il 1895, Giuseppe Bottai e Galvano della Volpe condividono l’avventura di una delle esperienze culturali più sorprendenti del ventennio fascista. Bottai era il «fascista critico», la «Cassandra del regime», il «frondista» che voleva separare fascismo e mussolinismo, ma anche colui che non si oppose alle leggi razziali. La rivista raccolse intorno a sé circa 250 intellettuali, prevalentemente non coinvolti nel regime. È qui che Galvano della Volpe trova quel clima di «fronda», di «eterodossia» a lui molto congeniale (13).

A scorrere la lista dei collaboratori lo stupore non manca (14): Nicola Abbagnano, Corrado Alvaro, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Antonio Banfi, Piero Bargellini, Enzo Biagi, Romano Bilenchi e Massimo Bontempelli, Filippo De Pisis e Carlo Emilio Gadda, Mario Luzi e Mino Maccari, Eugenio Montale, Indro Montanelli, Enzo Paci e Giaime Pintor, per citare solo alcuni nomi. Le grandi inchieste sull’ermetismo, sulla missione dell’università, sul «nuovo romanticismo» (nella quale intervenne direttamente l’«antiromantico» Galvano della Volpe), sull’«esistenzialismo» (15), la difesa della letteratura americana o quella dell’illuminismo compiuta da un Giaime Pintor, ci suggeriscono una realtà abbastanza singolare per il regime di allora, ma nella quale un intellettuale inquieto e «irregolare» come Galvano della Volpe si trovò perfettamente a suo agio. Nella sua rubrica Galvano della Volpe affronta molti temi, ma l’articolo che mai gli sarà perdonato (dagli stessi comunisti) resta «Estetica del carro armato» (uscito nel n. 10 del 15 luglio 1940). In realtà, più che di un intervento politico si trattava di un articolo (certamente non di esaltazione del nazismo) anticrociano, che tirava in ballo soprattutto l’amico Luciano Anceschi e la sua concezione dell’arte (16).

Proprio attraverso Bottai, Galvano della Volpe stabilisce un contatto con un altro «irregolare» come don Giuseppe De Luca, il «vignaiolo delle menti e delle coscienze» (17). Significativo il ringraziamento che l’autore rivolge a don De Luca nella premessa «Al Lettore» della riedizione del 1952 di Eckhart o della filosofia mistica, «per la liberale assistenza al suo lavoro» (18).

Così come stupisce la persistenza del suo interesse per la storia della mistica occidentale: si pensi al corso su L’etica dell’agostinismo (nel 1944-1945), a La dottrina dell’Areopagita e i suoi presupposti neoplatonici (Roma 1941), al corso del 1949-1950, La mistica da Plotino a sant’Agostino e la sua scuola. E agli interventi degli anni ’30 su La mistica di Bernardo di Clairvaux (Annuario del R. Liceo ginnasio Galvani di Bologna) e Filosofia ascetico-mistica (del 1942), come pure La morale religiosa nell’età patristica e medievale: appunti di storia della filosofia (corso messinese del 1941) o l’edizione di Antonio Rosmini, Princìpi della scienza morale, del 1940.

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