Torino
Al Congresso internazionale che si sta tenendo al Lingotto emerge una verità condivisa: l’architettura di oggi fa acqua.
Prevale il culto dell’immagine, a discapito della vivibilità e di un’etica sociale del costruire
«Archistar» e case colabrodo
Croset: «Detta legge la spettacolarità ma ben poco si conosce delle magagne che si celano dietro certi progetti».
Ghirardo: «Il Mit ha fatto causa a Frank Gehry per non aver previsto certe protezioni, ma lui fa spallucce. C’è troppa arroganza fra i progettisti oggi»
DA TORINO LEONARDO SERVADIO (Avvenire, 02.07.2008)
Non è solo volume e forma, l’architettura è fatta anche di concetti e di parole. Certo, se bastassero queste ultime sarebbe tutto più semplice: all’incontro mondiale degli architetti di Torino proprio queste non sono mancate. La comunicazione verbale dei tanti incontri e dibattiti è di qualità: l’altra comunicazione - quella che dovrebbe più immediatamente attenere alla progettualità - invece genera molti punti interrogativi: grazie alle indicazioni confuse e malgrado l’impegno delle decine di giovani aiutanti in divisa, negli spazi dilatati del Lingotto, le centinaia di ospiti e congressisti si muovono spersi, e le installazioni che dovrebbero ’fare mostra’ e accompagnare l’incontro con uno sfolgorio di esempi di architetture nobili, si presentano spoglie come relitti. Sembra la manifestazione in opera della discrasia tra critica e progettualità, ovvero di quel diffuso «predicare bene e razzolare male ». «Ci vuole più critica dell’architettura, maggiore coscienza del suo cruciale ruolo sociale, meno esibizionismo e meno egocentrismo dei progettisti»: non è l’opinione di uno, ma di tutti i relatori che si sono incontrati nell’ambito del dibattito «Le culture dell’architettura ». «Senza storia non c’è critica. E senza critica non c’è architettura», sostiene Eric Mumford, che vede nel confronto col passato un sine qua non produttivo non solo di conoscenza ma anche di potenzialità espressive. «E la storia della contemporaneità non può essere limitata alla figura dell’architetto: perché la costruzione di spazi di vita riguarda chiunque e di fatto è oggetto di influenza di tutti» sostiene Pierre-Alain Croset, che ricorda come «la scuola veneziana di Manfredo Tafuri non rifugge dall’impegno comunitario e indirizza i propri studi e ricerche nella direzione delle opere collettive, quali quelle generate dall’impegno della socialdemocrazia... Personaggi come Otto Wagner e Bruno Taut fondavano sulla conoscenza storica la loro opera professionale. Il che differisce molto da quanto avviene oggi, quando ciò che è storico è considerato obsoleto dagli architetti militanti». Perché oggi la parola d’ordine è «far parlare di sé», non impostare una seria e fondata critica. «Per cui chi realizza architettura desidera essere pubblicato, ma con commenti di non specialisti: ne consegue che la comunicazione dell’architettura è legata solo all’aspetto spettacolare, non all’aspetto progettuale e generativo dell’edificio. Noi non sappiamo perché la ristrutturazione di un edificio importante come il Parlamento di Berlino sia stata affidata a Norman Foster, per quanto questi non avesse partecipato al concorso precedentemente convocato. Dell’architettura contemporanea forse sappiamo meno di quanto si sappia dell’architettura storica...». A questo si aggiunga il tema della complessità degli agglomerati urbani, che sono qualcosa che supera la somma degli edifici separati.
«Ragion per cui gli architetti dovrebbero sempre lavorare insieme con storici e sociologi, così che lo spessore del contesto - nella piena coscienza dei suoi elementi generativi - sia un elemento che concorre attivamente alla formazione delle nuove costruzioni. È questa la base necessaria perché l’architettura diffusa sia di qualità e no mera edilizia... ». Di contro alla bassa qualità dell’architettura diffusa, negli ultimi decenni abbiamo visto sorgere i totem di alcuni ’mostri’ o ’grandi maestri’ dell’architettura. Tra questi il più noto e chiacchierato è Frank Gehry, contro il quale si scaglia
Diane Ghirardo: «Il Massachusetts Institute of Technology l’anno scorso gli ha fatto causa: l’edificio universitario da lui progettato (soprannominato ’robot ubriachi’), non solo fa acqua ma d’inverno diventa pericoloso perché manca delle protezioni antineve ed è capitato che qualche persona si sia trovata sotto masse di neve scivolata giù dal tetto. Ed è costato 300 milioni di dollari: il doppio rispetto al preventivo. E alle critiche e obiezioni Gehry fa spallucce, non risponde: si sente al di sopra. Ma è in buona compagnia, lo stesso fa Calatrava. Lo stesso fece Le Corbusier quando la famiglia protestò per il suo progetto di ’Villa Savoye’, dopo che il figlio si ammalò di polmonite entro quell’ambiente difficilissimo da riscaldare. ’Vi ho fatto pubblicità, che volete di più?’, rispose. Siamo in un’epoca in cui l’immagine è tutto: di qui l’importanza delle riviste di architettura. Ma queste sono ormai troppo condizionate dalla pubblicità...».
Insomma, dal punto di vista degli storici l’architettura di oggi non sta affatto bene, almeno quella più nota. «Ma vi sono anche realizzazioni interessanti e socialmente importanti - chiosa la Ghirardo - Come le scuole realizzate a Los Angeles da Patrick Hodginson, meno costose (è riuscito a contenere i costi in 300 dollari al metro quadrato) e più efficaci dei continui aumenti nel numero di addetti alle forze dell’ordine nella megalopoli di Los Angeles nel ridurre la devianza giovanile». Perché l’architettura può effettivamente avere un ruolo socialmente importante, se non nasce da un afflato esibizionista.