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Filosofia e democrazia...

Il limite e il riso che spicca il salto. "L’uomo che non credeva in Dio" di Eugenio Scalfari. Il commento-omaggio di Barbara Spinelli - a cura di Federico La Sala

domenica 11 maggio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] I filosofi che Scalfari predilige sono frammentari, poetici: Nietzsche, Montaigne, Pascal. Thomas Bernhard, che amava solo questi, li chiamò un giorno i Lachphilosophen: i filosofi ridenti.
Eugenio è un Lachphilosoph. Fa sorridere e pensare profondo. Abita poeticamente questa terra, quest’Italia che spesso infuria. Opera per operare, come gli alberi che accolgono vite e suoni facendosi luoghi, case: «Anche noi, oltre che persone, siamo luoghi e case, ma spesso non lo sappiano e se (...)

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> Il limite e il riso che spicca il salto. "L’uomo che non credeva in Dio" di Eugenio Scalfari. --- Per il mio libro {L’uomo che non credeva in Dio} sono stato gratificato da molte recensioni e da moltissime lettere inviatemi da lettori amici o mai incontrati. Voglio qui ringraziare tutti per l’attenzione che mi hanno dedicato, per le critiche che mi hanno rivolto e in generale per il tono di civile conversazione che ha circondato quelle pagine con un alone affettuoso, uno scambio di esperienze e di sentimenti in un’epoca dove quello scambio è ormai diventato inconsueto (di E. Scalfari).

mercoledì 28 maggio 2008

Una risposta al teologo Vito Mancuso

di Eugenio Scalfari (la Repubblica, mercoledì 28 maggio 2008)

Per il mio libro L’uomo che non credeva in Dio sono stato gratificato da molte recensioni e da moltissime lettere inviatemi da lettori amici o mai incontrati. Voglio qui ringraziare tutti per l’attenzione che mi hanno dedicato, per le critiche che mi hanno rivolto e in generale per il tono di civile conversazione che ha circondato quelle pagine con un alone affettuoso, uno scambio di esperienze e di sentimenti in un’epoca dove quello scambio è ormai diventato inconsueto.

Ho imparato molto dalle recensioni, dalle lettere, dai dibattiti che hanno avuto il mio libro per oggetto. Prego di credere che non è una frase di facile e ipocrita cortesia: ho scritto parecchi altri libri e anch’essi sono stati recensiti e dibattuti ma non avevo mai sentito il bisogno d’un ringraziamento collettivo e non avevo imparato granché da quelle letture. Questa volta mi è sembrato diverso, forse invecchiando si gusta meglio e di più la gentilezza altrui e si avverte il desiderio di ricambiarla. Non è melassa, ma reciproco nutrimento sentimentale.

Tra i recensori ce n’è stato anche uno che si è concentrato sul contenuto filosofico delle mie pagine. Per ragioni stilistiche e anche filosofiche il libro è scritto in modo del tutto asistematico, procede per frammenti, riflessioni, passaggi rapidi da episodi di vita vissuta a riflessioni sul senso, sulle figure psichiche, sui fondamenti della morale, della politica, della religione.

La filosofia e la vita si sono volutamente intrecciate e così alcune domande e qualche risposta. Questo modo di procedere era una necessità imposta dal tema da me scelto e cioè una ricerca che conduco ormai da molti anni sul rapporto tra la vita e i pensieri e sulle modalità con le quali l’una interferisce e determina gli altri e viceversa. Non potevo avere più autentica e diretta autenticazione di quel rapporto se non la mia vita e i miei pensieri e questo ho fatto, ma sono stato contento di sentirmi dire da tanti lettori d’essersi identificati in molte delle mie riflessioni, delle domande che mi ponevo e delle risposte che ho cercato di dare quando ne sono stato capace. E commossi ? così mi hanno scritto in molti ? da alcuni miei ricordi, malinconie, gioie, dolori, insomma abbandoni che ti vengono quando ti confessi a te stesso e alla pagina destinata ad un pubblico al quale sei legato da affinità elettive coltivate per anni. «Quel cibo ? scriveva il Machiavelli al Vettori ? che solum è mio ed io son per lui». Parlava degli scrittori antichi, io parlo di lettori miei contemporanei ma ciò che mi lega ad essi ha la stessa qualità e intensità e mi dà una serenità e un benessere spirituale grandissimi.

* * *

Dicevo che tra i miei recensori ce n’è stato uno che ha concentrato la sua attenzione critica sugli aspetti filosofici del mio libro. Diciamo sulla mia filosofia. Si chiama Vito Mancuso. Mi ha dedicato un lungo articolo sul Foglio del 18 maggio. E’ filosofo e teologo. Ha scritto libri pregevoli, l’ultimo dei quali s’intitola L’anima e il suo destino che ho letto con vivo interesse. E’ di cultura cattolica anche se piuttosto eterodossa. Privilegia la ragione sulla fede, ma non al modo di san Tommaso o almeno non soltanto. Usa molto le categorie ontologiche, direi ammodernando un tipo di pensiero che è più vicino ad Anselmo d’Aosta che al grande Aquinate.

A lui desidero rispondere non da scrittore ma piuttosto da filosofo a teologo perché questo tipo di confronto mi interessa e spero interessi anche i miei lettori.

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Mancuso concorda con me su parecchie questioni. Per esempio sul mio modo di intendere la morale come un istinto biologico mirato alla sopravvivenza della specie. E ancora sulla mia visione dell’amore come elemento dominante della vita alla pari con la volontà di potenza. Infine sulla mia ricerca dei «fondamenti» che determinano le forze primarie e vitali. Ma dissente, Vito Mancuso, su alcuni punti essenziali e mi coglie in difetto di coerenza. Anzitutto su Nietzsche.

Secondo lui l’autore di Zarathustra ha demolito la Ragione come grembo primordiale del creato, mettendo al suo posto il corpo il «soma», l’irrazionale-istintuale. Scalfari - scrive Mancuso - è intriso di pensiero illuminista e tutte le sue pagine sono un onesto e cauto esercizio di razionalità, ma d’improvviso abbandona Diderot e Voltaire per Nietzsche. Non è incoerenza questa inattesa giustapposizione di due tesi completamente opposte tra loro? Rispondo con una delle frasi che meglio rappresentano il pensiero nietzschiano: «Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante». Nietzsche parlava per aforismi e metafore e questa è una delle più profonde e poetiche tra le tante da lui usate. Egli non pensa l’essere alla maniera di Parmenide e delle religioni induiste. Tanto meno lo pensa come Logos. Per lui il grembo primordiale ? se posso usare l’immagine di Mancuso ? è il caos, il ribollente informe che sfugge alle categorie del tempo e dello spazio. Il caos non è l’essere ma piuttosto un perenne divenire che erutta forme. La stella è già una forma, dotata d’una sua figura, d’una proporzione tra gli elementi chimici e le forze elettromagnetiche che la compongono; una forma in evoluzione, soggetta a regole e leggi proprie; misurabile sia nello spazio sia nel tempo. Volete conoscere la prima di tali regole? E’ l’entropia, la degradazione dell’energia potenziale che si traduce in luce e calore secondo i principi della termodinamica.

Il caos non è pensabile dalla ragione. Come il nulla. La stella invece è pensabile, misurabile, degradabile, ha un tempo di nascita e un tempo di morte, soggetto alle leggi imposte dalla sua stessa natura, conoscibile attraverso i processi propri del pensiero razionale. Questa del resto è una visione tipicamente spinoziana e Mancuso ricorderà che Nietzsche riconobbe Spinoza come suo maestro e anticipatore del suo pensiero. L’irrazionalismo nietzschiano coincide con la visione caotica dell’informe originario ma cessa nel momento in cui entrano in scena le forme e le leggi che regolano il loro divenire.

In questa concezione non c’è posto per il «logos primordiale». Le religioni monoteiste lo trasmettono ai loro fedeli come verità certa mentre si tratta di una verità di fede. Dal punto di vista della ragione vale appunto come un vento di fede, valida soltanto per chi ne sia vivificato e ne derivi tutte le conseguenze induttive e deduttive. Togliete la fede e l’intera costruzione logica che poggia su quella premessa crolla come un castello di carta. Il suo guaio, caro Mancuso, è di scambiare quel vento di fede per verità di ragione.

* * *

Ci sono nel suo articolo altri punti di dissenso con me: il tema della libertà, il tema dell’anima (che le sta particolarmente a cuore), quello dell’amore in contraddizione (secondo lei) con la volontà di potenza, quello della Trinità di Dio.

Fossi in lei, teologo cristiano e anzi cattolico, starei molto attento a infilarmi in quest’ultimo argomento: lei sa meglio di me a quali dispute ha dato luogo il Dio uno e trino. Dispute da Concilio, votazioni su Dio, scomuniche, scissioni, papi e antipapi, episodi cruenti, quanto di più lontano da una teologia libera e feconda di pensiero e di carità. Il tema della libertà, come lei lo pone attraverso le equazioni tra Io e Mondo, è per me assai poco ricevibile.

Se Io è eguale a Mondo (lei dice) il risultato dell’equazione è zero nel senso che non c’è residuo; se invece Io è qualche cosa in più di Mondo, da quella sottrazione resta un x e quell’x è la libertà. Debbo dire che pensare la libertà come un elemento residuale, un sovrappiù dell’Io depurato dalle influenze esterne (Mondo) mi suscita un sentimento di sgradevolezza. Nell’immagine corrente la libertà è una forza potente, una «anima mundi» che pervade la vita di ogni persona e di ogni società. O è questo o non è. La libertà come un residuo mi sembra impensabile ed anche mi sembra impensabile un Io depurato dalle interferenze del Mondo, cioè dalla realtà esterna.

Non è lei stesso a sostenere (ed io convengo con lei) che una delle caratteristiche fondative della nostra specie è la socievolezza che lei chiama «legge relazionale»? E dunque se la relazione con gli altri è elemento fondativo della specie come è mai possibile concepire l’Io sottraendolo ad uno dei suoi elementi fondativi? Significherebbe snaturarlo non depurarlo; significherebbe distruggerlo e quindi privare l’equazione da lei formulata di uno dei suoi due elementi.

E poi: mi sembra strano che un teologo cattolico concepisca la libertà come un residuo quando tutta la dottrina cattolica indica nel libero arbitrio la pietra angolare della sua costruzione. Qui ? mi permetta di dirlo ? è lei in contraddizione con la sua Chiesa. Ma torniamo alla libertà. Io ritengo che l’istinto fondamentale di ogni entità vivente sia quello della sopravvivenza cioè della forma di ciascun vivente e della durata della sua organizzazione. Tutto il resto ne deriva.

In questa visione la libertà è il modo con cui il soggetto utilizza la realtà esterna e le occasioni che essa gli offre per poter sopravvivere. La libertà comporta il rischio di sbagliare, l’errore di scegliere un’occasione che sembra utile alla sopravvivenza e invece non lo è. Quante specie sono perite anzitempo per aver imboccato strade cieche, prive di evoluzione ulteriore? Quanti individui hanno compromesso la loro felicità e la loro fortuna scegliendo «liberamente» l’occasione negativa anziché quella per loro positiva? Il margine di libertà così concepito è molto piccolo, ma comunque è molto maggiore di quanto non sia quello di altre specie viventi. Noi siamo dotati di mente riflessiva e quindi di capacità comparative, cioè di giudizio.

Non solo ci sentiamo soggetti ma aggiungiamo al soggetto il predicato. La nostra libertà ha la sua radice proprio in quel punto, situato nel rapporto tra vivere e pensare, tra soggetto e giudizio.

* * *

Concluderò parlando dell’amore, un tema che mi è molto caro in tutte le sue declinazioni. L’amore, come tutti gli altri nostri sentimenti, deriva dall’istinto di sopravvivenza. C’è l’amore di sé e l’amore per l’altro. Gli animali non hanno questa duplice declinazione; non avendo una mente adeguata a costruire l’Io agiscono soltanto per sopravvivere. Per noi umani è diverso: noi amiamo noi stessi ma amiamo anche gli altri la cui esistenza è necessaria alla nostra sopravvivenza. Di qui nascono la morale e l’egoismo come istinti separati ma alimentati entrambi da quello della sopravvivenza. Non ci sono in questa visione atti morali che possano danneggiare la specie, come lei caro Mancuso sostiene.

Intendo: che possano danneggiare l’umanità della specie. Ci possono invece essere e purtroppo ci sono atti egoistici che possono danneggiare l’umanità della specie. L’istinto morale interviene a correggerli, alle volte ci riesce, altre volte no. La nostra vita è fornita di due pedali come una macchina che abbia un acceleratore ed un freno.

Tra le tante buone letture in materia, consiglio le massime di La Rochefoucauld: fu un uomo per tanti aspetti detestabile ma aveva un cervello e capacità di giudizio fuori dal comune. Se per caso non le avesse lette le legga ora, caro Mancuso: imparerà o si rinfrescherà con molte cose che la teologia non include nel suo sapere.

Non ho bisogno di ripetere che apprezzo molto i suoi scritti. Del resto non avrei dedicato tanto spazio a contestarne alcuni aspetti.


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