Darwin il milanese
Decisivi i legami tra la città e «il Galileo della biologia»
di Peppe Aquaro (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Conosciuto, senz’altro. Qualche volta contestato, quasi sempre sostenuto. Charles Darwin non fece mai tappa a Milano (la moglie, Emma Wedgwood, sì, particolare, forse, che di scientifico ha ben poco), ma i contatti tra lo scienziato e il mondo accademico meneghino risultarono decisivi per lo sviluppo della teoria dell’evoluzione delle specie. Lo mette in evidenza la mostra «Darwin 1809-2009», promossa dal Comune di Milano, prodotta da Palazzo Reale, «Codice. Idee per la cultura» e Civita, con la partnership di Intesa Sanpaolo, che da domani al 25 ottobre approda nel capoluogo lombardo, alla Rotonda della Besana, dopo la tappa a Roma.
L’esposizione - mille metri quadrati, più ampia della prima versione curata a New York da Niles Eldredge e Ian Tattersall, prosecutori dell’opera del genio britannico - presenta, tra l’altro, alcune lettere della corrispondenza tra lo scienziato inglese e i colleghi milanesi. Su tutti: Giovanni Omboni, Angelo Andres e Tito Vignoli. Tra le chicche, una delle primissime segnalazioni, sulla rivista milanese «Il Politecnico » del 1860, un anno dopo la pubblicazione, di «On the Origin of Species», di cui è mostrata anche l’edizione originale (ne furono stampate solo 2.500 copie), prestata al Museo di storia naturale di Milano. A Vignoli, storico direttore del Museo, appartiene la sentita commemorazione funebre del celebre scienziato (1882): «Egli è certamente e sarà il più grande uomo del nostro secolo, e come io ebbi l’onore di scrivergli qualche anno fa, egli è il Galileo delle scienze biologiche». Pochi anni prima, sempre lo stesso museo aveva battuto sul tempo la concorrenza di Modena e Napoli, nominando Darwin socio onorario.
«Quando si parla di Darwin e dei suoi rapporti con il mondo italiano, non si tratta soltanto di analogie fra studiosi, ma di vere e proprie anticipazioni alle teorie darwiniane - osserva Eldredge - come quella del geologo bassanese Giambattista Brocchi il quale, già a inizio Ottocento, affermava che le specie nascono, hanno una storia e alla fine muoiono». Una scoperta nella scoperta, il rapporto tra l’Italia e Darwin. «Nel 1879 lo scienziato riceve il premio Bressa, e lui che fa? Ne devolve il ricavato alla Stazione zoologica di Napoli», ricorda Telmo Pievani, filosofo della scienza, allievo di Eldredge e Tattersall e curatore della mostra che vuole essere essenzialmente un omaggio alla figura di Darwin e all’importanza della scoperta scientifica.
Il viaggio del visitatore alla ricerca delle proprie origini è lo stesso di quello compiuto dal naturalista inglese, dal 1831 al 1835, a bordo del brigantino Beagle. Quei cinque anni che sconvolgeranno il mondo scientifico costituiscono la parte centrale di un percorso che parte dal mondo prima di Darwin - si riteneva che la Terra avesse soltanto 6.000 anni di vita, una visione sostenuta dal rigido e passatista mondo vittoriano - continua con un Darwin adolescente, ossessionato dai coleotteri. «Suoni e colori diversi accompagnano il visitatore tra una sezione e l’altra - spiega Pievani - non appena si entra nel Viaggio intorno al mondo, dalla Terra del Fuoco all’arcipelago delle Galápagos, è tutto un caleidoscopio di colori». Protagonisti sono gli animali vivi, come l’armadillo e l’iguana verde dell’Amazzonia, o estinti, come il gliptodonte gigante, ricostruito sulle forme del fossile custodito al Museo di storia naturale di Milano.
Il giro prosegue alla volta di Londra: a dominare sono le tonalità grigie, che avvolgono come nebbie i cinque anni in cui Darwin elabora le proprie idee. «Da questo momento si entra nella mente dello scienziato, che comincia a sviscerare i suoi taccuini, rivedendo gli appunti del viaggio», ricorda Niles Eldridge nella prefazione del catalogo della mostra newyorkese del 2005 «Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita», quello disegnato nei taccuini esposti. «In alto a sinistra, in una delle pagine si legge ’I Think’: accelerazioni, ripensamenti evidenziano quanto Darwin sia vicino alla meta», aggiunge Pievani.
Ma esiterà a pubblicare. Sui tentennamenti di Darwin è interessante andare a rileggersi la lettera-risposta del 1844 (esposta nella mostra milanese) spedita dallo stesso scienziato a un collega geologo: «Sono sicuro di aver capito, ma non me la sento di pubblicare il tutto. Sarebbe come confessare un omicidio». Quell’omicidio lo confesserà solo nel 1859, preferendo dedicarsi, fino ad allora, ad anni di studio forsennato chiuso a Down House: d’effetto la ricostruzione a grandezza naturale del suo studio, con libri, microscopio e la celebre poltrona a rotelle su cui trascorse, ormai infermo, gli ultimi anni. «Ma noi non facciamo morire Darwin - conclude Pievani - se a New York l’epilogo erano i funerali, qui si entrerà in una scenografia luminosa, il sandwalk, lo spazio dei pensieri da percorrere per approdare a ’L’evoluzione oggi’, il ritorno al presente».
«L’origine delle specie»? Emozionante come un albo di Tex
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Se il celebre resoconto della sua avventura «sulla regia nave Beagle» era davvero Il viaggio di un naturalista intorno al mondo, quel capolavoro scientifico che è L’origine delle specie è la storia di un viaggio nei labirinti della spiegazione di quello che all’epoca era «il mistero dei misteri»: perché tante forme viventi «bellissime e meravigliose» presentano analogie che risultano inspiegabili, se si crede che ogni specie animale o vegetale sia uscita così com’è, una volta per tutte, dalla volontà del Creatore? Del resto, la migliore definizione dell’Origine delle specie l’ha data Darwin stesso: «un lungo ragionamento » che affianca a ipotesi audaci domande e obiezioni. Spesso sembra di ascoltare Darwin in persona che rimugina tra sé e sé, dubbioso e perplesso. Questo è l’aspetto dell’Origine che mi ha maggiormente colpito fin dalla prima lettura: era l’edizione italiana presentata dal grande biologo Giuseppe Montalenti e pubblicata nella «Universale scientifica» Boringhieri (1967).
Avevo recuperato in un cineforum il film di Stanley Kramer, dedicato al «processo delle scimmie » (1925) in cui era incappato un insegnante di una cittadina del Sud degli Stati Uniti per aver dichiarato ai suoi allievi che l’uomo è parente prossimo degli scimpanzé più che degli angeli. Il titolo della versione italiana era E l’uomo creò Satana, mentre l’originale alludeva alla Bibbia: Eredita il vento (1960). La crosta terrestre «è un grande museo» di reperti fossili, ma le sue collezioni sono «terribilmente incomplete »: perché mai, se le specie non sono fisse, ma derivano da altre attraverso impercettibili gradazioni, non disponiamo di tutte le forme intermedie? E se la natura sottopone a «severo scrutinio» le variazioni del vivente, perché mai tale selezione naturale «produce da una parte un organo di importanza trascurabile come una coda di una giraffa che serve per scacciare le mosche e dall’altra un organo così meraviglioso come l’occhio umano?». Le trappole che avvocati maligni tendono all’imputato nel corso del processo non erano diverse da quelle che, con grande onestà intellettuale, Darwin esponeva come «difficoltà della propria teoria».
A quel punto non mi interessava più se l’imputato se la fosse cavata con i suoi inquisitori, ma come Darwin fosse riuscito a tramutare le pretese confutazioni in vittorie della sua concezione. Era una vicenda affascinante almeno quanto qualsiasi bel racconto d’avventure.
Aspettavo la conclusione con la stessa impazienza con cui di mese in mese attendevo... la nuova puntata di Tex! Darwin aveva compreso che «il tempo profondo» del nostro Globo giustificava le lacune nelle testimonianze fossili. E l’occhio? «Quando per la prima volta fu detto che la Terra gira intorno al Sole, il senso comune del genere umano dichiarò che la dottrina era falsa; ma il vecchio detto Vox populi vox Dei, come ogni filosofo sa, non vale nella scienza. La ragione mi dice che se si può dimostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, tutte utili alla sopravvivenza ed ereditabili da una generazione all’altra, la cosa non è più una smentita della nostra teoria, anche se pare insuperabile per la nostra immaginazione». Ma proprio questo vuol dire liberarsi dai pregiudizi: se non se ne è capaci davvero «eredita il vento »! È un’arte di cui Darwin si rivela, nell’Origine, grande maestro; ma lui con modestia avrebbe detto: «È la mia natura, non posso fare altrimenti». Sembra quasi Lutero alla Dieta di Worms, quando sfidò insieme Papato e Impero. Darwin, invece, si era limitato a contrastare l’ortodossia dominante entro la stessa comunità scientifica, cambiando così la nostra concezione del posto dell’uomo nella natura.
La doppia vita del dottor Charles
Dopo aver girato il pianeta a bordo della Beagle, si ritirò in campagna
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 3.06.2009)
«Rivedere la caduta delle foglie, udire il gorgheggio dei pettirossi come nelle campagne di Shrewsbury, provare ancora la dolce monotonia delle cose consuete, l’assenza delle chiassose novità che affaticano gli occhi e la mente». Scorre il piacere nelle parole di Charles Darwin ricordando l’emozione della vita nella nuova casa di Down. E aggiunge: «È il luogo più tranquillo in cui io abbia mai vissuto. A Est e ad Ovest vi sono delle valli invalicabili, a Sud solo un sentiero molto stretto, e a Nord, attraverso il villaggio , altre due stradicciole: è come se ci trovassimo all’estremo limite del mondo».
È difficile immaginare l’altra anima di Darwin, quella che lo aveva portato ad esplorare veri e remotissimi luoghi del pianeta a bordo della nave Beagle. Eppure quando entra nella palazzina di tre piani immersa nel verde, il ritmo dell’esistenza cambia e tutto il suo orizzonte è segnato dalle piante che vede dalla finestra, dal sentiero che ogni mezzogiorno percorre cinque volte meditando e che per questo lui chiama il «viottolo del pensiero» ma soprattutto dalla famiglia, dalla moglie Emma Wedgwood e dai sette figli che cresce leggendo le favole di Dickens. Altri due bimbi muoiono poco dopo la nascita e uno di questi, appena entrati nella nuova casa di Down.
Poi perderà anche l’amatissima figlia Annie a soli 10 anni di età e la sua scomparsa segnerà ogni giorno seguente preoccupato che il suo matrimonio con la cugina Emma avesse condannato la sorte dei figli. Così non fu, in realtà, perché tutti i sopravvissuti crebbero in salute conquistando talvolta posizioni di prestigio.
Ma dove erano l’ebbrezza che lo aveva portato ad imbarcarsi con i pescatori di ostriche di Newhaven quando era ancora studente o il coraggio di affrontare il lungo periplo del pianeta a bordo della piccola nave comandata da Robert Fitzroy, come il botanico ed entomologo John Stevens Henslow gli aveva suggerito?
Partì dopo gli studi a Cambridge contro il volere del padre che giudicava il viaggio previsto di due anni soltanto una perdita di tempo. Rimase in navigazione cinque anni e al ritorno nel 1836 era già famoso perché durante la spedizione inviava lettere e materiali che venivano fatti conoscere.
La lunga traversata sugli oceani era stata ardua. Non solo perché Darwin soffriva terribilmente il mare, ma anche perché mentre Fitzroy scandagliava i fondali delle coste sudamericane per costruire le nuove mappe ordinate dall’ammiragliato di sua Maestà, Charles scendeva a terra ed esplorava i territori quasi sempre inospitali dai quali rubava i campioni in seguito preziosi per la sua rivoluzionaria teoria.
Al rientro aveva 27 anni e vivendo per lo più a Londra iniziava a dare forma alle sue idee come rivelano i diari. Per poco, però. Intanto scrive del suo viaggio ma la pressione degli impegni lo ammala. Accusa «sconfortanti palpitazioni del cuore» e i medici lo obbligano a sospendere il lavoro. L’anno successivo, nel 1838 sta ancora peggio: mali di stomaco, dolori di testa, cuore alterno; tutti guai che si trascinerà per l’intera vita senza mai scoprirne la causa. Nemmeno le cure, talvolta drastiche e spiacevoli come bagni d’acqua gelida, l’aiuteranno.
Intanto sposa Emma e Londra diventa insopportabile. Con lei cerca casa lungo la nuova linea ferroviaria che gli permetterà di andare in città, se necessario, e tornare in giornata per cenare in famiglia. La troverà nel 1842 appunto nel villaggio di quaranta tetti di Down e in due ore poteva sedersi alle riunioni della Royal Society quando serviva.
Nella quiete delle stanze piene di libri, carte e giochi dei bambini definisce scrive «L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale». Ma chiuso nel suo piccolo mondo non è intenzionato a parlarne perché ne teme le conseguenze. Si rende conto di quanto le sue intuizioni fossero rivoluzionarie. Le darà alle stampe soltanto nel 1859 quando scopre che il più giovane Russel Wallace, anche lui dopo un viaggio avventuroso, era giunto alle sue stesse conclusioni.
E come era facilmente intuibile l’anno successivo inizieranno gli attacchi del vescovo Samuel Wilberforce che giudicava la teoria un’idea eretica perché contro la creazione. In quel momento nasceva il creazionismo tutt’ora forte e a sua volta evoluto nel tempo per contrastare la rivoluzione darwiniana.
Accanto alla casa Charles costruirà una piccola serra con piante tropicali e altri reperti: era il suo laboratorio domestico, forse l’angolo dei ricordi. E tra quelle pareti e quelle passeggiate trascorrerà quarant’anni distaccato dal clamore che i suoi scritti scatenavano. A Londra andava sempre meno, solo nelle occasioni eccezionali e l’unica concessione era un liquorino dopo cena fino a che i medici non glielo proibivano. Non amava i conflitti e le discussioni in pubblico sempre più frequenti soprattutto dopo la pubblicazione «Sull’origine dell’uomo» che portava allo scoperto l’evoluzione umana nel contesto naturale e il suo legame con i primati. Immerso nel verde e nel silenzio di Down House si sentiva protetto.
Ne uscirà solo nel 1882 quando moriva a 73 anni e il suo corpo era sepolto nell’Abbazia di Westminster accanto ad un altro grande rivoluzionario, Isaac Newton, che prima di lui aveva sconvolto, ma con minori conflitti, i cieli.
«L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi»
Un poema sullo scienziato
E il nonno Erasmus mi ha insegnato la polifonia culturale
di Luigi Trucillo (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Come nasce un libro? Basandomi sulla mia ultima esperienza direi che bisogna sempre fare affidamento sui nonni, intesi qualche volta come antichi maestri. Cioè, in altri termini, sulla catena delle affabulazioni. A prescindere dall’ammirazione per i suoi scritti, infatti, probabilmente la prima idea di scrivere un libro di poesie su Darwin mi è balenata scoprendo che il nonno, il medico Erasmus Darwin, oltre a inventare i pozzi artesiani aveva rappresentato in versi la teoria dell’evoluzione di Lamarck. Se quell’approccio alla scienza era stato possibile allora, perché non riprovarci adesso? Sappiamo che l’attrazione che la natura esercita sulla psiche umana è innata e si definisce biofilia: come lasciar cadere la possibilità di una sua rappresentazione estetica? A ben guardare, le intuizioni di Darwin fanno capolino dappertutto, quindi anche all’interno della poesia. Certo, non tutto è stato semplice, credo che per ogni scrittore sia stranissimo calarsi nell’opera di uno scienziato, perché si vede costretto a fare i conti con un tessuto di teorie sistematiche percepite dalla scrittura come una materia sottile del linguaggio, una specie di sostanza segreta già apparentemente confezionata che germoglia di nuovo nella propria elaborazione.
L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi. Ne ho fatto quasi un’epica profonda, e mi sembrava interessante riversare la spaziosità di quest’epica contro l’idea di controllo così incombente nelle scienze applicate. E Darwin con la sua natura stupita e profondamente democratica era evidentemente un esploratore più che un erogatore di controllo. Secondo me, ad esempio, la sua idea di ereditarietà che allude nel tempo all’asse familiare evoca, attraverso la teoria delle piccole progressioni del cambiamento, un sistema orizzontale, di passaggio fraterno, opposto in ultima analisi alla verticalità edipica e metafisica attribuita di norma alla trasmissione. La metamorfosi come elemento fraterno: non è questa un’idea bellissima, vicina in qualche misura al fondamento della poesia? Non è il barlume di una speranza non gerarchica? E gli scienziati, quelli veri, non sono immersi nell’elemento creativo? Per me quindi valeva la pena tentare di aprire la materia di una teoria scientifica all’apporto di alcuni elementi classici come la tragedia, il mito, la metafora, cercando a tentoni il varco verso un’epistemologia inconscia. Del resto proprio uno scienziato, Bateson, elaborando la sua fittissima struttura che connette ha parlato di una complessità organizzativa del vivente che non consente meccanicismi. E ha invitato a una metaforizzazione della scienza. Io non ho fatto altro nei miei versi che imbucarmi in quest’idea di polifonia culturale. Ha detto Bateson che «la natura pensa per storie, racconta storie». E l’evoluzione allora non è per noi poeti una versione delle Mille e una notte che le specie si raccontano per non morire? Alla fine nella teoria di Darwin circola un ascolto profondo delle leggi naturali che è anche un invito all’apertura, all’attenzione verso ciò che ci appare, nudo, dinanzi. Per chi sa respirare i mutamenti è un percorso verso la riconciliazione. (Con «Darwin», Quodlibet, Trucillo ha vinto il Premio Napoli per la poesia 2009)