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Natura e Cultura. Ricerca scientifica ...

EVOLUZIONISMO. La teoria di Charles Darwin si evolve ancora e finisce su internet. Una nota di Alessia Grossi - a cura di Federico La Sala

sabato 19 aprile 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] online la prima bozza della rivoluzionaria teoria sull’evoluzione e altri documenti di Darwin consultabili gratuitamente grazie ad un’iniziativa dell’università di Cambridge.
L’obiettivo è quello di far conoscere meglio e su scala planetaria il pensiero di uno scienziato che «ha cambiato la nostra comprensione della natura».
Oltre ai documenti d’archivio - circa 20mila - il sito di Darwin rende possibile l’accesso a circa novantamila fotografie dello scienziato e la sua opera [...] (...)

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> EVOLUZIONISMO. ---- dopo la tappa a Roma, a Milano la mostra: «Darwin 1809-2009» ... presenta, tra l’altro, alcune lette­re della corrispondenza tra lo scienziato in­glese e i colleghi milanesi. Su tutti: Giovan­ni Omboni, Angelo Andres e Tito Vignoli.

mercoledì 3 giugno 2009

Darwin il milanese

Decisivi i legami tra la città e «il Galileo della biologia»

di Peppe Aquaro (Corriere della Sera, 3.06.2009)

Conosciuto, senz’altro. Qualche volta contestato, quasi sempre sostenuto. Charles Darwin non fece mai tappa a Mila­no (la moglie, Emma Wedgwood, sì, parti­colare, forse, che di scientifico ha ben po­co), ma i contatti tra lo scienziato e il mon­do accademico meneghino risultarono de­cisivi per lo sviluppo della teoria dell’evo­luzione delle specie. Lo mette in evidenza la mostra «Darwin 1809-2009», promossa dal Comune di Milano, prodotta da Palaz­zo Reale, «Codice. Idee per la cultura» e Ci­vita, con la partnership di Intesa Sanpaolo, che da domani al 25 ottobre approda nel capoluogo lombardo, alla Rotonda della Besana, dopo la tappa a Roma.

L’esposizione - mille metri quadrati, più ampia della prima versione curata a New York da Niles Eldredge e Ian Tatter­sall, prosecutori dell’opera del genio bri­tannico - presenta, tra l’altro, alcune lette­re della corrispondenza tra lo scienziato in­glese e i colleghi milanesi. Su tutti: Giovan­ni Omboni, Angelo Andres e Tito Vignoli. Tra le chicche, una delle primissime segna­lazioni, sulla rivista milanese «Il Politecni­co » del 1860, un anno dopo la pubblicazio­ne, di «On the Origin of Species», di cui è mostrata anche l’edizione originale (ne fu­rono stampate solo 2.500 copie), prestata al Museo di storia naturale di Milano. A Vi­gnoli, storico direttore del Museo, appar­tiene la sentita commemorazione funebre del celebre scienziato (1882): «Egli è certa­mente e sarà il più grande uomo del no­stro secolo, e come io ebbi l’onore di scri­vergli qualche anno fa, egli è il Galileo del­le scienze biologiche». Pochi anni prima, sempre lo stesso museo aveva battuto sul tempo la concorrenza di Modena e Napoli, nominando Darwin socio onorario.

«Quando si parla di Darwin e dei suoi rapporti con il mondo italiano, non si trat­ta soltanto di analogie fra studiosi, ma di vere e proprie anticipazioni alle teorie darwiniane - osserva Eldredge - come quella del geologo bassanese Giambattista Brocchi il quale, già a inizio Ottocento, af­fermava che le specie nascono, hanno una storia e alla fine muoiono». Una scoperta nella scoperta, il rapporto tra l’Italia e Darwin. «Nel 1879 lo scienzia­to riceve il premio Bressa, e lui che fa? Ne devolve il ricavato alla Stazione zoologica di Napoli», ricorda Telmo Pievani, filosofo della scienza, allievo di Eldredge e Tatter­sall e curatore della mostra che vuole esse­re essenzialmente un omaggio alla figura di Darwin e all’importanza della scoperta scientifica.

Il viaggio del visitatore alla ricerca delle proprie origini è lo stesso di quello com­piuto dal naturalista inglese, dal 1831 al 1835, a bordo del brigantino Beagle. Quei cinque anni che sconvolgeranno il mondo scientifico costituiscono la parte centrale di un percorso che parte dal mondo prima di Darwin - si riteneva che la Terra aves­se soltanto 6.000 anni di vita, una visione sostenuta dal rigido e passatista mondo vittoriano - continua con un Darwin ado­lescente, ossessionato dai coleotteri. «Suo­ni e colori diversi accompagnano il visita­tore tra una sezione e l’altra - spiega Pie­vani - non appena si entra nel Viaggio in­torno al mondo, dalla Terra del Fuoco al­l’arcipelago delle Galápagos, è tutto un ca­leidoscopio di colori». Protagonisti sono gli animali vivi, come l’armadillo e l’igua­na verde dell’Amazzonia, o estinti, come il gliptodonte gigante, ricostruito sulle for­me del fossile custodito al Museo di storia naturale di Milano.

Il giro prosegue alla volta di Londra: a dominare sono le tonalità grigie, che avvol­gono come nebbie i cinque anni in cui Darwin elabora le proprie idee. «Da questo momento si entra nella mente dello scien­ziato, che comincia a sviscerare i suoi tac­cuini, rivedendo gli appunti del viaggio», ricorda Niles Eldridge nella prefazione del catalogo della mostra newyorkese del 2005 «Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita», quello disegnato nei taccuini esposti. «In alto a sinistra, in una delle pa­gine si legge ’I Think’: accelerazioni, ripen­samenti evidenziano quanto Darwin sia vi­cino alla meta», aggiunge Pievani.

Ma esiterà a pubblicare. Sui tentenna­menti di Darwin è interessante andare a ri­leggersi la lettera-risposta del 1844 (espo­sta nella mostra milanese) spedita dallo stesso scienziato a un collega geologo: «So­no sicuro di aver capito, ma non me la sen­to di pubblicare il tutto. Sarebbe come con­fessare un omicidio». Quell’omicidio lo confesserà solo nel 1859, preferendo dedi­carsi, fino ad allora, ad anni di studio for­sennato chiuso a Down House: d’effetto la ricostruzione a grandezza naturale del suo studio, con libri, microscopio e la celebre poltrona a rotelle su cui trascorse, ormai infermo, gli ultimi anni. «Ma noi non fac­ciamo morire Darwin - conclude Pievani - se a New York l’epilogo erano i funerali, qui si entrerà in una scenografia lumino­sa, il sandwalk, lo spazio dei pensieri da percorrere per approdare a ’L’evoluzione oggi’, il ritorno al presente».


L’opera è un «lungo ragionamento» che, fra ipotesi e audaci domande, si addentra nel labirinto del mistero dei misteri

«L’origine delle specie»? Emozionante come un albo di Tex

di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 3.06.2009)

Se il celebre resoconto della sua avventura «sulla regia nave Beagle» era davvero Il viaggio di un naturalista intorno al mondo, quel capolavo­ro scientifico che è L’origine delle specie è la storia di un viaggio nei labirinti della spiegazione di quel­lo che all’epoca era «il mistero dei misteri»: perché tante forme vi­venti «bellissime e meravigliose» presentano analogie che risultano inspiegabili, se si crede che ogni specie animale o vegetale sia usci­ta così com’è, una volta per tutte, dalla volontà del Creatore? Del re­sto, la migliore definizione del­l’Origine delle specie l’ha data Darwin stesso: «un lungo ragiona­mento » che affianca a ipotesi au­daci domande e obiezioni. Spesso sembra di ascoltare Darwin in per­sona che rimugina tra sé e sé, dub­bioso e perplesso. Questo è l’aspetto dell’Origine che mi ha maggiormente colpito fin dalla prima lettura: era l’edizione italia­na presentata dal grande biologo Giuseppe Montalenti e pubblicata nella «Universale scientifica» Bo­ringhieri (1967).

Avevo recuperato in un cinefo­rum il film di Stanley Kramer, de­dicato al «processo delle scim­mie » (1925) in cui era incappato un insegnante di una cittadina del Sud degli Stati Uniti per aver dichiarato ai suoi allievi che l’uo­mo è parente prossimo degli scimpanzé più che degli angeli. Il titolo della versione italiana era E l’uomo creò Satana, mentre l’ori­ginale alludeva alla Bibbia: Eredi­ta il vento (1960). La crosta terre­stre «è un grande museo» di re­perti fossili, ma le sue collezioni sono «terribilmente incomple­te »: perché mai, se le specie non sono fisse, ma derivano da altre attraverso impercettibili gradazio­ni, non disponiamo di tutte le for­me intermedie? E se la natura sot­topone a «severo scrutinio» le va­riazioni del vivente, perché mai tale selezione naturale «produce da una parte un organo di impor­tanza trascurabile come una coda di una giraffa che serve per scac­ciare le mosche e dall’altra un or­gano così meraviglioso come l’oc­chio umano?». Le trappole che av­vocati maligni tendono all’impu­tato nel corso del processo non erano diverse da quelle che, con grande onestà intellettuale, Darwin esponeva come «difficol­tà della propria teoria».

A quel punto non mi interessa­va più se l’imputato se la fosse ca­vata con i suoi inquisitori, ma co­me Darwin fosse riuscito a tra­mutare le pretese confutazioni in vittorie della sua concezione. Era una vicenda affascinante almeno quanto qualsiasi bel racconto d’avventure.

Aspettavo la conclu­sione con la stessa impazienza con cui di mese in mese attende­vo... la nuova puntata di Tex! Darwin aveva compreso che «il tempo profondo» del nostro Glo­bo giustificava le lacune nelle te­stimonianze fossili. E l’occhio? «Quando per la prima volta fu detto che la Terra gira intorno al Sole, il senso comune del genere umano dichiarò che la dottrina era falsa; ma il vecchio detto Vox populi vox Dei, come ogni filoso­fo sa, non vale nella scienza. La ragione mi dice che se si può di­mostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio sempli­ce e imperfetto a uno complesso e perfetto, tutte utili alla soprav­vivenza ed ereditabili da una ge­nerazione all’altra, la cosa non è più una smentita della nostra teo­ria, anche se pare insuperabile per la nostra immaginazione». Ma proprio questo vuol dire libe­rarsi dai pregiudizi: se non se ne è capaci davvero «eredita il ven­to »! È un’arte di cui Darwin si ri­vela, nell’Origine, grande mae­stro; ma lui con modestia avreb­be detto: «È la mia natura, non posso fare altrimenti». Sembra quasi Lutero alla Dieta di Worms, quando sfidò insieme Papato e Impero. Darwin, invece, si era li­mitato a contrastare l’ortodossia dominante entro la stessa comu­nità scientifica, cambiando così la nostra concezione del posto dell’uomo nella natura.


Il naturalista trascorse il resto dei suoi anni nella quiete di Down, un borgo di quaranta case

La doppia vita del dottor Charles

Dopo aver girato il pianeta a bordo della Beagle, si ritirò in campagna

di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 3.06.2009)

«Rivedere la caduta delle foglie, udire il gorgheggio dei pettirossi come nelle campagne di Shrewsbury, provare ancora la dolce monoto­nia delle cose consuete, l’assenza delle chiassose novità che affatica­no gli occhi e la mente». Scorre il piacere nelle parole di Charles Darwin ricordando l’emozione del­la vita nella nuova casa di Down. E aggiunge: «È il luogo più tranquil­lo in cui io abbia mai vissuto. A Est e ad Ovest vi sono delle valli invalicabili, a Sud solo un sentiero molto stretto, e a Nord, attraverso il villaggio , altre due stradicciole: è come se ci trovassimo all’estre­mo limite del mondo».

È difficile immaginare l’altra anima di Darwin, quella che lo aveva porta­to ad esplorare veri e re­motissimi luoghi del pia­neta a bordo della nave Beagle. Eppure quando entra nella palazzina di tre piani immersa nel ver­de, il ritmo dell’esistenza cambia e tutto il suo oriz­zonte è segnato dalle piante che vede dalla finestra, dal sentiero che ogni mezzogiorno percorre cinque volte meditando e che per questo lui chiama il «viottolo del pensiero» ma soprattutto dalla fa­miglia, dalla moglie Emma We­dgwood e dai sette figli che cresce leggendo le favole di Dickens. Al­tri due bimbi muoiono poco dopo la nascita e uno di questi, appena entrati nella nuova casa di Down.

Poi perderà anche l’amatissima figlia Annie a soli 10 anni di età e la sua scomparsa segnerà ogni giorno seguente preoccupato che il suo matrimonio con la cugina Emma avesse condannato la sorte dei figli. Così non fu, in realtà, per­ché tutti i sopravvissuti crebbero in salute conquistando talvolta po­sizioni di prestigio.

Ma dove erano l’ebbrezza che lo aveva portato ad imbarcarsi con i pescatori di ostriche di Newhaven quando era ancora studente o il co­raggio di affrontare il lungo peri­plo del pianeta a bordo della picco­la nave comandata da Robert Fi­tzroy, come il botanico ed entomo­logo John Stevens Henslow gli ave­va suggerito?

Partì dopo gli studi a Cambrid­ge contro il volere del padre che giudicava il viaggio previsto di due anni soltanto una perdita di tempo. Rimase in navigazione cin­que anni e al ritorno nel 1836 era già famoso perché durante la spe­dizione inviava lettere e materiali che venivano fatti conoscere.

La lunga traversata sugli ocea­ni era stata ardua. Non solo per­ché Darwin soffriva terribilmente il mare, ma anche perché mentre Fitzroy scandagliava i fondali del­le coste sudamericane per costrui­re le nuove mappe ordinate dal­l’ammiragliato di sua Maestà, Charles scendeva a terra ed esplo­rava i territori quasi sempre ino­spitali dai quali rubava i campio­ni in seguito preziosi per la sua ri­voluzionaria teoria.

Al rientro aveva 27 anni e viven­do per lo più a Londra iniziava a dare forma alle sue idee come rive­lano i diari. Per poco, però. Intan­to scrive del suo viaggio ma la pressione degli impegni lo amma­la. Accusa «sconfortanti palpitazio­ni del cuore» e i medici lo obbliga­no a sospendere il lavoro. L’anno successivo, nel 1838 sta ancora peggio: mali di stomaco, dolori di testa, cuore alterno; tutti guai che si trascinerà per l’intera vita senza mai scoprirne la causa. Nemmeno le cure, talvolta drastiche e spiace­voli come bagni d’acqua gelida, l’aiuteranno.

Intanto sposa Emma e Londra diventa insopportabile. Con lei cerca casa lungo la nuova linea fer­roviaria che gli permetterà di an­dare in città, se necessario, e tor­nare in giornata per cenare in fa­miglia. La troverà nel 1842 appun­to nel villaggio di quaranta tetti di Down e in due ore poteva sedersi alle riunioni della Royal Society quando serviva.

Nella quiete delle stanze piene di libri, carte e giochi dei bambini definisce scrive «L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale». Ma chiuso nel suo pic­colo mondo non è intenzionato a parlarne perché ne teme le conse­guenze. Si rende conto di quanto le sue intuizioni fossero rivoluzio­narie. Le darà alle stampe soltanto nel 1859 quando scopre che il più giovane Russel Wallace, anche lui dopo un viaggio avventuroso, era giunto alle sue stesse conclusioni.

E come era facilmente intuibile l’anno successivo inizieranno gli attacchi del vescovo Samuel Wil­berforce che giudicava la teoria un’idea eretica perché contro la creazione. In quel momento nasce­va il creazionismo tutt’ora forte e a sua volta evoluto nel tempo per contrastare la rivoluzione darwiniana.

Accanto alla casa Charles co­struirà una piccola serra con pian­te tropicali e altri reperti: era il suo laboratorio domestico, forse l’an­golo dei ricordi. E tra quelle pareti e quelle passeggiate trascorrerà quarant’anni distaccato dal clamo­re che i suoi scritti scatenavano. A Londra andava sempre meno, solo nelle occasioni eccezionali e l’uni­ca concessione era un liquorino dopo cena fino a che i medici non glielo proibivano. Non amava i conflitti e le discussioni in pubbli­co sempre più frequenti soprattut­to dopo la pubblicazione «Sull’ori­gine dell’uomo» che portava allo scoperto l’evoluzione umana nel contesto naturale e il suo legame con i primati. Immerso nel verde e nel silenzio di Down House si sen­tiva protetto.

Ne uscirà solo nel 1882 quando moriva a 73 anni e il suo corpo era sepolto nell’Abbazia di Westmin­ster accanto ad un altro grande ri­voluzionario, Isaac Newton, che prima di lui aveva sconvolto, ma con minori conflitti, i cieli.


«L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi»

Un poema sullo scienziato

E il nonno Erasmus mi ha insegnato la polifonia culturale

di Luigi Trucillo (Corriere della Sera, 3.06.2009)

Come nasce un libro? Basandomi sulla mia ultima espe­rienza direi che bisogna sempre fare affidamento sui nonni, intesi qualche volta come antichi maestri. Cioè, in altri termini, sulla catena delle affabulazioni. A pre­scindere dall’ammirazione per i suoi scritti, infatti, probabilmen­te la prima idea di scrivere un libro di poesie su Darwin mi è bale­nata scoprendo che il nonno, il medico Erasmus Darwin, oltre a inventare i pozzi artesiani aveva rappresentato in versi la teoria dell’evoluzione di Lamarck. Se quell’approccio alla scienza era sta­to possibile allora, perché non riprovarci adesso? Sappiamo che l’attrazione che la natura esercita sulla psiche umana è innata e si definisce biofilia: come lasciar cadere la possibilità di una sua rap­presentazione estetica? A ben guardare, le intuizioni di Darwin fanno capolino dappertutto, quindi anche all’interno della poesia. Certo, non tutto è stato semplice, credo che per ogni scrittore sia stranissimo calarsi nell’opera di uno scienziato, perché si vede co­stretto a fare i conti con un tessuto di teorie sistematiche percepi­te dalla scrittura come una materia sottile del linguaggio, una spe­cie di sostanza segreta già apparentemente confezionata che ger­moglia di nuovo nella propria elaborazione.

L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi. Ne ho fatto quasi un’epica profonda, e mi sembrava interessante riversare la spaziosità di quest’epica contro l’idea di con­trollo così incombente nelle scienze applicate. E Darwin con la sua natu­ra stupita e profondamente demo­cratica era evidentemente un esplo­ratore più che un erogatore di con­trollo. Secondo me, ad esempio, la sua idea di ereditarietà che allude nel tempo all’asse familiare evoca, attraverso la teoria delle piccole pro­gressioni del cambiamento, un siste­ma orizzontale, di passaggio frater­no, opposto in ultima analisi alla ver­ticalità edipica e metafisica attribui­ta di norma alla trasmissione. La me­tamorfosi come elemento fraterno: non è questa un’idea bellissima, vicina in qualche misura al fon­damento della poesia? Non è il barlume di una speranza non gerarchica? E gli scienziati, quelli veri, non sono immersi nel­l’elemento creativo? Per me quindi valeva la pena tentare di aprire la materia di una teoria scientifica all’apporto di alcuni elementi classici come la tragedia, il mito, la metafora, cercan­do a tentoni il varco verso un’epistemologia inconscia. Del re­sto proprio uno scienziato, Bateson, elaborando la sua fittissi­ma struttura che connette ha parlato di una complessità orga­nizzativa del vivente che non consente meccanicismi. E ha invi­tato a una metaforizzazione della scienza. Io non ho fatto altro nei miei versi che imbucarmi in quest’idea di polifonia cultura­le. Ha detto Bateson che «la natura pensa per storie, racconta storie». E l’evoluzione allora non è per noi poeti una versione delle Mille e una notte che le specie si raccontano per non mori­re? Alla fine nella teoria di Darwin circola un ascolto profondo delle leggi naturali che è anche un invito all’apertura, all’atten­zione verso ciò che ci appare, nudo, dinanzi. Per chi sa respira­re i mutamenti è un percorso verso la riconciliazione. (Con «Darwin», Quodlibet, Trucillo ha vinto il Premio Napoli per la poesia 2009)


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