La grande Antigone ritradotta propone la verità della «pietas»
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 07.06.2008)
Una ragazza affronta la morte per non tradire la pietà verso i defunti: ha infranto il divieto di seppellire il corpo di un traditore, quello del fratello, caduto combattendo contro la sua stessa patria. Lo fa per impulso di coscienza, ma anche per un dovere sancito da leggi non scritte: quelle divine, della pietas, immutabili, in contrasto con quelle umane personificate dal re di Tebe.
Sì, è la trama dell’Antigone di Sofocle: l’individuazione di cosa è assoluto dentro una coscienza libera .E dove possiamo leggere un conflitto aperto 25 secoli dopo: le norme visibili scritte e quelle invisibili, incise nell’anima; le ragioni della giustizia e la ragion di stato; i valori della collettività e della famiglia, della ragione e del cuore, della natura e della cultura, la logica dello status quo e della disobbedienza innovatrice. Concepito in un periodo di pace, fra le guerre persiane e quella del Peloponneso, il capolavoro lascia spazio a tante chiavi ermeneutiche: tra, politica, etica, religione, e...diritto. Perché è legge il nomos della polis o dell’agorà, ma lo sono anche i valori dell’oikos, la giustizia di Dike.
Perché il fluire della vita dentro la città ha bisogno di patti sociali, ma prima degli artifici caduchi viene la pre-potenza dell’animo. Ecco perché i profili disegualmente tragici di Creonte e di Antigone si stagliano anche al nostro orizzonte e questo testo della civiltà ateniese del V° secolo, continua a parlarci ai giorni nostri (anche quando c’interroghiamo sul Potere). Ha scritto Giovanni Raboni che «tradurre un simile capolavoro, dare a questa eterna e terribile querelle le parole della propria lingua (...), è un’impresa talmente temeraria che la si può compiere solo in uno stato di euforica incoscienza». Eppure è lunga la catena dei temerari (vengono in mente Hölderlin ed Ettore Romagnoli, Filippo Maria Pontani o Giovanni Cerri, Massimo Cacciari e lo stesso Raboni...). Raramente altri testi hanno sedotto tanti intellettuali e studiosi. Non ha resistito neanche Gian Enrico Manzoni, docente dell’Università Cattolica e autore di saggi su Omero e Sofocle, Virgilio e Ovidio. Il quale però ha saputo resistere alle opposte tentazioni dell’arcaismo o dell’attualizzazione. Ed ecco allora - testo greco a fronte - una versione che si rivela godibile da un largo pubblico, al quale il traduttore offre qui una pregevole introduzione, un’annotazione sobria e alcune appendici. Corredi che accennano osservazioni linguistiche, vagliano attestazioni storico-letterarie, decodificano velate allusioni, ma soprattutto ci mostrano l’uomo: del quale «nulla è più grandioso e terribile » ( deinóteron). L’uomo, ovvero colui che al contempo è éupolis (fa grande la patria) e ápolis (senza patria), pantopóros (capace di tutto dal punto di vista del movimento) e áporos (incapace di muoversi, bloccato). Ed è la condizione umana ciò che resta oltre la tessitura linguistica della traduzione, l’andamento dialettico senza conciliazione della tragedia, oltre la valenza