Le tante versioni del populismo
Armato in Russia, rurale negli Usa
Ma solo con Perón diventò un regime
di Giovanni Belardinelli (Corriere La Lettura, 20.01.2013)
Da qualche anno il termine populismo viene utilizzato sempre più spesso per definire alcune tendenze e formazioni politiche presenti nelle democrazie europee contemporanee. Ma non è stata l’Europa, o meglio non è stata l’Europa occidentale, il centro dei populismi «storici». Il primo movimento populista nacque negli anni Settanta del XIX secolo in Russia, per opera di un gruppo di giovani intellettuali i quali consideravano l’immensa massa dei contadini come il vero soggetto rivoluzionario, che avrebbe consentito al Paese di modernizzarsi senza seguire il modello occidentale.
I populisti pensavano infatti che sulle comuni rurali ancora esistenti nelle campagne russe si potesse fondare una soluzione della questione sociale tale da non dover passare per lo sviluppo capitalistico. Animati da una grande fiducia nelle qualità anche morali del contadino russo, molti di loro andarono «verso il popolo»: si trasferirono nei villaggi come maestri, medici, bottegai, sperando di risvegliare chi vi abitava da un sonno secolare. Ma i contadini non sembravano affatto interessati alla loro predicazione; negli anni seguenti una parte del movimento populista puntò a combatterne la passività attraverso azioni esemplari di tipo terroristico contro il potere zarista. E nel 1881 un gruppo di populisti riuscì effettivamente a uccidere lo zar Alessandro II.
Un decennio dopo nasceva negli Stati Uniti il Partito populista (People’s Party), protagonista di un movimento che condivideva con quello russo la centralità delle campagne, ma aveva per il resto caratteri molto diversi. Anche il populismo degli Stati Uniti esaltava il lavoro e l’etica del farmer come base della società americana. Ma soprattutto dava voce alla protesta degli agricoltori del Sud e dell’Ovest contro il potere industriale e finanziario dell’Est, contro le compagnie ferroviarie, contro il governo non abbastanza sollecito verso i problemi del mondo contadino.
Inizialmente il People’s Party ebbe un grande seguito, tanto da far ritenere che potesse seriamente minacciare l’assetto duopolistico della politica americana: nelle elezioni presidenziali del 1892, nelle quali il presidente Cleveland riuscì eletto con cinque milioni e mezzo di voti, il candidato dei populisti ottenne la ragguardevole cifra di un milione di suffragi. Nel giro d’una decina d’anni il Partito populista sarebbe scomparso dalla scena. Ma nella sua piattaforma e nei suoi slogan si trovavano temi che da allora sarebbero più volte ricomparsi nella politica americana e non solo: dalla polemica contro Wall Street, vera padrona del Paese, alla denuncia della rovina morale della nazione, dalla battaglia contro i grandi monopoli alla necessità di combattere una politica intimamente corrotta. Il tutto in una miscela ideologica che affiancava spirito della frontiera e ideali democratici di stampo jeffersoniano a una forte diffidenza verso neri, ebrei e immigrati più recenti.
Nel corso del Novecento sarebbe stata l’America Latina la patria del populismo, che qui arrivò a caratterizzare non più soltanto dei movimenti, ma dei regimi politici, assumendo - a differenza dei populismi russo e statunitense - il carattere di un fenomeno in primo luogo urbano.
L’esperienza più significativa fu senza dubbio quella argentina di Juan Domingo Perón negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Per la centralità del rapporto tra il capo e le masse, per la presenza di tratti autoritari uniti a un forte consenso elettorale (nel 1946 Perón ottenne il 56 per cento dei suffragi), per la miscela di nazionalismo e politiche sociali, il peronismo è considerato infatti come l’idealtipo del populismo latinoamericano.
Quanto ai più recenti populismi europei, è indubbio che essi riprendano alcuni caratteri dei populismi storici: in primo luogo l’esaltazione del rapporto diretto tra il leader e le masse, la polemica contro la corruzione e contro il distacco tra governanti e governati. Si inseriscono però in un contesto radicalmente nuovo, che è quello dello svuotamento della democrazia rappresentativa di fronte alla globalizzazione, alla formazione di istituzioni sovranazionali, alla crisi dei partiti e delle ideologie che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Per molti aspetti, dunque, il populismo contemporaneo non è solo un nemico della democrazia, ma anche la conseguenza delle trasformazioni, delle incognite, dei rischi che essa si trova a dover affrontare nel nuovo secolo.