Inviare un messaggio

In risposta a:
Approfondimenti

Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda - a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 31 agosto 2005 di Emiliano Morrone
BASAGLIA
Oltre i vincoli del possibile
Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la (...)

In risposta a:

>FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. -- DIRITTI: TERAPIE CONTROVERSE. Elettroshock.

martedì 22 agosto 2017

Diritti

Terapie controverse

Elettroshock

In Italia ogni anno sono almeno 300 i malati mentali gravi curati con le scariche elettriche. E il mondo accademico si divide

di Gianna Milano (l’Espresso, 20 agosto 2017)

      • «È come dare un colpo a una radio rotta: una volta su dieci ottieni qualcosa, le altre nove fai un danno peggiore» diceva Franco Basaglia nel 1978

Ogni lunedì, mercoledì e venerdì, per tutti i mesi dell’anno, all’ospedale Montichiari di Brescia accompagno i pazienti che fanno la Tec, ovvero la terapia elettroconvulsivante, nota come elettroshock. Luca è giovane, schizofrenico ma è fortunato perché ha scoperto per tempo di soffrire di un disturbo mentale e può curarsi senza buttare via anni di vita. A me non è andata così, io di anni ne ho persi tanti, senza sapere perché stessi in un certo modo. Nel 1973, a sei anni ho tentato il suicidio per la prima volta. Nei trenta anni successivi, ci sono stati altri nove tentativi di suicidio e stati maniacali, prima che qualcuno mi dicesse che ero bipolare. Avevo 37 anni. È il 2010 quando per la prima volta percorro il corridoio che conduce alla sala del day hospital, dove faccio le Tec. Ci ritornerò altre tre volte nei tre anni successivi. Mi sono liberato dal fardello della sofferenza: la terapia mi ha restituito la lucidità, e mi ha fatto tornare la voglia di vivere». Questa è la storia di Giampietro Ferrari, "utente esperto" che oggi con l’associazione AITEC-Etica cerca di informare «su quello che erroneamente si chiama elettroshock».

Una tecnica terapeutica che ha conosciuto fasi alterne: sperimentata per la prima volta nel 1938 da due neuropsichiatri italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, induce una crisi convulsiva con un passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello per curare le malattie mentali. Accolta con entusiasmo negli anni ’40 e usata fino a metà degli anni ’60 la Pushbotton Psychiatry, come la definì un libro del 2002 sulla storia culturale dell’elettroshock in America, venne poi soppiantata dall’avvento della psicofarmacologia e solo verso la fine degli anni ’80 ha conosciuto un revival. Di cui poco si sa.

La psichiatria sociale su modello basagliano lo considera un trattamento obsoleto se non peggio: simbolo di una visione della malattia mentale legata al passato che porta all’annullamento dell’individuo. Repressiva e inumana. Un punto di vista condiviso anche dall’opinione pubblica che ricorda immagini brutali di film come "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e "La fossa dei serpenti". «L’elettroshock di oggi è diverso da quello presente nell’immaginario collettivo e molto meno traumatizzante sul piano emotivo. Lo si pratica secondo linee guida internazionali: in anestesia totale, con una dose di corrente molto bassa (inferiore a 5 volt) che stimola il cervello per pochi secondi (al massimo 6 o 8), e che ottiene una crisi convulsiva di 30-40 secondi. Gli elettrodi sono applicati sulla fronte sinistra e la tempia destra o bilateralmente (a seconda della patologia) e i parametri variano da un paziente all’altro», spiega Giuseppe Fàzzari, psichiatra che dirige l’Unità Operativa di Psichiatria agli Spedali Civili di Brescia, uno dei centri in cui si fa la Tec in Italia. In teoria fra cliniche private e strutture pubbliche i centri sono 16, ma dove lo si fa davvero sono forse la metà e i pazienti circa 300 l’anno.
-  «Quando a Milano mi sono specializzato in psichiatria ero contrario all’elettroshock, poi nel 1991 capitò qui una giovane con una depressione grave e disturbi psicotici post partum. Parlava di suicidio e i farmaci non le facevano granché. Decisi di provare e, con il suo consenso, fu sottoposta a 8 trattamenti. Il risultato fu sorprendente. Altri casi seguirono: riuscii a ottenere attraverso una donazione un apparecchio moderno per la Tec e convinsi direttore sanitario e comitato etico ad accreditare l’ospedale per questi trattamenti» continua Fàzzari. Era il 2005.
-  I casi nei quali la letteratura scientifica concorda sui risultati ottenuti dall’elettroshock sono le depressioni gravi con alto rischio di suicidio resistenti ai farmaci, e le forme maniacali o miste che non rispondono alle terapie. L’esperienza clinica ne ha poi dimostrato l’efficacia in altri disturbi mentali, come schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, sindrome ossessivo-compulsiva non rispondenti alle terapie. Una meta-analisi, ossia una revisione sistematica di diversi studi eseguiti per valutare efficacia e sicurezza della Tec (Ect, l’acronimo in inglese) pubblicata su Lancet, una delle riviste mediche più autorevoli, concludeva nel 2003 che il trattamento era «probabilmente più efficace dei farmaci nella depressione».
-  «Di solito all’elettroshock ci si arriva dopo anni di tentativi falliti: abbiamo provato di tutto perché non la Tec. I medici di base, ma anche gli psicologi e gli psichiatri ne sanno poco. All’università non se ne parla e non lo si insegna», dice Alessandra Minelli, psicoterapeuta dell’Università di Brescia. A riconoscerne l’efficacia sono l’American Psychiatric Association, l’American Medical Association, il National Institute of Mental Health, la Food and Drug Administration, e le corrispondenti organizzazioni in Canada, Gran Bretagna e altri Paesi europei.

Nel mondo si stima siano 2 milioni le persone sottoposte a Tec e solo negli Usa 300 mila. Sono cinquemila i pazienti trattati in Belgio su una popolazione di 11 milioni di abitanti, e dodicimila nel Regno Unito su una popolazione di 64 milioni di abitanti. Quanti siano esattamente in Italia non si sa. Gli unici dati ufficiali furono raccolti nel 2012 dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi e si parlava di 1.406 pazienti tra il 2008 e il 2010 (521 nel 2008, 480 nel 2009 e 405 nel 2010). Dopo di allora solo stime parziali. Un’indagine eseguita da Fàzzari ha concluso che nel 2014 sono stati trattati 18 pazienti a Oristano, 12 a Brunico, 63 a Brescia-Montichiari, 57 a Pisa, 110 alla casa di cura Villa Santa Chiara a Verona. Poche centinaia rispetto a Europa, Stati Uniti e Canada dove la Tec è considerata una terapia tra le tante disponibili e talora di prima scelta.
-  «Ai convegni di psichiatria in Italia non se ne parla e siamo per lo più assenti a livello internazionale. Solo pochi di noi hanno contatti con centri di ricerca all’estero», sostiene Fàzzari. «Le ragioni di questo pregiudizio ideologico e acritico? C’è chi teme di dispiacere alle case farmaceutiche, chi lo vive come uno stigma e un conflitto con i propri principi. Qualora i clinici ne facessero richiesta, ben difficilmente gli amministratori accetterebbero di acquistare l’apparecchiatura, non perché costosa (25 mila euro), ma per il timore di critiche. La Tec non prevede un Drg nel tariffario della Sanità: è una terapia che non ha un ritorno economico».

Il Comitato nazionale di bioetica nel 1995, dopo aver esaminato le diverse posizioni scientifiche e aver valutato le più autorevoli fonti internazionali concluse che non vi erano «motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica». E il Consiglio Superiore di Sanità, dopo aver dibattuto le perplessità suscitate dal trattamento nel 1996 concluse che: «Il diritto del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di essere umano, in accordo con il Comitato nazionale di bioetica, rappresenta un aspetto centrale nella valutazione dell’opportunità di un trattamento medico e che tale diritto non può costituirsi in opposizione alla scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica». Ma nel 1999 una circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi chiudeva: «La psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale, a tal punto che la Tec risulterebbe quasi desueta almeno nelle strutture pubbliche sia universitarie che del Servizio Sanitario Nazionale».

Una delle obiezioni avanzate dai detrattori dell’elettroshock è che non se ne conosce il meccanismo d’azione. Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 portò all’approvazione della legge 180 e al superamento dei manicomi, lo descrisse così: «È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché». Ribatte Marco Bortolomasi, psichiatra, direttore sanitario della Clinica Villa Santa Chiara di Verona: «Vari studi avvalorano l’ipotesi che la ripetuta stimolazione attivi fattori di crescita delle cellule nervose. L’effetto terapeutico è in rapporto a complesse modificazioni neurochimiche (di neurotrasmettitori e neurormoni) e neurofisiologiche come per gli psicofarmaci».

Un trattamento di solito prevede tre sedute di Tec alla settimana, a giorni alterni. «Per due settimane o più, a seconda della patologia, più o meno grave. In alcuni casi sono previste terapie di mantenimento: una ogni 3 settimane. Alcuni studi clinici controllati hanno dimostrato l’opportunità di questi richiami. Una cosa è certa, non esiste un’unica ricetta» spiega Fàzzari. Uno degli effetti collaterali della Tec è la perdita della memoria, anche se transitoria. Per Beppe Dell’Acqua, che lavorò a fianco di Basaglia all’Ospedale psichiatrico di Trieste, è a questo cervello "smemorizzato", che si attribuisce il sollievo dalla sofferenza mentale. Con il recupero della memoria torna, a suo parere, anche la sofferenza. «Ma quando i farmaci non danno sollievo, non ti consentono di convivere con la malattia e tantomeno di vivere. Quando non esistono strutture che ti accompagnino in un progetto terapeutico o capaci di restituirti attraverso le relazioni e il lavoro un ruolo sociale? Io avevo sperimentato di tutto. Per me è stata l’ultima spiaggia e ora mi dico: perché non potevamo arrivarci prima?», conclude Ferrari.


Non basta dire che fa bene al paziente

di Ignazio Marino (l’Espresso, 20 agosto 2017)

Ci sono situazioni in cui tutti noi, pur non disponendo di informazioni scientifiche, tuttavia attribuiamo senza esitare un giudizio negativo: è il caso dell’elettroshock, una scarica elettrica a cui si ricorre per alcune forme di grave depressione, avvolto da ombre che non si dissolvono. Eppure un metodo che si pratica con una certa regolarità all’estero ma anche in alcune strutture in Italia. Ci sono stati anni in cui non se ne parlava più.

Quando frequentavo la facoltà di medicina, pur essendo un trattamento descritto nei manuali, di fatto non era mai chiesto agli esami e non ricordo nessuno che ci scrisse la tesi di laurea. In realtà non è mai davvero scomparso e, anzi, nel tempo si è profondamente trasformato. Oggi si pratica in un ambiente ospedaliero controllato, con tutte le attenzioni necessarie in procedure complesse. Il paziente viene addormentato e durante la terapia elettroconvulsivante (Tec), eseguita in anestesia generale, non prova alcun dolore. Al risveglio molte persone riferiscono di sentirsi meglio e di trarre un beneficio dalla terapia. E davvero nei centri in cui si pratica l’elettroshock non esiste nulla di ciò che la maggior parte delle persone ha costruito nel proprio immaginario grazie soprattutto al cinema e alla letteratura, anche se il modo in cui è praticato non può non suscitare forte emozione: si tratta pur sempre di una scarica elettrica che provoca al corpo del paziente convulsioni scuotenti.

Fermandosi a queste constatazioni, forse si potrebbe affermare che se il paziente riscontra un beneficio allora il metodo va applicato. Ma chi si occupa di medicina e di scienza ha il dovere professionale e morale di farsi qualche domanda in più. Perché quale sia il beneficio reale collegato a una scarica elettrica nel cervello non è dato saperlo e al momento non vi sono riscontri scientifici certi sul meccanismo di azione. Siamo nel campo delle ipotesi, mentre ciò che invece sappiamo con certezza è che ogni trattamento distrugge un certo numero di neuroni, in diversi casi fa perdere anche parte dei ricordi memorizzati e, inoltre, espone sempre il paziente ai rischi inevitabili connessi all’anestesia generale. Parliamo dunque di un metodo invasivo il cui meccanismo di azione non è mai stato validato scientificamente. Se si accettano le regole della scienza, è necessario spiegare come funziona una terapia, su cosa agisce, quali conseguenze ha, quali sono gli effetti collaterali, senza tutto questo siamo fuori dai parametri di ciò che si definisce cura o trattamento medico.

Fatte le debite differenze, si può azzardare un paragone con l’omeopatia. Chi assume sostanze omeopatiche racconta spesso di trarne un beneficio, eppure non vi è alcuna evidenza scientifica che l’omeopatia sia una cura, anzi, la medicina tradizionale non la riconosce, proprio perché le sostanze somministrate non sono sottoposte al metodo sperimentale previsto per i farmaci e quando è stato fatto i risultati non sono stati soddisfacenti. Per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che l’omeopatia non sia un trattamento medico. La rivista Lancet, spesso chiamata in causa per i suoi autorevoli giudizi, nel 2007 ha decretato che l’efficacia delle cure omeopatiche riscontrabile in alcuni pazienti è spiegabile solo con l’effetto placebo. Il potere della suggestione, ma almeno con l’omeopatia non si corrono grossi rischi.

Nel caso dell’elettroshock purtroppo parliamo di situazioni molto gravi, di malati che non trovano più giovamento nei farmaci e per i quali la Tec rappresenta l’ultima tappa di un percorso pesante e doloroso. Per questo, per rispetto verso tutti questi pazienti, sarebbe il caso di fare chiarezza. Per avere un giudizio più sereno in merito all’utilizzo della terapia elettroconvulsivante servirebbe almeno quella che nell’ambiente scientifico viene chiamata una consensus conference, ovvero un confronto tra un ampio gruppo di esperti della materia che, assieme a rappresentanti della società debitamente informati, esprimano una posizione possibilmente unanime. Sulla base di questo giudizio dovrebbero poi essere adottate le decisioni sanitarie.

Un percorso che anche la Corte Costituzionale italiana ha indicato in due sentenze, nel 2002 e nel 2003, affermando che le scelte terapeutiche, nel caso specifico l’elettroshock, non possono dipendere dalla discrezionalità della politica che le autorizza o le vieta, ma dovrebbero basarsi sulle conoscenze scientifiche e sulle evidenze sperimentali acquisite tramite organismi tecnico-scientifici nazionali o sovranazionali.


Smemorarsi non è curarsi

«I benefici della Tec arrivano solo dalla temporanea perdita di memoria. Ma appena tornano i ricordi, svanisce ogni effetto positivo»

di Alessandra Cattoi(l’Espresso, 20 agosto 2017)

Febbraio 2015, il pilota spagnolo Fernando Alonso esce di pista e con ogni probabilità riceve una scarica elettrica all’interno dell’abitacolo della sua automobile in modo accidentale e incontrollato. Una volta ripresa conoscenza, Alonso non ricorda più nulla della sua vita fino al 1995, tutto rimosso tranne il suo sogno di diventare pilota di Formula 1. Fortunatamente Alonso rimase senza memoria solo per un paio di giorni ma la sua storia presenta esattamente i sintomi tipici dell’amnesia post elettroshock. E rivela il nodo centrale sulla questione: la terapia elettro convulsivante non ha effetti collaterali tranne per la perdita della memoria. Dunque, sostengono molti psichiatri, se si toglie la memoria a una persona depressa e la si riporta indietro di un anno o anche di pochi mesi, i sintomi della depressione possono affievolirsi ma non perché vi sia una guarigione, piuttosto perché vi è una perdita di pezzi di sé e poi, quando la memoria riemerge, ritorna anche il male di vivere.

Piero Cipriano, psichiatra presso il dipartimento di salute mentale dell’ospedale San Filippo Neri di Roma e autore del libro "Il manicomio chimico", è fortemente critico verso la pratica dell’elettroshock, avendola sperimentata personalmente. Durante gli anni della sua formazione venne cooptato nel gruppo della clinica universitaria romana che praticava l’elettroshock.
-  «Ho assistito ad alcuni casi, ho visto chi vi accedeva e quali erano gli esiti. Per fortuna dopo poco tempo sono partito per il militare e, conoscendo un altro tipo di psichiatria, ho iniziato a pormi molte domande. Ricordo un anziano giornalista che, dopo venti anni di farmaci antidepressivi, aveva iniziato le sedute di elettroshock ma la sua depressione si trasformava in stolidità, sembrava perdere pezzi della propria storia. Al contrario, ricordo una ragazza con diagnosi di disturbo borderline che scappava sempre dai luoghi di cura. Venne sottoposta a sei o otto sedute di elettroshock e non ebbe alcuna perdita di memoria, ma nemmeno alcun beneficio per il suo problema psichiatrico. A riprova che se non vi è effetto sulla memoria, non vi è effetto alcuno».

Eppure molti centri clinici di paesi avanzati nelle cure psichiatriche, come la Gran Bretagna, la Germania, ma anche gli Stati Uniti, vi ricorrono in maniera quasi sistematica.
-  «Dove prevale un’impostazione organicistica quando uno strumento non funziona si ricorre ad un altro, così quando i farmaci non bastano più, si passa alla corrente elettrica. Sappiamo che gli antidepressivi dopo quindici o vent’anni perdono il loro effetto. È un po’ quello che succede con la cocaina o le benzodiazepine.
-  La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele ma poi, gradualmente, le sostanze modificano i vari recettori cerebrali, l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Si va avanti così fino a quando i farmaci perdono il loro effetto e ricorrere alla terapia elettrica è l’unica cosa in più che si può fare, ma in realtà si aggiunge danno al danno. Lo racconta bene Paolo Virzì nel film "La pazza gioia" in cui la protagonista chiede di andare a Pisa a fare l’elettroshock, non per guarire, bensì per non pensare, smemorarsi, come farsi dare una botta in testa».

Seguendo questo ragionamento allora l’intervento andrebbe fatto a monte, nella terapia farmacologica. -«Oggi i medici di famiglia, i neurologi o altri specialisti prescrivono gli antidepressivi a pioggia, per qualunque forma di tristezza, per i lutti o per disturbi leggeri. Per di più con dosaggi uguali per tutti. È lapalissiano dire che sarebbe meglio prescrivere gli psicofarmaci solo quando veramente è necessario, alle dosi minime efficaci e per periodi limitati».

In Italia il ricorso all’elettroshock è tutto sommato molto limitato, forse perché l’eredità di Basaglia e della sua scuola sono ancora molto forti.
-  «A mio parere abbiamo il migliore sistema che ci sia, i servizi di salute mentale con tutti i loro problemi affrontano le malattie mentali con la relazione, con la psicoterapia e non solo con i farmaci. Senza demonizzarli, ma le sostanze che si pensava avrebbero spazzato via le malattie mentali non si sono rivelate miracolose e di certo il rimedio non può essere l’elettroshock, di cui riguardo ai meccanismi di azione non si sa assolutamente nulla. Concordo con lo psichiatra Kurt Schneider molto apprezzato dagli organicisti: anche se tutto ciò fosse di aiuto, non tutto ciò che aiuta è consentito».


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

RESTITUIRE LA SOGGETTIVITA’. Chi, a chi, come - e quale soggettività?! P. A. Rovatti a scuola di Franco Basaglia.

FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: