Che spreco Maestà
di MINA (La Stampa, 7/9/2007)
Immediatamente dopo la stretta al cuore, l’immagine del suo sorriso mi è tornata negli occhi. L’espressione che denunciava la consapevolezza del suo strapotere professionale. Lo sguardo di gentile disponibilità e tolleranza. L’arietta ironica di chi ha voglia di giocare. Incuteva, non dico terrore, ma ti dava la sensazione di dovere scendere un gradino e guardarlo dal basso in alto. E non soltanto in senso fisico, ovviamente. Luciano era solenne. Ricordo che Sandro Bolchi che stava facendo una regia per lui mi diceva: «No, nessun problema coi cantanti, non è una razza che mi fa paura però, quando entra Pavarotti, entra Pavarotti!».
La voce, inutile ripeterlo, talmente pura e perfetta da sembrare artificiale. Ma quella ci rimane. È l’uomo che se ne va. E con lui il suo talento che non è una cosa che si tocca, che si vede, che si può riprodurre. Ecco, dove sarà andato a finire il suo talento? Mi rendo conto che è una riflessione insolita, bislacca. Ma quelle rare volte che se ne va una persona di quell’eccelso livello artistico mi torna questo stupore, questa domanda. Devo essere pazza. Figurati cosa gliene importa a chi lo amava di dove va a finire il suo talento.
Ma non è una mancanza di rispetto. È come un voler trattenere con le mani, con l’anima, un tesoro irriproducibile che viene dissipato, distrutto dalla morte. Sua Maestà la Morte non tiene conto di queste «sciocchezze». Ti prende in blocco come prende tutti. Ti lascia soltanto, per alleviare la pena, un palloncino di memoria da gonfiare, quando è il caso. È giusto così. Ma che spreco, Maestà!