L’ADDIO AL TENORE
Nato a Modena il 12 ottobre 1935, debuttò a 26 anni a Reggio Emilia nella «Bohème». Nel ’65 trionfò alla Scala diretto da Karajan, quindi al Met. Ma da quei teatri fu anche duramente fischiato
Pavarotti
Una carriera unica tra trionfi e cadute
di Pierachille Dolfini *
Con la scomparsa di Luciano Pavarotti l’Italia non perde solo una delle più grandi voci della lirica, ma perde un simbolo, una bandiera che ha sempre portato nel mondo il nome e le belle tradizioni del nostro paese. Non c’è dubbio, infatti, che insieme alla pizza e alla Ferrari, Big Luciano era diventato il simbolo dell’Italia nel mondo, un marchio di fabbrica che garantiva il tutto esaurito, una carta da giocare nelle grandi occasioni. E questa leadership gli è stata sempre riconosciuta da tutti, anche da quelli che di lirica non capiscono un acca, tanto che a febbraio 2006 fu lui a chiudere con il suo squillante Vincerò la cerimonia di apertura delle olimpiadi invernali di Torino.
Quel Vincerò che solo il cancro ha potuto smentire facendo tacere per sempre Big Luciano. Il tenorissimo, morto ieri all’età di 71 anni, ce l’ha messa tutta lottando sino all’ultimo: «mi auguro di poter affrontare da pari a pari la malattia» aveva detto, quasi in tono di sfida, uscendo dall’ospedale di New York dove il 4 luglio del 2006 era stato operato per asportare un tumore al pancreas. Pochi giorni di convalescenza a New York e poi via, in Italia, accanto alle figlie (tre quelle avute dalla moglie Adua e una, Alice, nata dal secondo matrimonio con la segretaria Nicoletta Mantovani): Pavarotti era tornato a Modena, dove era nato il 12 ottobre del 1935 e lì aveva affrontato la chemioterapia sino al ricovero in ospedale del 9 agosto scorso per un principio di polmonite. Da lì era tornato a casa il 25 agosto. Non c’era più niente da fare. La chemioterapia, ormai, non poteva fare più niente. Inutile accanirsi.
Da subito, il cantante, che da tempo alle prese con disturbi di varia natura che lo avevano costretto a cancellare diversi concerti della tournée programmata per dare l’addio alle scene, aveva deciso di non fare mistero della sua malattia. Aveva affidato la notizia del suo tumore al pancreas ad un asettico comunicato stampa: «L’operazione è stata po rtata a termine con successo e ha permesso di asportare chirurgicamente tutta la massa maligna» si leggeva nella nota dell’agente di Pavarotti che informava di come l’agenda del tenore sarebbe cambiata: niente più concerti, dunque, in Scozia, Inghilterra, Finlandia, Norvegia, Austria, Svizzera e Portogallo. Ma Big Luciano, a più riprese, si era detto certo di poter tornare a cantare a inizio 2007. Erano in molti quelli pronti ad applaudire il ritorno del maestro elementare modenese diventato, grazie a una voce unica, il più famoso tenore del mondo: in molti erano certi che la tempra del tenorissimo sarebbe ancora una volta prevalsa e il do di petto del pucciniano Vincerò sarebbe tornato a risuonare.
Niente di tutto questo, solo una fugace apparizione in tv, il 16 gennaio scorso a Porta a porta in occasione di una puntata dedicata a Toscanini e qualche telefonata per ringraziare dei premi che per lui andava a ritirare la seconda moglie Nicoletta Mantovani.
In molti avevano scommesso sulla vittoria sulla malattia di Pavarotti, uno che le sfide le aveva sempre affrontate a testa alta: mentre ancora insegnava ginnastica ai ragazzini delle scuole elementari prendeva lezione di canto dal tenore Arrigo Pola e dal mitico maestro Campogalliani. Certo, il dna aveva fatto la sua parte: il padre, panettiere di professione, si dilettava a cantare nella corale Rossini di Modena e aveva trasmesso al figlio la passione per la musica. Immaginate, quindi la gioia del signor Fernando quando il 29 aprile del 1961 corse a Reggio Emilia ad applaudire il debutto del figlio: in cartellone c’era la Bohéme di Puccini e Big Luciano vestiva i panni di Rodolfo, ruolo ottenuto grazie alla vittoria al concorso Achille Peri. Gli aneddoti intorno alla vita del tenore si sprecano: la leggenda narra che a quattro anni già stupisse tutti intonando La donna è mobile, mentre sono in molti a sostenere che «Pavarotti non ha mai saputo leggere al musica». Poco importa. Quello che conta sono i successi, i numeri da capogiro raccolti da Big Luciano in quarantacinque anni di carriera.
I più grandi teatri del mondo gli aprono le porte: nel 1963 tocca al Covent Gardren di Londra dove Pavarotti sostituisce Giuseppe Di Stefano in teatro e nello show televisivo Sunday night at the Palladium, visto da 15 milioni di inglesi. A portarlo alla Scala è invece Herbert von Karajan che nel 1965 lo chiama per Bohéme. Big Luciano inizia un sodalizio che si prolungherà sino al 1992 quando appare per l’ultima volta nel teatro milanese: è il 7 dicembre, Riccardo Muti dirige il verdiano Don Carlo, ma il pubblico non perdona al tenorissimo, debuttante nel ruolo del protagonista, una stecca e lo contesta a suon di fischi. Se l’America aveva già applaudito Pavarotti alla fine degli anni Sessanta, il tenore strega la platea newyorkese del Metropolitan con i nove do di petto della Figlia del reggimento di Donizetti, exploit che il 17 febbraio del 1972 gli frutta ben diciassette chiamate in proscenio.
Dopo aver conquistato i teatri di tutto il mondo Pavarotti vuole di più e si inventa i concerti all’aperto davati a folle oceaniche di spettatori: ad Hyde park raduna oltre 150mila persone, mentre sono in più di 500mila ad ascoltarlo al Central park di New York. Alle Terme di Caracalla, per i Mondiali di calcio di Italia90, nascono i Tre tenori: Pavarotti, Domingo e Carreras inaugurano una formula (arie d’opera e canzonette popolari) destinata a essere replicata con successo in tutto il mondo. E le registrazioni di questi concerti (pubblicati dalla Decca, la casa discografica con la quale Pavarotti aveva firmato l’esclusiva) hanno superato le vendite dei dischi di Elvis Presley e dei Rolling Stones. Contribuendo al record di 100 milioni di dischi venduti dal tenore in tutta la sua carriera.
Ma Big Luciano non si ferma e nel 1992 inventa il Pavarotti and friends: il tenore duetta con stelle del pop per raccogliere fondi da destinare ai bambini dei paesi colpiti dalla guerra. Eventi che gli esperti chiamano cross-over, cioè luoghi dove i generi musicali si incontrano e si fondono, spettacoli che hanno avvicinato alla lirica persone che prima di allora non avevano mai messo piede in un teatro. Da qualche tempo Pavarotti aveva deciso di abbandonare le scene: nel marzo 2004 al Metropolitan di New York aveva dato l’addio all’opera cantando Tosca. Subito dopo era partita una lunga tournée mondiale di concerti, ma un’operazione alla schiena, alla quale si era sottoposto nel 2005, lo aveva costretto ad annullare esibizioni negli Stati Uniti, in Canada e a Vienna. Adesso che tutto il mondo lo piange, sul suo sito Internet restano le ultime parole che ha pronunciato: «Penso che una vita per la musica sia una vita spesa bene ed è a questo che mi sono dedicato».
* Avvenire, 07.09.2007.