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DANTE E LA "MONARCHIA" DI AMORE. L’Arca dell’Alleanza, il Logos, e l’ordine di Melchisedech...

DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.

AL DI LÀ DELL’EDIPO E DEI VECCHI HEGEL HEIDEGGER HABERMAS E RATZINGER. Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
martedì 23 ottobre 2007 di Maria Paola Falchinelli
L’Arca dell’Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech
La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
di Federico La Sala
IL DIALOGO/Quaderni di teologia, Martedì, 24 luglio 2007

VIRGILIO A DANTE: "«[...]Dunque: che è? perché, perché restai?/perché tanta viltà nel core allette?/perché ardire e franchezza non hai?/poscia che tai tre donne benedette/curan di (...)

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> DANTE ALIGHIERI BATTE HABERMAS E RATZINGER. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" ... che getta nuova luce anche sul DECAMERON di Giovanni Boccaccio.

giovedì 9 agosto 2007

Ma, se leggiamo Dante secondo l’"ipotesi di rilettura della Divina Commedia" da me avanzata, anche la lettura del Decameron - pur apprezzando la lettura fattane da Cardini - cambia ... e non nel senso di una elegia del passato!!! (fls)



Nella peste un flagello morale

Sul tragico sfondo di una malattia che rese vano il conteggio delle vittime, l’ultimo libro di Franco Cardini, «Le cento novelle contro la morte. Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo»

di Marina Montesano (il manifesto, 08.08.2007)

I secoli XII e XIII erano stati, per l’Europa, un periodo di splendida crescita: le rendite agricole erano ottime, le città toccavano l’apice del loro sviluppo, tanto sotto il profilo della crescita demografica, quanto sotto quello urbanistico, economico e artistico. È vero che verso gli inizi del Trecento qualcosa cominciava a scricchiolare, ma nessuno si aspettava che, appena prima della metà del secolo, un’ondata di morte avrebbe travolto il continente. Nel 1346 la peste, proveniente dall’Asia centrale, colpì Tabriz e Astrakan e da lì, lungo la via dei fiumi, raggiunse la Crimea e il Mar Nero. Nel 1347 a Caffa, colonia genovese, durante un assedio, i mongoli dell’Orda d’Oro gettarono i corpi di appestati oltre le mura; alcune navi, che dal Mar Nero navigavano per giungere nella madrepatria, cominciarono a diffondere il micidiale bacillo lungo gli scali del Mediterraneo. Alla fine di quell’anno la peste si era manifestata a Cipro, Alessandria, il Cairo, Messina, Marsiglia, Genova e nel 1348 devastava i porti atlantici, per spingersi poi in quasi ogni zona dell’Europa.

Comincia con questo terribile affresco il nuovo libro di Franco Cardini: Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, (Salerno 2007, pp. 153, euro 11) descrivendo quella che fu senza dubbio una tragedia immane, sebbene sia impossibile stabilire precisamente quale fosse stato il numero delle vittime: i dati a nostra disposizione non lo consentono, in primo luogo per la mancanza di fonti in un’epoca in cui le raccolte di dati anagrafico-catastali erano assai sporadiche se non inesistenti, ma anche perché i morti furono talmente tanti da rendere impossibile ogni conteggio, cosa che del resto avvenne anche in tempi molto più vicini ai nostri, quando neppure per l’epidemia di influenza nota come «spagnola» fu possibile fornire cifre esatte. Si calcola tuttavia che la popolazione dell’Europa occidentale fosse di circa ottanta milioni di abitanti all’inizio del contagio, e che il morbo ne uccise tra i venti e i venticinque milioni negli anni 1347-50, sebbene la sua diffusione non fosse uniforme: alcune regioni furono solo sfiorate dalla pestilenza, in altre la mortalità superò il 60%.

Le ricadute della peste sulla economia europea hanno fatto discutere a lungo: è ancora oggetto di controversia se si trattò di un fattore «riequilibrante» o distruttivo. E se tentare una risposta onnicomprensiva è impresa vana, molto più apprezzabile è l’effetto che la pestilenza ebbe sull’immaginario, le mentalità, la produzione artistica. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Anche in una società qual era quella trecentesca, che aveva con il pensiero della morte maggiore dimestichezza, un morbo di tale potenza era noto soltanto attraverso la letteratura del passato: la peste di Atene del 429 a.C., descritta da Tucidide e ripresa da Lucrezio, quella di Roma del 66 d.C. di cui aveva scritto Tacito, la «peste di Giustiniano» (del 542) sulla quale si diffonde Procopio da Cesarea; l’ultima ondata epidemica documentata in l’Occidente risaliva al 767 e probabilmente era stata circoscritta all’Italia meridionale. Inoltre, lo stesso termine pestis era assai generico, tanto che Cardini ricorda come anche forme epidemiche diverse da quella che solo a partire dalla fine dell’Ottocento è stata definita Pasteurella pestis e Yersinia, quali tifo e vaiolo, venivano indicate col nome generico di «peste». Dunque, lo spaventoso contagio dal quale fu colpita la società europea era sostanzialmente sconosciuto, non c’erano strumenti per indagarne né le cause né le cure.

Se siamo soliti legare cicli artistici, come quelli celebri del Camposanto di Pisa, al susseguirsi di pestilenze che da quel momento in poi (la peste rimase infatti endemica a lungo, manifestandosi con nuove ondate nei secoli successivi) squassarono l’Europa, il legame tra il Decameron e la peste della metà del Trecento è però più complesso, a patto di non fermarsi ai suoi elementi più immediati e formali: i giovani protagonisti si riuniscono per sfuggire alla peste che nell’anno 1348 impazza in città e che Boccaccio - scrive Cardini - racconta come un «grande dies irae, affresco potente dell’agonia d’una città che già Dante aveva visto come condannata dalle scintille malefiche della superbia, dell’avidità, dell’invidia». Non è solo l’orrore della morte fisica, individuale, a sconvolgere Boccaccio, quanto il destrutturarsi sotto i suoi occhi dell’intera società fiorentina e soprattutto del suo ceto dirigente: del resto, in una società organizzata sulla base di consorterie, non c’è crisi peggiore di quella che travolge lignaggi e legami familiari.

Mentre quasi nessuno contesta la struttura unitaria del Decameron e il suo significato catartico rispetto alla tragedia del contagio, il dibattito sull’interpretazione generale dell’opera è invece acceso e ha prodotto una bibliografia smisurata. Cardini rivisita l’insieme dell’opera, ’cornice’ e novelle, con grande attenzione ai significati simbolici di cui è costellata: il tutto per concludere, in modo sorprendente, ma al tempo stesso assai convincente, che la rifondazione del mondo operata dai giovani fiorentini attraverso il racconto (e quello della parola quale elemento fondante della realtà è tema sul quale ci si potrebbe soffermare a lungo, rintracciandone facilmente la transculturalità o, se si preferisce, l’archetipicità) non va nella direzione di un’ode al futuro, ma in quello di un’elegia del passato. Una elegia dei suoi valori più alti, che per Boccaccio non sono quelli cittadini, mercantili e borghesi, bensì quelli cavallereschi, distrutti dalla cupidigia dei suoi tempi, rispetto alla quale la peste appare davvero come un flagello morale, ancor prima che materiale.


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