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Eu-angelo e democrazia: "esperienze pastorali"

Don Lorenzo Milani, la Scuola di Barbiana, e la "Lettera a una professoressa". Un "ricordo" di Francesco Erbani - a cura di Federico La Sala

venerdì 11 maggio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Libro-manifesto, si è detto, consegnato al mondo contadino di Barbiana, utopico e indigesto. Ma quel volume, suggerisce Giorgio Pecorini, che ha frequentato il prete per dieci anni, «non deve esser letto come un ricettario, ma come un atteggiamento etico». «Spesso gli amici (...) insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi (...)», annota don Milani in Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958, quattro anni dopo l’arrivo a Barbiana. «Sbagliano la domanda, (...)

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> Don Lorenzo Milani, la Scuola di Barbiana, e la "Lettera a una professoressa". ---- La ricreazione non è finita. Le memorie di Adele Corradi (di Goffredo Fofi)

domenica 11 marzo 2012

DON MILANI (1923-1967)

La ricreazione non è finita

Le memorie di Adele Corradi, stretta collaboratrice a Barbiana, che non sarebbero piaciute a don Lorenzo

di Goffredo Fofi (Il sole 24 Ore - Domenicale, 11 marzo 2012)

A 88 anni Adele Corradi, un’insegnante che fu stretta collaboratrice a Barbiana di don Lorenzo Milani nei suoi ultimi anni di vita (dal 1963, quando aveva 39 anni) ha scritto delle memorie, brani lunghi o brevi che evocano una vicenda molto nota, perché su don Milani si è scritto moltissimo, in chiave agiografica e talvolta, molto quando era in vita, denigratoria.

La Corradi ha voluto essere assolutamente sincera, ha voluto dare di don Lorenzo l’immagine il più possibile rispondente al vero, e occorre subito dire che è riuscita a farlo: il don Milani che narra, quello che lei ha conosciuto, è, con quello delle lettere, il don Milani che resterà; con la sua grandezza e con le sue contraddizioni ma modello di un rigore di cui pochi italiani sono stati capaci e di cui, negli ultimi decenni, anche in ambiente religioso e in ambiente scolastico, sembra essersi perduto, speriamo transitoriamente, il seme.

È la convinzione profonda di essere nel giusto difendendo i suoi ragazzi barbianesi dalla scuola com’era - figuriamoci cosa direbbe oggi della scuola come è diventata! - e dalla cultura borghese che era, diceva e non sbagliava, loro nemica, a colpire di più nella personalità di questo prete che pure veniva dalla miglior borghesia del suo tempo.

La Corradi è ben cosciente di questa radicalità e l’approva e sostiene, ma portando a Barbiana una componente di "genere", la capacità di una mediazione al femminile in cui trova alleata non altre insegnanti ma la Eda, la contadina che lavora per la piccola comunità barbianese, che capisce bene don Milani e che don Milani ama moltissimo, ma nei cui confronti ha a volte scatti di un maschilismo che sconcertano anche la Gonadi.

Non so se don Lorenzo, il titolo del libro, esprime il dubbio della Corradi sulle reazioni che egli avrebbe avuto alla lettura di questo libro, e chiarisce il lungo rinvio nello stendere questi ricordi, quasi in chiave testamentaria, di estrema e doverosa testimonianza.

È pieno di aneddoti significativi sui rapporti di don Milani con le autorità ecclesiastiche, con i ragazzi di Barbiana (ma su questo avremmo voluto saperne e capirne di più) e con gli abitanti di quella parte del Mugello e della Toscana proletaria di quegli anni che egli ha ben conosciuto al tempo di Esperienze pastorali. E contiene un piccolo regesto di frasi forti di don Milani. «Dei borghesi bisogna servirsene, ma senza affezionarcisi». Di certi preti perbene: «A furia di esami di coscienza trasformano in cura di sé perfino il cristianesimo». Nella lettera a Nadia Neri: «Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (...) un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio».

Ma ovviamente gli aspetti che più possono intrigare sono quelli religiosi - per esempio l’apparente contraddizione tra «l’obbedienza non è più una virtù» della lettera ai cappellani militari (in difesa di Beppe Gozzini, primo obiettore di coscienza cattolico) e la difesa dell’obbedienza alla chiesa come virtù («Crede che sia facile vivere sempre sul filo del rasoio, sempre col rischio di cadere nell’eresia?») - e quelli pedagogici.

Qui la durezza (e si potrebbe parlare di aristocraticismo) di don Milani si fa discutibile anche per la stessa Corradi. Il rapporto con il piccolo gruppo dei suoi allievi vuol essere esclusivo. Gli chiede Adele cosa farebbe se venisse un prete più bravo di lui e gli portasse via i suoi ragazzi, e lui risponde: «Farei alle fucilate! I ragazzi sono miei. Bravo o ciuco, farei alle fucilate!» «Io sono un grande maestro!» afferma ai suoi allievi che, secondo la Corradi, non sembrano del tutto convinti, eccetto quelli che gli sono stati più vicini e che hanno finito per diventare nel tempo più donmilaniani di don Milani.

Il solo capitolo delle Esperienze che don Milani le dice di voler salvare è quello intitolato La ricreazione, una critica senza sconti dei due modelli di "tempo libero" proposti dalla chiesa - l’oratorio e il rito del calcio - e dalle sezioni del Pci; le case del popolo e il rito del liscio. Semplicemente, il rifiuto di un tempo libero che non sia di lotta e di cultura. E insieme il rifiuto dell’affermazione individuale, della carriera personale diversa da quella di prete o sindacalista o insegnante, ma, dice la Corradi , la visione delle cose nel piccolo gruppo di Barbiana era molto diversa da quella della gente di Nicchio, che stava geograficamente molto più in basso. «Era completamente assurdo per qualunque vicchiese che un giovane non considerasse un dovere "rivestirsi" nei giorni di festa e un fatto naturale "divertirsi". (...) Solo a don Lorenzo un figlio ingegnere poteva sembrare una disgrazia».

È qui, credo, un dilemma centrale, che persone come don Milani o Pasolini - suo lettore e ammiratore dal tempo delle Esperienze - decisero da subito di mettere al centro del loro insegnamento, e non sbaglia chi li ha considerati, dagli anni Sessanta in avanti, come i due maggiori o gli unici pedagogisti italiani. Di questa radicale austerità, la cui durezza deriva dalla comprensione o preveggenza degli effetti della "ricreazione" nella società che stava diventando del benessere, Pasolini fu il portavoce maggiore ed è assai probabile che sia stata la lettura di don Milani a influenzarlo, nonostante le sue contraddizioni fossero ben maggiori di quelle del prete perché nelle norme e negli usi della società del benessere egli si lasciò fin troppo coinvolgere.

La Corradi ricorda come don Milani le dicesse più di una volta, nei fatti e nelle parole, «che la coerenza assoluta era un’assurdità e, per di più, un’assurdità stupida», e commenta perfettamente: «Era quello uno dei tanti momenti in cui mi pareva di capire che non si doveva essere prigionieri di niente, neppure dei "principi". Perché, come direbbe Freire, don Lorenzo era un "radicale". Freire, così mi pare di aver capito, divideva le persone in "radicali" e "settarie". Le "settarie" hanno radici poco profonde e si aggrappano a regole e dogmi. I "radicali" invece hanno radici profonde e non hanno paura della libertà».

Di questa radicalità - e di radicali, non di settari - si ha oggi il massimo bisogno dopo lo scialo che il populismo ha prodotto, a destra e a sinistra, nella società e anche nella parte che è della chiesa, di un’adesione pressoché assoluta alla desacralizzazione di tutto e alla spettacolarizzazione di tutto: a una generale "ricreazione" che paradossalmente, in mancanza delle ore del lavoro, non ha poi molto da "ricreare".

Le contraddizioni di don Milani, frutto di una storia e di un’epoca di grandi contrasti, ci pongono di fronte oggi all’assenza in noi di contraddizioni altrettanto forti, a una società sostanzialmente conformista, dove le classi sociali si sono accostate e si sono culturalmente omologate su modelli comuni imposti dal consumo e dalla pubblicità.

Adele Corradi ci ha ricordato quanto la vocazione di educatore potesse essere difficile rispetto ai valori di un tempo, ma certamente essa è ancora più delicata oggi, quando gli educatori "radicali" (e non i "settari", senza dimenticare la massa compiacente dei new age e la piccola folla dei guru che al solito, preti e laici, predicano A e fanno B) possono ritrovarsi molto più facilmente soli, e spesso sconfessati dai loro stessi allievi, perché affermano altri modelli in un contesto dove il modello dev’essere, secondo chi decide del destino delle società, sostanzialmente uno solo. È di questo che chi questa vocazione o questo dovere sentono ancora di avere, dovrebbero ragionare, è questa il punto, la vera questione, su cui dovrebbero misurarsi la loro intelligenza e la loro responsabilità.

-  Adele Corradi, Non so se don Milani, Feltrinelli, pagg. 170, e. 14.00


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