di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 22.06.2016)
Come si può dimenticare la donna di Roma città aperta , il film di Roberto Rossellini, che corre corre, insegue il camion su cui i nazisti stanno portando via il suo uomo, grida «Francesco, Francesco» e finisce a terra falciata dalle mitragliatrici? Pina, la popolana, e Anna Magnani, l’attrice, sono tutt’uno in quella scena tragica che settant’anni dopo seguita a far male al cuore. La ricorda il bel libro Donne della Repubblica edito dal Mulino, opera di più autrici, Claudia Galimberti, Cristiana di San Marzano, Paola Cioni, Elena Di Caro, Chiara Valentini, Maria Serena Palieri, Francesca Sancin, Lia Levi, Federica Tagliaventi, Elena Doni. Qualcuna di loro, il vecchio gruppo di «Controparola», ha scritto nel libro più di un saggio su personaggi che hanno lasciato un segno nel Novecento: donne le autrici, donne le protagoniste, politiche, scrittrici, attrici e anche donne al centro di fatti che ebbero un rilievo nel far progredire il bigotto costume dell’epoca.
Come scrive Dacia Maraini nell’introduzione: «Il nostro sembra un Paese che prova sollievo nel dimenticare il passato, quasi ci fosse da vergognarsi, soprattutto quando si tratta di stabilire dei punti di riferimento etici, socialmente riconoscibili, che possano fare da modello per le prossime generazioni».
La memoria smarrita. Le donne di questi ritratti o, meglio, racconti verità, si sono impegnate nel nome della dignità, della giustizia, dell’eguaglianza e rappresentano il simbolo dei momenti alti del Paese, la minoritaria lotta clandestina contro il fascismo, la Resistenza partigiana, la Costituzione del ’47. Si sono poi impegnate per creare la tessitura necessaria alle leggi che hanno emancipato la comunità, i diritti di cittadinanza, il divorzio, l’eguaglianza non ancora del tutto raggiunta tra uomo e donna. Il libro serve anche a far capire come la lotta per la libertà e per il progresso sociale e civile non debbano mai avere sosta. Ci si immalinconisce se si fa un paragone tra la forza, la cultura, il coraggio di donne come Ada Gobetti, Camilla Ravera, Nilde Iotti, Tina Anselmi e le ministrine di oggi, insipide ma arroganti, attente, sembra, soprattutto al colore del loro tailleur.
La carrellata di questo libro è lunga e appassionata. Da Anna Magnani (Lia Levi), sciantosa, pescivendola e poi grande interprete - vinse nel 1955 l’Oscar per La rosa tatuata - donna ribelle, attrice di se stessa, a Teresa Noce, uno dei ritratti più belli del libro (Paola Cioni). Sembra una storia ottocentesca, la sua: la povertà inimmaginabile, la senza scuola che ama la cultura e sa conquistarla con lo studio appassionato, l’indipendenza di giudizio, la testardaggine, la durezza, la coerenza, la coscienza che per la sinistra l’unità è essenziale. La bambina che nasce in un miserrimo quartiere di Torino all’inizio del secolo passato conosce via via Gramsci, Togliatti, Terracini, è in prima linea nella lotta antifascista, partecipa alla Guerra civile spagnola, è fra i Francs-tireurs et Partisans della Resistenza francese e con la Liberazione approda al Comitato centrale e alla direzione del Pci che anni dopo la espelle. (Era la moglie di Luigi Longo, il vicesegretario, che si è risposato a San Marino con l’inganno ed è lei, divorziata a sua insaputa, a venire accusata dai burocrati del partito di aver violato le regole). Completamente emarginata, scrive libri. Fino alla morte, sola.
Un altro bel ritratto è quello di Tina Anselmi (Eliana Di Caro ed Elena Doni). Veneta di Castelfranco, il padre socialista, decide il suo destino nel 1944 quando - aveva 17 anni - fu obbligata dai nazifascisti ad assistere con i compagni di scuola all’impiccagione agli alberi in un viale del paese di giovani partigiani catturati sul Grappa. Diventa un’animosa staffetta partigiana. Poi si laurea in Lettere all’Università Cattolica, giovanissima dc, i suoi maestri sono De Gasperi, Dossetti, Moro, Zaccagnini. Deputata nel ’68, ministra del Lavoro nel ’76 (è sua la legge sull’eguaglianza di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), ministra della Sanità nel ’78, la sua grande avventura politica è la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2, associazione segreta di cui hanno fatto parte ministri, capi dei Servizi segreti, generali dei Carabinieri e della Finanza, banchieri, magistrati, direttori di giornali e della Rai, parlamentari, esclusi i comunisti, i radicali, l’allora Pdup: i giudici istruttori di Milano sono arrivati a Gelli indagando sulla mafia in Sicilia e sull’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Dall’81 all ’84 Tina Anselmi regge la presidenza con rigore, la sua relazione finale, ineccepibile, rivela la presenza di uno Stato ombra che ha operato contro la legge e la Costituzione e rappresenta ancora «un pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».
Viene almeno ringraziata la donna intemerata che sa reggere quella Commissione parlamentare? È messa invece da parte anche dal suo partito che le toglie il collegio dove è stata eletta da decenni. Viene insultata da più parti, vilipesa, offesa con un astio che sembra nascere dalle viscere più oscure. Si minimizza. La P2? Un normale comitato d’affari, «un club di gentiluomini» (Berlusconi), un falso complotto, una caccia alle streghe. (Anche se dall’inchiesta emergono connessioni con le stragi che hanno dilaniato il Paese e con le irrisolte questioni che hanno messo in pericolo la Repubblica democratica, da piazza Fontana all’Italicus al Banco Ambrosiano). Ultima a infierire, nel 2004, è una biografia indecente e gonfia d’odio a lei dedicata nel dizionario Italiane , tre volumetti editi dalla Presidenza del Consiglio e dall’allora ministra delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo. Ne hanno viste tante queste donne del Novecento. Mai assenti, mai indifferenti, sempre partecipi. Spesso hanno rischiato la vita. Le autrici le raccontano con amabilità, con rigore, senza retorica. Forse con un po’ di invidia.