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MEMORIA DEL LOGOS. Eu-ropa..... Eu-democrazia ed Eu-angelo!!!

EU-ROPA: TRATTATI DI ROMA. UE!!! RADICI CRISTIANE, NON RADICI "CATTOLICO RATZISTE"!!! IL VATICANO ABUSA DELLA "PAROLA" E NON SA PIU’ PARLAR CHIARO - SOPRATTUTTO CON SE STESSO!!! "CATTOLICESIMO COSTANTINIANO" NON VUOL DIRE "CRISTIANESIMO" e il dio della "Deus caritas" non è il "Deus CHARITAS" dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti!!! Il discorso di Giorgio Napolitano a Tubinga (non a Ratisbona) e la Dichiarazione di Berlino (2007) - a cura di pfls

Sollecitazione del presidente della Repubblica a procedere alla ratifica del Trattato di Lisbona.
martedì 12 febbraio 2008 di Maria Paola Falchinelli
NAPOLITANO: CAMERE SCIOLTE RATIFICHINO TRATTATO UE *
TRENTO - Il presidente della Repubblica ritiene che anche a Camere sciolte si possa e si debba procedere alla ratifica del Trattato di Lisbona. Lo ha detto svolgendo la Lectio Magistralis all’Università di Trento.
Giorgio Napolitano ha ribadito la necessità "indispensabile" che il nuovo Trattato europeo entri in vigore l’anno prossimo, prima delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo. "E’ indispensabile in questo contesto - ha detto - (...)

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> EU-ROPA..... "Se l’Europa diventa piccola piccola" di Romano Prodi

giovedì 10 maggio 2007

Se l’Europa diventa piccola piccola

di Romano Prodi *

Il rinnovato slancio che Nicolas Sarkozy ha inteso dare al processo europeo con le sue prime dichiarazioni da Presidente della Repubblica fa molto piacere all’Italia e a me personalmente. Perché l’Europa, senza la Francia, non sarebbe Europa. E quindi, senza la Francia, non la possiamo completare.

Il 25 marzo, mentre l’Europa celebrava i suoi cinquant’anni, assieme ai capi di governo degli altri 26 paesi che ne fanno parte ci siamo impegnati a far ripartire il processo di integrazione dopo la pausa di riflessione imposta dai no francese e olandese. La Dichiarazione solenne adottata a Berlino ci impegna tutti a dotare l’Europa di nuove regole entro il 2009, cioè prima delle prossime elezioni europee. È un risultato importante, per il quale l’Italia si è molto battuta, che dobbiamo accogliere con soddisfazione.

L’Europa ha fatto moltissimo per i suoi cittadini. L’abbattimento delle frontiere ci permette di muoverci liberamente. L’Euro ha rafforzato le nostre economie anche nei confronti del resto del mondo. I nostri giovani, grazie a programmi come l’Erasmus possono affrontare la vita con strumenti migliori di quelli delle generazioni precedenti. Un mercato interno più grande ha aumentato le potenzialità per le imprese europee desiderose di crescere e competere. Senza dimenticare la pacificazione e la riunificazione del continente dopo le stagioni dei totalitarismi e dei muri. L’Italia, che a questi sviluppi ha contribuito con uomini e idee, ha ricevuto a sua volta molto dall’Europa: industrializzazione, crescita, sviluppo del territorio, stabilizzazione finanziaria, aumento della qualità della vita per milioni di cittadini...

L’Europa ha già fatto tanto, ma le resta ancora molto da fare. Una missione su tutte: adeguarsi al mondo che cambia per essere essa stessa motore del cambiamento. Oggi ci troviamo di fronte a una doppia sfida: da una parte le minacce globali del terrorismo, della proliferazione nucleare, delle pandemie e dei cambiamenti climatici; dall’altra la competizione, anch’essa globale, in un mondo sempre più condizionato da grandi aggregati emergenti come Cina, India e Brasile (le tappe delle mie principali missioni all’estero in questo primo anno di governo). La dimensione di tali sfide è tale che nessun paese europeo, da solo, potrà farvi fronte efficacemente. Ormai lo vado ripetendo da tempo. E non è retorica, è un dato di fatto.

Lo dimostrano l’Afghanistan, l’Iraq, l’Iran e il Medio Oriente dove ogni giorno che passa si conferma l’inadeguatezza di iniziative unilaterali... Lo dimostrano le graduatorie sulle più grandi multinazionali, sui centri di eccellenza o sulle migliori università del pianeta: quasi sempre asiatiche o americane, ovvero espressione di realtà in grado di fare massa critica, di adeguarsi a un mondo che evolve inesorabilmente verso un sistema di continenti.

L’Europa è dunque davanti a un bivio: continuare sulla strada dell’integrazione oppure assistere impotente alla progressiva rinazionalizzazione delle politiche? Che tradotto vuol dire: tentare di dire la propria sulle cose del mondo, cercare di migliorarlo, oppure auto-condannarsi all’irrilevanza? Il rischio di rigurgiti nazionalisti è forte. Basta guardarsi intorno. Basta osservare le insofferenze per l’idea di Europa, le critiche populiste nei confronti delle sue istituzioni, la pretesa che essa debba agire in una logica di mera supplenza, la tendenza a scaricare su Bruxelles la responsabilità per qualsiasi fallimento nazionale.

La realtà è che senza Europa saremmo tutti più poveri, più esposti e più deboli. E che invece con un’Europa attrezzata a far fronte alle nuove sfide globali possiamo essere tutti più forti e sicuri. Ecco perché dopo la Dichiarazione di Berlino è venuto il momento di passare all’azione, di tradurre in pratica gli impegni che abbiamo assunto. Gli elettori europei devono sapere come sarà composto il Parlamento europeo per cui saranno chiamati a votare nel 2009. Quali saranno i suoi poteri. E quale sarà la composizione della Commissione. Se vi sarà o meno un Presidente stabile del Consiglio europeo e un Ministro degli Esteri europeo, qualunque sia il titolo che gli verrà dato. Negli ultimi mesi si è spesso parlato di «Europa dei risultati», quasi in opposizione alla necessità di rafforzamento istituzionale dell’Europa. Voglio dire con franchezza che non condivido questo approccio. Io auspico e mi batto per istituzioni più efficaci perché voglio più risultati.

In questi giorni stiamo intensificando il lavoro con la Presidenza tedesca. Mi sono appena recato a Lisbona per consultare i portoghesi che assumeranno la guida dell’Unione Europea dal primo luglio. Nei giorni scorsi, subito dopo la sua elezione, abbiamo convenuto con Sarkozy che ci saremmo incontrati presto. L’obiettivo è quello di uscire dalla riunione dei Capi di Governo della UE di giugno già con un percorso chiaro per le riforme. Un percorso chiaro sotto il profilo dei tempi, dei contenuti e del metodo di lavoro. Il punto di partenza, l’ho detto più volte, è il Trattato di Roma dell’ottobre del 2004, firmato dai 27 paesi membri e ratificato da 18. Penso agli aspetti istituzionali, al rafforzamento della politica estera e di sicurezza comune, a una presidenza del Consiglio più stabile, all’estensione del voto a maggioranza qualificata, questo si, strumento indispensabile per un’Europa dei risultati, non più paralizzata dai diritti di veto.

Sento dire da più parti che si dovrebbe «decostituzionalizzare» il trattato del 2004. Si parla di testi ridotti all’essenziale. Noi non ne faremo una questione formale. Perché il nostro essere europeisti non può ridursi al nome che diamo alle cose che facciamo. Per noi conterà la sostanza, come è sempre stato. Per questo dico che se da un lato occorre riaprire un numero limitato di punti, dall’altro bisognerà essere consapevoli dei reali margini di manovra su ciascuno di essi. Non bisogna cioè dimenticare che i compromessi sin qui raggiunti sono stati frutto di un negoziato duro e doloroso. E che già rappresentano punti di equilibrio delicati. Noi non siamo quindi disposti a sottoscrivere qualsiasi compromesso, a rincorrere minimi comuni denominatori a ogni costo. Per noi le ragioni dei cittadini dei paesi che hanno già ratificato il Trattato del 2004 devono valere almeno quanto quelle dei cittadini dei paesi che non lo hanno fatto.

L’Europa, se non va avanti va indietro, perché ferma non può stare. Questo mi hanno insegnato gli anni passati a lavorare per il progetto europeo. Dirò di più: non andare avanti, e quindi tornare indietro, ha un costo. Ed è questo costo della non Europa che va spiegato a chi esita. A chi pensa che al mondo d’oggi sia ancora possibile vivere in pace e in prosperità senza far parte di un grande aggregato politico ed economico. L’Italia poi, per le sue credenziali europee ed europeiste, ha forse in questa fase un dovere in più. Quello di pensare per tempo alle soluzioni in grado di superare eventuali stalli durante il negoziato dei prossimi mesi. Noi faremo ogni sforzo per arrivare a una soluzione condivisa e sono certo che ci riusciremo. Ma occorrerà che i leader politici europei dicano chiaramente alle proprie opinioni pubbliche che la scelta, questa volta, è essere dentro o fuori l’Europa. Perché restare in Europa è una scelta. Una scelta di condivisione in cui l’interesse nazionale è - e deve essere - temperato dall’interesse di tutti gli altri paesi. Che solidarietà non è soltanto una parola astratta. Che in un disegno più europeo e più grande occorre che ognuno faccia la propria parte, senza egoismi.

Credo in altre parole che per completare la costruzione dell’Europa non si debba per forza procedere tutti insieme, alla stessa velocità. Mi augurerei che fosse così, ma mi rendo conto che non sarà sempre possibile. D’altra parte alcune delle scelte politiche più significative dell’Europa, come l’Euro e la creazione dello spazio Schengen, sono state realizzate soltanto da alcuni stati membri. Non contro qualcuno, non escludendo gli altri. Tenendo la porta aperta. Ed è stata una scelta rispettata da quanti non si sono sentiti ancora pronti ad andare in quella direzione. Ecco, io auspico che anche in futuro prevalga sempre questa volontà di costruire. E che abbia la meglio su ogni tentazione di veto.

Perché in questo momento lungimiranza non significa solo disegnare scenari ambiziosi per il futuro della costruzione europea. Significa anche porsi il problema di permettere ai popoli che lo desiderino di realizzare le loro ambizioni di unità nei tempi e nei modi a essi più congeniali.

Questo articolo viene pubblicato in contemporanea dal quotidiano francese «Le Figaro»

* l’Unità, Pubblicato il: 10.05.07, Modificato il: 10.05.07 alle ore 11.57


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