È tornato il ’48?
di Bruno Gravagnuolo *
Il dado è tratto e indietro tutta. Rotti gli argini di una «sfida etica» in parte ancora contenuta nei termini degli «ammonimenti», i Vescovi si appellano alla società civile. E scendono in piazza per interposti parroci. Infatti con le parole di Mons. Betori, segretario generale della Cei, non solo plaudono alle associazioni laicali cattoliche che guideranno a Roma il family day contro i Dico. Ma incoraggiano le parrocchie e i parroci a essere presenti. Pur escludendo ogni adesione vescovile in prima persona.
È un salto di qualità politico, non c’è dubbio. E un chiaro ritorno al protagonismo capillare e di massa della Chiesa sulle questioni civili. Come nel 1948, al tempo dei comitati civici di Gedda, delle scomuniche di Pio XII e dei cortei col Biancofiore. Con partecipazione di ecclesiastici nonché di icone sacre e Madonne pellegrine. E come al tempo del divorzio, battaglia persa nonostante la mobilitazione dei pulpiti.
Ora però si ricomincia e con supporto di teorie devote sul «diritto naturale» in tempi di evangelizzazione contro il «relativismo». La Chiesa, ci dicono Mons. Cafarra e prima ancora il Pontefice, coi teocon nostrani, deve essere un baluardo etico e razionale contro la deriva dei valori. Il saldo sostegno della verità universalmente umana e non dubitabile, che sta a base a degli ordinamenti civili. I quali in sè - recita il Magistero ecclesiale - sono deficitari, non reggono alla globalizzazione culturale e all’emergere dei diritti individuali su scala planetaria, fomite di arbitrio e possibile anarchia. Sicchè travolti i collateralismi di partito, la Chiesa non può che farsi agenzia «metapolitica». Punto di riferimento trasversale delle coscienze e della legislazione che diviene per questa via affare precipuo dei credenti, in quanto orientati dalla Chiesa.
Di più. Proprio questo Papa, prima ancora di ascendere al soglio di Pietro teorizzò a chiare lettere che il pluralismo civile dei moderni era null’altro che un pluralismo tra Chiese, come avvenne negli Usa delle sette religiose. Dottrina confermata anche dal cardinal Scola, che ha ribadito in un suo saggio la sostanza fondativa della religione cristiana, in virtù della sua intima razionalità superiore e «cristiano-occidentale». Sempre del tutto in linea col Pontefice, che a Ratisbona celebrò la superiore razionalità «greco-cristiana», a petto della deficitaria ragione islamica così intrisa di violenza in Maometto. C’è dunque da meravigliarsi se a partire da queste «basi cognitive» e di milizia teologica la Chiesa scenda in piazza? E persino contro una realtà minimale e per nulla «epocale» come i Dico? Già, scende in piazza, anche se l’invito è rivolto solo in guisa di incoraggiamento ai parroci. Dopo le note ingerenze dirette sul referendum della fecondazione assistita. Dirette fin dentro la tecnica da adottare (l’astensione per far mancare il quorum). E dopo la nota promossa dalla Cei di Bagnasco sull’obbligo esplicito di votare in Parlamento contro i Dico, già essa ben altro che «richiamo pastorale», visto il pressing sulle coscienze dei parlamentari e il riferimento vincolante all’ultimo documento «ex cathedra» del Papa.
Di che si tratta stavolta con l’appello ai parroci di Betori? Di una ben precisa teoria dell’«egemonia», che usa un «concetto» conciliare per volgerlo nel suo esatto contrario. Questo: la Chiesa come articolazione orizzontale di comunità. E il punto vien fatto valere così. Le parrocchie per Betori «non sono proprietà del clero. E se i laici si appoggeranno alle parrocchie per organizzare la manifestazione, non si potrà impedire al parroco di partecipare con i fedeli»». Da un lato quindi si preserva la distinzione, dallo stato, dei rami alti: La Chiesa dei Vescovi. Dall’altro però la distinzione viene «agita» per dare impulso all’autonomia del clero e dei laici, dentro la società civile. È una mobilitazione dall’alto insomma. Che incalza da entrambi i lati la «res pubblica» e che recupera la «Chiesa di base», preventivamente pungolata all’obbedienza sui princìpi dottrinali. Lotta dal basso perciò, e pressione sulle Istituzioni laiche dall’alto. In uno con la pretesa che i contenuti della fede siano vincolanti per la legislazione civile, e per credenti e non. Perché proprio questa è la democrazia basata sul «consenso», come più volte ha teorizzato sempre il cardinal Scola. Attenzione però, solo formalmente la distinzione tra Stato e Chiesa è rispettata, in tale impostazione generale. Perché di fatto in questo caso la Chiesa di Roma si muove come una forza organizzata di massa, come un partito trans-politico che plasma dinamicamente la legislazione.
Organizzando per via diretta e indiretta la mobilitazione attiva, e non già fornendo appigli alla coscienza dei credenti, o tracciando orientamenti generali per essa. Ne vien fuori uno stato laico pressato e in libertà vigilata. Dove lo sconfinamento della sfera religiosa è insieme diritto e fonte del diritto. Né vale l’argomento pedestre di quei devoti alla Della Loggia, che obiettano: «vanno bene gli ecclesiastici sulla mafia e la pace e non sui Dico?». Non vanno bene affatto. Perché un conto è l’intervento episodico o spontaneo su mali e beni universalmente sentiti, come il crimine, la guerra, la fame e le ingiustizie. Altro l’intervento sistematico e capillare sui singoli temi di legislazione, pungolato e organizzato dalla gerarchia: dalla società civile al Parlamento. E tramite il privilegio di un insediamento territoriale e di una sovraesposione mediatica a vantaggio della Chiesa, senza confronti con altri paesi. Infine e in conclusione. A che pro la Chiesa vuole oggi spaccare le coscienze e la società civile con la sua nuova mobilitazione capillare? Per conquistarsi un primato civile sulle ceneri della pace religiosa, e contro ruvide ondate anticlericali e magari «neoscismatiche»? Ce lo chiediamo sinceramente preoccupati. Ci pensino i buoni Pastori prima di raccogliere inattese tempeste.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.04.07, Modificato il: 04.04.07 alle ore 8.38