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EMMAUS HA PERSO IL SUO FONDATORE. HENRI GROUES, L’ ABBE’ PIERRE E’ MORTO. Jaques Chirac: "Tutta la Francia è profondamente commossa. Abbiamo perso un’immensa figura, una coscienza, un uomo che impersonificava la bontà".

Segnalazione del prof. Federico La Sala
martedì 23 gennaio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] La vocazione alla povertà più assoluta si coniuga infatti con l’impegno sociale, che in quegli anni significa impegno per la giustizia, per la libertà in una Francia assogettata e umiliata dal nazismo. Nel 1942 comincia così un’intensa azione di salvataggio delle vittime della tirannia nazista. E’ proprio in quegli anni che l’Abbé Groués diventa l’Abbé Pierre. Salva diverse persone (ebrei, polacchi) ricercate dalla Gestapo. Falsifica passaporti, diventa guida alpina e trasporta (...)

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> EMMAUS HA PERSO IL SUO FONDATORE. HENRI GROUES, L’ ABBE’ PIERRE E’ MORTO.

martedì 23 gennaio 2007

Quella volta, tre anni fa, con l’Abbé Pierre

di Maurizio Chierici *

Parlava con un filo di voce. Ma le parole erano le parole di sempre, intransigenti nel pretendere le stesse cose che da cinquant’anni continuava a chiedere: guardare non basta. La commozione è un sentimento sterile se non si vive la vita degli altri. Gli altri che hanno accompagnato l’Abbé Pierre sono gli ultimi senza nome, spesso «sans papier», stranieri clandestini in fuga da fame e paura. Ogni tanto mi sfiorava il braccio mormorando: «Come sono stanco, vorrei respirare...». Si aprivano silenzi interpretati dalla folla accorsa per ascoltarlo come un invito alla meditazione. E il silenzio dell’Abbé Pierre diventava il silenzio di tutti. Le pause si allungavano fino a quando riapriva gli occhi: «Un’altra domanda...».

Succedeva tre anni fa, ultimo incontro nella Pieve Romena a Pratovecchio, parco del Casentino. Si presentava un libro di poesie uscito in Francia mezzo secolo prima: Foglie sparse, per la prima volta firmato col nome dietro il quale il vecchio cappuccino era nascosto negli anni della Resistenza. La lettura dei versi dedicati agli «angeli custodi» suscita sgomento: «Ma dove siete, cosa fate? - c’è troppa sofferenza - c’è troppa miseria - in mezzo a troppi farabutti perbene». Espressione che suona forte perché siamo seduti sull’altare della Pieve troppo piccola per un gigante piegato dall’età.

La folla si allunga nel sagrato. E si apre mentre il basco dell’Abbé Pierre l’attraversa, appoggiato al bastone. Tanto tempo fa Sergio Zavoli lo aveva chiamato «monsignor Spazzatura» e quando glielo ricordo il sorriso si accende di felicità. Non alza la voce, non per stanchezza, forse non ha mai gridato nella lunga vita, eppure nelle Pieve Romena le sue parole attraversavano i nostri giorni annunciando la catastrofe che ci avrebbe coinvolti, molto, molto più di quanto lo siamo, se non riusciamo a capire che la disattenzione lentamente si trasforma in un crimine contro umanità e democrazia.

«Buttate via il fastidio di quando guardate gli stracci della gente che ai vostri occhi sporca le vostre città. Bisogna chiedere, chiedere, chiedere per restituire i diritti rubati a chi soffre per la frenesia del nostro accumulare beni, distinzioni sociali, poteri. Aiutiamo i politici ad ascoltare e non a parlare sempre e soltanto con persone simili a loro. Non capiscono che il silenzio può aiutare la preghiera che invoca giustizia».

Si deve essere ricordato di essere in un luogo sacro, è il pensiero che addolcisce la tensione di certi vecchi signori sbalorditi dall’intransigenza dell’ospite. Il lungo applauso sorprende l’Abbé Pierre. Si è abituato a sopportare gli egoismi e forse indovina quale realtà sta visitando, Italia 2003. «Possiamo essere tutti egoisti in dimensioni diverse. Nessuno è indenne dall’errore più grave: lo ripeto, è l’indifferenza. Il nostro mondo è diviso nelle zone grigie dell’indifferenza, nelle nere della violenza e nelle zone bianche dove si coltiva l’attenzione. Ma il grigiore si allarga e la pigrizia attenua l’analisi della società. La cosa più importante è reagire con entusiasmo ad ogni situazione difficile. Coloro che non sono né caldi, né freddi rischiano di finire nel pantano di chi fa della vita una gara per accaparrare tutti i beni possibili. Sono loro le periferie più drammatiche dell’umanità».

Si può resistere a queste rapine morali e con quali mezzi?, voglio sapere dall’uomo che ha imbracciato il fucile per impedire razzismo e genocidio e ha rischiato la vita organizzando fughe di ebrei in Svizzera e Spagna. «Bisogna mandare al governo chi ha ben chiaro, senza silenzi e ambiguità, che prima della guerra è doveroso tentare tutte le soluzioni possibili, non essere impazienti di usare le armi vendendo menzogne. Chi imbroglia va isolato, disprezzato per ciò che fa finta di non sapere a quali tragedie contribuisce sorridendo come un padre di famiglia».

Mi sfiora con la mano: «Vorrei andare...», lentamente se ne va. Più tardi gli chiedo di un’amicizia poco frequentata dalle biografie: lettere e incontri col dottor Schweitzer. Il giovane Abbé Pierre gli scrive pagine e pagine con tante domande. Riceve risposte telegrafiche e l’invito di andare a Lambaréné per parlare e capire. E l’Abbé Pierre visita l’ospedale e si consola osservando come la vita del grande dottore bianco in fondo somigli alla sua. L’Abbé dorme fra le baracche, Schweitzer fra gli ammalati africani. Schweitzer è un teologo protestante, l’Abbé un francescano che stava per diventare vescovo e ha scelto di abitare fra i senza niente. Ma qualcosa li divide: il dottore parla poco e l’Abbé lo tormenta con i dubbi. Il dottore si è tenuto lontano dalla politica, l’Abbé ha fatto il deputato sia pure in modo insolito: di giorno in parlamento, la notte coi baraccati.

Ogni giorno il dottore si siede all’organo per suonare Bach, all’Abbé è mancato il tempo per amare la musica. Un consiglio Schweitzer glielo dà: meno discorsi, meglio lavorare in silenzio. Ma sul tavolone di Pratovecchio, davanti alla zuppa che pesca lentamente, l’Abbé Pierre fa capire che da questa diversità nascevano atteggiamenti disuguali anche se l’impegno era lo stesso. La lontananza aveva impedito a Schweitzer d’essere coinvolto nelle paure della guerra mondiale. Non sapeva come erano cambiate le città. Profughi e stracci. Per consolarli bisognava parlare per chiedere, sempre e a tutti: spiegando. L’Abbé Pierre sorride col cucchiaio in mano ma non dice se l’amicizia è continuata.

* l’Unità, Pubblicato il: 23.01.07, Modificato il: 23.01.07 alle ore 12.58


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