Per favore niente gendarmi
di MICHELE AINIS *
Deaglio può aver torto, e probabilmente ha torto. Ma la sua incriminazione rischia di farne un martire, e oltretutto rende un pessimo servizio alla democrazia. Perché incrina la fiducia sulla possibilità di risolvere i conflitti d’opinione senza il soccorso dei gendarmi.
E perché insinua il sospetto - ben più devastante di quello avanzato da Deaglio - che in questo paese sia vietato muovere denunce nei confronti del Palazzo, che la politica sia una zona franca, un’isola presidiata con le armi.
Vediamo dunque i fatti. Nel film-documentario «Uccidete la democrazia» s’affaccia la tesi che alle ultime elezioni i voti bianchi siano stati trasformati in altrettanti voti per Forza Italia, grazie a un software malandrino installato non si sa bene dove, né da chi. Denuncia verosimile, benché con ogni probabilità non veritiera. Anche perché il crollo delle schede bianche - omogeneo in tutto il territorio nazionale - descrive un’anomalia statistica, un episodio senza precedenti. E infatti questa tesi ottiene subito l’appoggio di molti addetti ai lavori, sollevando un polverone. Ma la responsabile dell’ufficio elettorale dell’Interno dichiara ai magistrati che nella notte del 10 aprile scorso non si è consumata alcuna frode statistica. E i magistrati a loro volta iscrivono Deaglio nel registro degli indagati per aver violato l’articolo 656 del codice penale: diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose. Da qui un primo dubbio, un primo punto critico. Difatti per imbastire un’accusa di questo tipo serve un accertamento istruttorio: serve dunque la consulenza d’un perito che ovviamente non sia parte in causa. Avrebbe potuto chiederla il pm, rivolgendosi a un esperto del settore. Ma questa funzionaria non è un tecnico, ed è inoltre parte interessata, proprio a causa del ruolo che essa riveste al Viminale. Da qui allora il sospetto, l’ombra che avvolge tutta la vicenda. Perché sta di fatto che se oggi denunzio il mio vicino per avermi rubato dentro casa, e domani i giudici mi imputano il reato di calunnia, mi trasformo subito da vittima in colpevole, sono costretto a difendermi dalla mia stessa accusa. È la tecnica già sperimentata in lungo e in largo negli Anni Sessanta, quando le grandi denunce politiche e sociali venivano bloccate mettendo sotto processo i denuncianti. Anche a costo di riesumare questo o quel reato d’opinione previsto dal «fascistissimo» codice Rocco, come adesso capita a Deaglio.
Intendiamoci: la democrazia non implica una licenza d’offendere impunemente il prossimo, o di turbare la vita collettiva. E d’altronde - come diceva il giudice Holmes - la tutela più rigorosa della libertà di parola non proteggerebbe un uomo che gridasse senza ragione «al fuoco» in un teatro affollato, provocando il panico. Ma al contempo nessuna democrazia può avere paura degli scandali senza tradire se stessa, la fiducia nella propria capacità di verificarli e superarli. È la lezione di Gesù: ben vengano gli scandali, se servono a temprarci.
* La Stampa, 29.11.2006